Le elezioni del 1946 nel Vercellese

Marco Reis[*]

articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. VI, n. 3. settembre 1986

 

Vercelli, martedì 9 aprile 1946, ore 21: riapre le porte il “Parlamentino” della città

“L’anno millenovecentoquarantasei, addì nove del mese di Aprile alle ore ventuna e minuti quindici nell’aula consiliare del Palazzo Civico di Vercelli, in seguito ad avvisi del Sindaco uscente in data 2 aprile corrente n. 5338, regolarmente notificati, come risulta da referto in atti, si è riunito il nuovo Consiglio Comunale nominato nelle elezioni generali amministrative del giorno 24 marzo 1946…”. Così, nella calligrafia precisa e svolazzante di un solerte impiegato comunale, e sotto la puntigliosa dettatura del “Segretario Capo Reggente Cav. Uff. Porta Pietro”, si apre la prima pagina di un nuovo registro nell’archivio comunale di Vercelli.

È la prima pagina del primo registro della prima amministrazione, eletta con il voto davvero di tutti, cioè, per la prima volta, anche col voto delle donne. È la prima pagina dopo tanti anni di buio, ed anche questa è costata un duro prezzo; per questo motivo sono tanti, tantissimi, i vercellesi che hanno voluto essere presenti all’appuntamento.

Anche questo diritto di partecipazione costa un bel po’ di fatica: quella sera di martedì 9 aprile 1946 i primi avevano iniziato a mettersi in coda due ore prima, davanti alla porta dell’aula consiliare. E la fila si era man mano allungata nell’atrio, e giù per lo scalone, e poi ancora in piazza, dove diversi ritardatari previdenti avevano pensato bene di portarsi la sedia da casa. Per fortuna, il cav. uff. Pietro Porta ha pensato anche a loro, e ha fatto piazzare gli altoparlanti, cosicché anche l’atrio, lo scalone e la piazza del Municipio diventano un’unica propaggine del Consiglio comunale. Sembra realizzarsi veramente lo slogan che vuole “il Comune al popolo, il popolo al Comune”.

Verso le 9, attraversando la folla, stringendo decine di mani, i consiglieri raggiungono i loro posti. Si siedono compunti. Sono quasi tutti in scuro, compresi dalla solennità del momento, raggruppati nei due ordini di banchi contrapposti: comunisti e socialisti da una parte, democristiani e indipendenti dall’altra; a sinistra e a destra senza troppe vie di mezzo; maggioranza e minoranza… ed è così che le fotografie dell’onnipresente Giachetti (Baita) ci restituiscono ancora oggi l’immagine severa dei due blocchi. Però è l’immagine non tanto di una divisione, quanto, piuttosto, del ritorno ad una dialettica, ad una democrazia che certo è anche conta dei voti e calcolo delle maggioranze. Anche questa è una conquista. Esattamente come lo fu l’unità più stretta nei tempi dell’emergenza, negli anni di ferro e di fuoco del fascismo, della guerra e della Liberazione.

Il primo Consiglio comunale di Vercelli comincia con una piccola delusione, e con un po’ di fatica aggiuntiva per la gente che si stringe in piedi nello spazio riservato al pubblico, lungo lo scalone e nella piazza: prima della festa di insediamento della democrazia in Comune (o, a seconda dei punti di vista, prima della festa di insediamento della “maggioranza popolare socialcomunista”), c’è da raccogliere l’eredità del passato, occorre conoscere i conti e i problemi concreti che bisognerà affrontare. Questo compito notarile tocca a Guido Sola Titetto, comunista, posto nell’incarico di sindaco provvisorio dal Cln già dal 26 aprile dell’anno prima, all’indomani della Liberazione, insieme ai vicesindaci: il professor Nino Marinone e Carlo Ferrando.

Per quasi un anno la Giunta popolare (o Amministrazione straordinaria) aveva lavorato duramente: doveva “defascistizzare la vita del Comune, infondere un nuovo spirito alla attività della Amministrazione, provvedere alla smobilitazione di tutta la bardatura di guerra, sovvenire agli urgenti bisogni di una più larga assistenza imposta dalle aumentate difficoltà della vita, creare la massima possibilità di lavoro…”. Tutto questo, naturalmente, in mezzo ai mille ostacoli quotidiani di una città appena uscita dalla guerra, a cominciare dal problema di assistere “migliaia e migliaia di persone indigenti e reduci”.

Sola Titetto legge la sua relazione per più di un’ora e mezza. È un elenco impressionante di problemi che, quasi simbolicamente, vengono buttati a mucchi sul tavolo del primo Consiglio comunale, quasi a ricordare che, anche dopo la vittoria, la democrazia è prima di tutto fatica e impegno, è oscura quotidianità e non solo eroismo.

Ci sono le casse comunali da rimettere in sesto, i debiti ed i mutui cui fare fronte. Ci sono i 7.130.183 lire e 45 centesimi ancora da racimolare per pagare gli ultimi conti dell’occupazione tedesca, compreso 1.260.115 lire di debito alla voce “costruzione fortini e posti di blocco”. Ci sono i materiali e gli arredi ancora da cercare e inventariare, per poter restituire almeno qualcosa agli enti e alla gente cui erano stati sequestrati: i prodi cavalieri teutonici avevano rubato di tutto, persino i materassi. C’è il dramma dei dipendenti comunali: sono troppi, molti sono “vecchi e vecchissimi… tutti bravi operai, pieni di buona volontà, ma che più non possono rendere, perché le loro forze sono state logorate dal lungo lavoro”; bisogna mandarli in pensione, ma “l’Amministrazione comunale non può non considerare le condizioni di assoluta indigenza, in cui verrebbero posti se venissero allontanati dal lavoro”.

Poi ci sono i problemi di funzionamento degli uffici, del regolamento edilizio, dei lavori in corso, del trovare la legna da ardere per permettere alla gente di scaldarsi il prossimo inverno… E ancora: il problema delle case che mancano perché da anni non se ne costruiscono più, delle caserme vuote da riutilizzare, dei pozzi neri da risistemare, delle scuole, dell’epurazione, del razionamento, della biblioteca e delle “1.863 famiglie con 5.552 persone” che affollano l’Elenco dei poveri: un elenco interminabile e triste, compilato in un’epoca in cui “poveri” voleva dire poveri davvero.

Dopo un anno di lavoro duro e cinquantotto cartelle fitte fitte di problemi e di autentici drammi da affrontare, la Giunta popolare può finalmente passare la mano, non senza aver invocato un’ultima volta “le idealità patriottiche che ci tennero stretti nella dura lotta per la liberazione della nostra Patria dal fascismo e dalla occupazione tedesca, e che devono continuare a tenerci uniti nel vincolo di concorde collaborazione per il miglior avvenire di Vercelli”.

Un lungo applauso e, per l’insediamento ufficiale della nuova Amministrazione, al microfono della presidenza viene chiamato il consigliere anziano: è Francesco Leone, “capo carismatico dei comunisti vercellesi”, combattente della libertà in Italia e in Spagna, consultore nazionale, un uomo che si è conquistato il diritto di esordire con una malcelata punta d’orgoglio, anche personale: “Signori consiglieri, ironia o giustizia della sorte hanno voluto che a presiedere la prima seduta del Consiglio comunale liberamente eletto dal popolo vercellese, dopo più di venti anni di oppressione e malgoverno fascista, sia proprio uno dei cittadini più perseguitati dal fascismo, sia un rappresentante di quel partito contro cui più si accanì l’odio, la calunnia, la menzogna, il terrore dei fascisti”.

Brevi e solenni parole, ancora un appello all’unità che non va perduta, poi le ultime formalità prima del voto per sindaco e Giunta, compreso il primo “caso” politico del rinato Consiglio. All’appello, infatti, mancano due consiglieri, entrambi comunisti: Adele Ivaldi e Francesco Bertolone; una delle sole quattro donne elette in Consiglio, ed un bravo operaio, militante fin dai primi momenti della clandestinità. Non è una assenza casuale: il Pci ha deciso di rimaneggiare la propria delegazione inserendovi i primi due degli esclusi (l’operaio Vittore Domiglio, che dopo alcuni mesi verrà eletto sindaco, e Guido Milesi). Ma il fatto rimarchevole sta nel metodo scelto alfabetismo, obbligatoria per coloro che vengono eletti; per questa mancanza, il Consiglio ne deve dichiarare la decadenza, procedendo poi alla surroga. Così è deciso. Così bisogna fare: sono i tempi.

La minoranza della “destra” vorrebbe almeno segnalare questo comportamento che, invero, non ha l’aria di rispettare in tutto e per tutto la volontà del popolo vercellese, ma l’unico che ne parla è il professor Ermenegildo Bertola, leader del gruppo democristiano, già rappresentante della Dc nel Cln, il quale prova almeno a chiedere “se proprio i due consiglieri sono analfabeti”. Lapidaria e davvero figlia dei tempi la replica di Leone, il quale risponde “che applica la legge e non va a indagare oltre” .

Manca ormai poco alla mezzanotte. L’aula è ancora affollatissima, e c’è ancora gente in piazza: il sindaco si fa o no? Finalmente, si va ai voti. La sinistra ha scelto il “medico partigiano” Francesco Ansaldi, comunista; la Dc e gli indipendenti tentano una non troppo sottile manovra tattica per incunearsi nel muro socialcomunista (una mossa, tra l’altro, ripetuta identicamente – e con gli stessi risultati – trent’anni dopo, nel 1975, alla ripresa di una Giunta di sinistra), e candidano d’ufficio il segretario della Federazione socialista, il consigliere Giovanni Savoia: non si sa mai, i sette consiglieri del Psiup sono l’ago della bilancia e, forse in questo modo…

Ma l’ago non si sposta e il muro non si incrina: Ansaldi riceve tutti i ventuno voti dei socialcomunisti presenti, mentre lui, da gentiluomo, depone scheda bianca. Dei sedici voti in mano a democristiani e indipendenti, quindici confluiscono inutilmente sul nome del socialista Savoia. Il sedicesimo voto è quello di uno sconosciuto consigliere di minoranza, non troppo convinto circa la effettiva possibilità di riuscita della sagace mossa. Gioco per gioco, l’anonimo scettico butta nell’urna un suo allegro diversivo, sotto forma di un punto esclamativo di troppo. Dalla sedicesima scheda viene fuori così uno squillante “Savoia!”: ed ecco la prima scheda nulla del primo Consiglio eletto da tutto il popolo.

Ansaldi ringrazia con poche parole emozionate, e poi le ultime votazioni scorrono lisce: la minoranza si limita a una astensione, per non accentuare ulteriormente i motivi di scontro. Si votano rapidamente gli otto assessori (sei effettivi e due supplenti) che comporranno la Giunta: quattro socialisti, tutti effettivi (Romeo Piacco, Giuseppe Sereno, Adolfo Mandosio e Remo Bariosco), e quattro comunisti (Ugo Anselmo, Anna Marengo, Giovanni Crosa e Silvio Ortona). La seduta si chiude così.

La mezzanotte è passata da un pezzo. I consiglieri e i molti vercellesi ancora presenti lasciano il Municipio, ma giù, in piazza, ci si ferma ancora a discutere, a commentare. I capannelli si sciolgono a poco a poco, vinti solo dal sonno, nello scenario tranquillo di una città ancora tutta pavesata dai manifesti e dalle scritte della prima vera campagna elettorale dopo tanti anni oscuri. Domani mattina si ricomincia.

Ricomincia anche la campagna elettorale: fra una cinquantina di giorni si vota di nuovo, e per qualcosa di ancora più importante: per la Costituente e per la scelta fondamentale tra monarchia e repubblica. Anche a Vercelli e nel Vercellese il termometro delle passioni resta altissimo e, semmai, aumenta ancora: la sinistra (e soprattutto i comunisti, che a Vercelli, a differenza dei risultati generali, hanno superato i socialisti) si tuffa per una riconferma dei primi grandi risultati avuti, e la “destra” (che, qui, è quasi esclusivamente la Dc) è al lavoro per recuperare altri spazi.

Si è dunque ancora nel pieno di un grande processo di chiarificazione, di definizione e di costruzione delle stesse aree di insediamento sociale dei partiti, ciò che arriverà anche alla frattura e alla “democrazia bloccata” che in buona misura caratterizza ancora la situazione italiana: ma, soprattutto in questa fase, divisione e costruzione sono più che mai le due facce di una stessa medaglia. Non a caso, in così pochi mesi l’Italia sa darsi un intero nuovo assetto politico: dalla legge elettorale fino al presidente della Repubblica, passando attraverso la ricostituzione di tutte le amministrazioni locali e del massimo organismo legislativo. Tante passioni ed anche divisioni, certo, ma la democrazia ha fretta di crescere.

La campagna elettorale per il referendum: il popolo scende in piazza

Se il 9 aprile 1946 è stato un po’ l’atto di nascita istituzionale della rinnovata democrazia nel Vercellese, bisogna naturalmente ricordare che questa non fu che una delle diverse tappe attraverso le quali
l’intero Paese in quei mesi andava ricostruendo tutta la propria fisionomia politica, lasciandosi man mano alle spalle l’epopea della Liberazione ed i decenni del fascismo.

Di lì a poche settimane, come accennato, si giunge al grande e doppio appuntamento politico del 2 giugno, con il voto per la Costituente e con la scelta tra monarchia e repubblica. Si tratta di settimane e mesi di vita davvero intensissima, quasi tumultuosa per la democrazia italiana, basta tenere presente la sequenza degli avvenimenti: il 3 gennaio il governo De Gasperi emana la nuova legge elettorale; già tra il 10 marzo e i primi di aprile si tiene la tornata elettorale per le amministrazioni locali; il 2 giugno c’è il grande voto politico ed istituzionale; il 13 giugno si ha la definitiva partenza del “re di maggio” dall’Italia, mentre già il 25 inizia ad operare la Costituente; il 28 il ciclo si conclude con l’elezione di De Nicola a presidente della Repubblica. Riletta con gli occhi di oggi, questa sequenza potrebbe dire molte cose su quella che abbiamo definito la “fretta di crescere” della nostra democrazia.

E tutto questo non basta, perché, ovviamente, c’è da tenere presente che, al di là dell’ossatura strettamente istituzionale, è tutto l’insieme dell’assetto politico democratico che va ricostruendosi in forma nuova, dopo un’intera generazione “saltata” dal fascismo e nel pieno di una catastrofica situazione post-bellica. Quella che nasce in Italia è, insomma, una moderna democrazia di massa, fondata su un sistema di partiti che non conosce precedenti nella storia anteriore.

La situazione a Vercelli e nel Vercellese non si discosta da questo quadro generale, salvo che per i diversi rapporti di forza tra i partiti: come vedremo in dettaglio, è infatti maggioritaria l’area della sinistra (che, al suo interno, vede subito il Pci come primo partito, a differenza del dato nazionale), fortissima è la democrazia cristiana, mentre ben poco spazio resta agli altri laici (liberali, azionisti, ecc.). Tutti i partiti sono però accomunati da uno straordinario slancio verso l’esterno, da un attivismo frenetico che, se da un lato sottolinea questa fase “costituente”, dall’altro è, a sua volta, il riflesso di uno slancio, di una tensione positiva che percorre l’intera società: le passioni, le volontà, le speranze più diverse si affollano in un unico magma. Un piede è ancora nei Cln, nell’unità contro il fascismo; l’altro è già fuori, in direzione di un qualcosa che è persino difficile avere chiaro, ma che, sicuramente, dovrà essere qualcosa di nuovo.

A testimonianza di questo tipo di tensione, a Vercelli si verifica un momento particolare per un po’ tutti i partiti: è quando, verso la fine di agosto del 1945, l’Amministrazione militare alleata liberalizza l’uso della carta. Carta vuol dire giornali. Giornali vuol dire parlare alla gente, presentarsi, farsi conoscere, dialogare, combattere, proclamare, propagandare.

È un’autentica esplosione. Fino a quel momento, da oltre un anno, l’unica voce locale era stata “L’Eusebiano”, il bisettimanale della Curia, l’unico ad essere stato parzialmente tollerato dal fascismo; “La Sesia” era infatti
incappata anch’essa nella chiusura obbligatoria. Dal giorno della Liberazione, poi, i vercellesi avevano potuto avere lo straordinario “Vercelli Libera”, strumento diffusissimo del Cln, che proprio ai primi di settembre esaurì la sua funzione, cedendo il passo ai fogli di partito.

Ma dalla fine di agosto, e nel giro di poche settimane, è un’escalation: il 31 agosto riapre “La Sesia”, una settimana dopo ecco il ritorno della gloriosa “La Risaia”, a portare la voce dei socialisti. Altri dieci giorni ed ecco la prima invenzione: è “La Libertà”, creata dai democristiani, e dopo una settimana la seconda invenzione: “L’Amico del Popolo”, giornale dei comunisti, l’unico tra i fogli di partito ad uscire regolarmente ancora oggi. I liberali non sono da meno e danno vita, una decina di giorni dopo, a “La Verità”. Ai tre giornali tradizionali in poche settimane si aggiungono altrettanti fogli nuovi i quali, fin dalla testata, gridano forte il proprio programma. Sono davvero molti, per una piccola città di provincia. Se poi a questi aggiungiamo la successiva breve meteora dell’azionista “La Via Nuova” (uscito il 13 marzo ’46, per la sola durata della campagna elettorale), e poi “La Fiamma” del Psli (dal febbraio ’47, dopo la scissione di palazzo Barberini), il quadro è completo: un autentico arcobaleno di voci nuove, che sintetizza simbolicamente tutti gli sforzi e le speranze di quei momenti.

Tra tutte queste voci è subito battaglia: soprattutto dal momento in cui viene fissata la data delle prime elezioni amministrative, questi fogli diventano qualcosa di più di semplici strumenti propagandistici dei partiti. A loro è affidato il compito di propagandare, ma anche di descrivere gli stessi partiti, di chiarire bene le distinzioni ideologiche, di affrontare tanto la minuta polemica quotidiana quanto i grandi temi che stanno di fronte al Paese, di educare alla democrazia. Perciò tutto è necessariamente affastellato, semplificato, con ben pochi chiaroscuri: questi giornali si trasformano in autentiche cannoniere, dalle quali si sparano bordate impressionanti.

Ce n’è per tutti e non mancano nemmeno gli spunti di colore. Francesco Leone diventa “il piccolo padre bicciolano”, Ermenegildo Bertola un “serafico [che] si agita come un ossesso”, naturalmente non mancano le accuse a “L’Eusebiano” “già foglio supplementare del Pnf”, cui fa eco l’accusa a “La Risaia” di essere “il foglio supplementare de L’Amico del Popolo”; infine, se il liberale Lo Iacono trova spazio sulle colonne de “La Libertà”, eccolo trasformato in “Fernando Lo Diacono”. Insomma non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Per non parlare poi della battaglia ideologica, specchio delle rigide schematizzazioni e contrapposizioni esistenti. Scegliamo a caso: “L’Amico del Popolo” saluta con gioia e solennità la visita a Vercelli di una delegazione della gioventù sovietica, proveniente da un Paese dove non ci sono “né “crisi né disoccupazione”, ma solo “innalzamento del livello di vita dei lavoratori” e persino “cultura per il popolo” . Gli risponde subito, con opinioni “leggermente” diverse, “La Libertà”: “La Pravda mente […] dieci prigionieri russi si suicidano piuttosto che tornare”. E non potrebbe essere diversamente, facendo il confronto fra “salari in Usa e salari in Urss”. Per non parlare di uguaglianza nella patria del socialismo, dove persino dal bottegaio “ufficiali e stakanovisti godono di sconti speciali”.

Da una parte e dall’altra non si risparmiano colpi ed anche i “sacerdoti politicanti” de “L’Eusebiano” rimboccano le maniche: primi fra tutti don Garione e don Martinetti (definito da Leone “penna d’oro”), che, a differenza della giovane Dc, sfruttano l’esperienza secolare del clero nel cosiddetto rapporto di massa. Alla Dc non danno solo un appoggio: spesso hanno l’aria di dare l’esempio su come si fa a battagliare col “piccolo padre bicciolano”. Dopo il deludente risultato elettorale del 24 marzo arriveranno anche a rimproverare la Democrazia cristiana stessa per non aver condotto con sufficiente energia la campagna elettorale. Anche per questo si meriteranno il cavalleresco elogio di Leone, fiero di aver trovato avversari di così alto livello: “Ella, almeno, reverendo – scrive all’ex cappellano degli arditi, don Garione – va giù diritto allo scopo, senza pretese di fare della tattica, dell’alchimia e della strategia, e non perde le staffe”. Pagine vere che spesso sembrano tratte da una sceneggiatura di Guareschi per “Peppone e Don Camillo” .

La violenza di questi scontri politici è, infatti, una violenza del tutto verbale, dotata di forte esteriorità. Pare quasi una violenza liberatoria e didattica. Liberatoria, perché vi si scorge spesso il gusto sanguigno del confronto: schematico e settario fin che si vuole, ma finalmente libero, alla luce del sole; e didattica, perché, semplicemente, si tratta di “generali” che stanno parlando alle proprie truppe, che stanno spiegando in modo semplice (forte, fortissimo, ma quasi mai rozzo o volgare) i termini del contendere, in uno scenario nuovo che è ancora tutto da conoscere.

Questo è un punto importante per capire la realtà vercellese di quegli anni (e, in fin dei conti, anche di questi nostri anni) e c’è, anche in questo caso, un episodio particolare che aiuta a comprendere meglio. “La Verità”, come si ricordava sopra, era nata il 6 ottobre 1945 come organo del Partito liberale, e già il 10 agosto dell’anno successivo, poco dopo le elezioni, aveva cessato di esistere in questa forma, riprendendo vita a fine settembre, ma come “settimanale d’opposizione”, diretto da Tino Morbello. È solo a partire da questo momento che “l’azzimato Tim” può gettarsi in una violenta campagna di denigrazione del movimento partigiano (in particolare contro Moscatelli e Moranino).

Questo sganciamento dal Pli, che non è solo formale, merita attenzione: è il segnale che, tutto sommato, il padronato vercellese non è sostanzialmente disposto a giocare su un terreno profondamente reazionario e qualunquista, nemmeno in presenza di un movimento operaio forte e compatto. Per questo Lo Iacono aveva chiesto ospitalità al democristiano “La Libertà”, ed è per questo che Leone arriverà quasi a scusarsi per averlo soprannominato “Lo Diacono”: “da quando non fa più parte della redazione de La Verità, questo giornale è diventato tale che dobbiamo proprio pensare che quanto di signorilità e finezza possedeva prima, era opera tua”. Lotta politica, quindi, ma entro limiti… cavallereschi.

Non a caso, parallelamente alle bordate più rumorose, sui giornali cittadini troviamo spesso inviti o appelli come questo, firmato a metà maggio ’46, “per l’ordine elettorale”: “I dirigenti provinciali dei partiti […] si dichiarano pienamente intesi che la campagna preparatoria alla consultazione elettorale […] si svolga nell’ordine più assoluto [e si impegnano] ad astenersi da qualunque atto che possa indurre a violenza e a coazione delle altrui libertà di pensiero e di propaganda”. Insomma: a parte tutto, c’è, e deve restare, un largo terreno di convergenza sul piano del rispetto delle regole che ci si è dati, e che bisogna continuare a costruire. Come sintetizza un titolo de “La Sesia”: “Democrazia è innanzitutto rispetto fra gli individui e fiducia”.

Tutto ciò, anche nei momenti più aspri (e, dopo questo ’46, verrà il durissimo ’48), resta, o cerca di restare, come una costante nei rapporti politici vercellesi. Non è solo una caratteristica sociologica; è anche un dato strutturale: quella vercellese, per molti aspetti, resta una società quasi completamente contadina, dove di industrializzazione ne è arrivata poca, e, quindi, dove è meno intensa la conflittualità dei rapporti di classe. E se, certo, le tradizioni di lotta del movimento bracciantile sono qui straordinariamente forti, non va però dimenticato, ad esempio, che si trattava pur sempre di un movimento legato a una fase stagionale, e sostenuto da una forte componente di immigrazione temporanea di lavoratrici e lavoratori.

Oltre a questo, comunque, un altro essenziale elemento accomuna tutti i partiti vercellesi e diventa patrimonio culturale di tutta la società locale: è il fatto che quella in cui si vive è e deve restare una società nuova rispetto al passato. Una società nella quale, davvero, sempre più protagonista deve essere la gente. Si badi: non si tratta tanto di riflessioni di teoria politica (anche se, per esempio, figure come Bertola, Leone ed alcuni altri non sono certo lontane dal livello del dibattito che è in corso nazionalmente), quanto, soprattutto, di una percezione concreta che è comune a tutti: “il popolo”, “le masse”, sono il soggetto principale dell’attenzione, il vero protagonista di ciò che sta accadendo. Ecco alcuni esemplificativi titoli di giornale: “Perché il popolo sappia”, “Ciò che urta al popolo”, “Solidarietà popolare”, “Partito di popolo”, “Il popolo vercellese si prepari a dire come pensa e cosa vuole”. Sono, si badi, titoli del democristiano “La Libertà”, non di un foglio socialcomunista.

Il popolo, infatti, si muove, partecipa, scende in piazza, lo si vede concretamente: tutta la campagna elettorale è un susseguirsi di manifestazioni di popolo, e per i grandi oratori le piazze straripano, come per Pietro Secchia, Luigi Longo, Pietro Nenni e Giulio Pastore, che concludono a Vercelli la campagna elettorale amministrativa di marzo. Naturalmente, in questa direzione, sono i comunisti (che, sotto la guida di Leone, danno il via ad alcuni comizi-happening davvero modernissimi) a mostrare l’attivismo più intenso, ma anche gli elenchi di comizi del Psiup non sono poi molto corti, né la Dc sta ferma a guardare, affiancata dall’intensa opera della Chiesa, che ovviamente non si limita agli scritti dei combattivi sacerdoti de “L’Eusebiano”.

Ancora, non deve sorprendere il fatto che, in tutto ciò, insieme alla consapevolezza dei problemi, delle contraddizioni, degli scogli che bisognerà affrontare, ci sia anche una sorta di intima gioia, di allegria, di senso di festa per tutto ciò che accade, e di cui si è protagonisti. Anzi, proprio la definizione di “festa” è una delle più ricorrenti nelle diverse cronache. Festa, speranza, gioco: anche questo, come nel caso della folla di comunisti entusiasti che va in grande anticipo ad occupare tutti i posti centrali del Teatro civico la sera di un comizio democristiano; così, tanto per dar vita a un “vivace contradditorio con gli oratori”. In fondo, dunque, si arriva ad un vero e proprio gioco, perché, come riferisce “La Sesia”, basta un pacato richiamo del professor Bertola a far tornare tranquilla la sala, e a “rasserenare gli animi”.

C’è, insomma, la consapevolezza di essere compartecipi di qualcosa di grande e di nuovo. In questo senso la doppia campagna elettorale del 1946, al di là dei risultati elettorali e dei suoi significati, appare già di per sé come un momento di grande importanza, e di costruzione del nuovo che deve venire.

Per trarne un bilancio vale la pena di riportare diffusamente una delle cronache di quei momenti. È la cronaca che ne fa “La Sesia” il 26 marzo, all’indomani del voto amministrativo: “Domenica s’è votato a Vercelli ed in 55 Comuni del Vercellese. Si constatava ieri sera, con soddisfazione, che grazie alla disciplina dei partiti e delle rigorose istruzioni impartite dalla Prefettura e dagli organi del servizio d’ordine, gli elettori presentatisi alle urne a Vercelli, Santhià, Trino, Crescentino, Cigliano e Gattinara, e nei centri minori come Lozzolo e Gifflenga abbiano potuto esprimere il loro voto in ordinata tranquillità”.

“La marcia verso il centro. Vercelli ed i paesi si sono svegliati di buon’ora, per la giornata di libertà. Ordine per le vie; e le brave scritte su tutti i muri. Sembravano, allora, destarsi dal fervore della campagna elettorale che a Vercelli aveva toccato il suo acme sabato sera. La massa operaia organizzata dal Partito comunista – è stato il più dinamico ed attivo a condurre la ‘campagna’ e non ha certo lesinato in spese – ha dato alla vigilia elettorale il carattere di una festa popolare. In piazza Cavour, nel cuore della città, sono convenuti, con drappi rossi e tricolori, operai delle fabbriche, operaie dei sobborghi, contadini e contadine delle frazioni, a frotte, a gruppi, a branchi in lunghe colonne. Non mancò nemmeno la popolare banda dei ‘cappuccinatti’.

Si ricordò che Vercelli aveva visto una manifestazione del genere solo il 25 aprile dello scorso anno – giorno della liberazione. La cosiddetta ‘marcia del sobborgo sul centro’ si veniva dunque a consolidare con una nota di pittoresco folklore? Fuori di ogni nota coloristica: la massa ha camminato e cammina; acquista una propria coscienza politica, afferma i proprii diritti al governo della cosa pubblica, è il ‘fattore nuovo’ fino a ieri guardato con diffidenza se non calunniato, ed ancor oggi con sospetto; ma un fattore insopprimibile, del quale è dovere tener conto. Bisogna capire le masse nelle loro esigenze spirituali e sociali, e dare il loro giusto valore nell’organismo vitale della Nazione.

Diverse migliaia di popolani hanno invaso la piazza; hanno cantato le loro canzoni; hanno ascoltato i discorsi dei loro rappresentanti locali […] Poi tutta quella gente, infervorata, come da un cuore a lungo represso – gli oratori hanno tenuto le masse dalle 20.30 alle 23 – in arterie animatissime si riversò verso la periferia. Ancora a piazza Torino ci fu una sosta per la proiezione di quadri sulle modalità delle elezioni. Domenica mattina quelle stesse persone quasi non riconoscevano più la città, dopo il sonno: essa stessa ancora sonnolente sotto un cielo grigio.

Le scritte ‘abbasso’, ‘evviva’ sembravano avere un diverso significato. Manifesti e parole col minio – sui muri e sui selciati – tutti insieme: e i soli sfregi sulle ‘liste’ e ‘programmi’ e manifesti degli antagonisti stavano ad  attestare dell’ardore della vigilia”.

” ‘Pazienza’. Chi domenica usciva di casa, aveva già in sé maturato la sua decisione, che nessuno più sarebbe riuscito a smuovere. E perciò si votava, serenamente.

La gente la prendeva come una festa. Lunghe code, specialmente al mattino dinanzi agli uffici elettorali. Le operazioni di costituzione dei seggi si sono svolte, in alcune sezioni, con lentezza esasperante – dalle sei fino alle nove – ma pochi si stancarono; pochissimi i segni manifesti di impazienza, specialmente da parte delle donne che furono più mattiniere per tornare in tempo alle faccende domestiche: la ‘novità’, la ‘dignità’ trapelava dai volti nella soddisfazione piena, nella coscienza del diritto e del dovere. I vecchi tornavano agli anni addietro e parlavano dei deputati d’un tempo, vecchi con i baffi e i favoriti. I giovani stavano piuttosto a curiosare ed a scherzare con le giovani che andavano alle urne.

Le suore pure sono state tra le prime: in fila e silenziose: e frammisti a popolane e professionisti, impiegati ed operai, i sacerdoti, senza turbamento e senza chiassate. Una festa dunque, sotto lo sguardo di carabinieri ed agenti – ce ne sono giunti in rinforzo anche da Torino – colmi di disposizioni severe per mantenere l’ordine ad ogni costo. Ma non successe nulla”.

“Altissima percentuale di votanti. A mezzogiorno aveva già votato una alta percentuale di elettori. Macchine dei partiti portavano dalle case alle urne vecchi ed ammalati. Ultraottuagenarie da sole, si presentarono alle urne a compiere ‘il loro dovere’.

I comunisti avevano organizzato in più parti della città piccoli posti – un tavolo tra bandiere – in cui si davano spiegazioni e modalità per l’esercizio del voto. Nel pomeriggio, verso le 17, in alcune sezioni cittadine le votazioni erano quasi ultimate; così nei paesi […] L’affluenza alle urne ha superato ogni più ottimistica previsione. Nella maggioranza dei Comuni si sono recati alle urne più del novanta per cento degli elettori […] Pure a Vercelli è stata alta la percentuale dei votanti, avendo raggiunto l’86 per cento […].

Per libertà di voto e percentuali di votanti Vercelli ed il Vercellese hanno dato dimostrazione di civismo, tanto più significativo e promettente in questa riapertura di lotta elettorale dopo il ventennio di dittatura”.

C’è, inoltre, un’ultima osservazione cui accenno brevemente. Vercelli ed il Vercellese restano pur sempre una limitata area di provincia; un’area, per di più, scarsamente industrializzata (a parte, allora, alcuni insediamenti di rilievo) e quantitativamente poco ampia. Come tale, naturalmente, sarebbe davvero improprio aspettarsi da essa un ruolo particolarmente avanzato da un punto di vista politico o culturale o sociale. È comprensibile invece il constatare, per esempio, un dibattito piuttosto schematico, vissuto molto di riflesso rispetto ai centri di direzione dei partiti, così come non ci stupiremo – fra poco, nell’ultima parte – nel vedere esiti elettorali quanto mai  semplificati, con una fortissima polarizzazione attorno ai tre partiti di massa.

Questa premessa, però, non deve cancellare alcuni aspetti qualitativi, o dare l’idea di un puro e semplice appiattimento politico-culturale. I comunisti, ad esempio, se è vero che si mostrano prima di tutto come una “massa ordinata”, estremamente disciplinata e diretta in modo ben accentrato, che ha trovato in Leone il leader giusto, forse davvero il “piccolo padre”, non scevro da toni paternalisticamente autoritari-carismatici, è altrettanto vero che è subito in grado di acquisire un netto primato nella sinistra: vale a dire, al di là dell’aspetto dei rapporti con il Psiup, di mostrare una straordinaria capacità di slancio e di apertura nella società; le stesse manifestazioni-happening prima citate segnalano uno sforzo di modernità, almeno sul piano dei rapporti di massa.

Analogamente, la Dc di Bertola, che arriva ad essere rimproverata dai “don Peppone” de “L’Eusebiano”, proprio per l’apparente “mollezza”, segnala invece una riflessione meno schematica, meno “dura” di quanto forse in Curia si vorrebbe, ma, politicamente più colta e moderna, più laica, in qualche modo già tesa ad andare oltre la fase di aggregazione pre-politica centrata attorno al confessionalismo. Se “L’Eusebiano” si muove a suon di ceffoni lungo la linea del “O si è con Marx o si è con Cristo”, seguita fermissimamente per “illuminare il popolo affinché non venga ingannato dai camuffati nemici della nostra Fede”, d’altro lato la maggiore pacatezza di Bertola riflette (oltre a una non dimenticata vicinanza con gli uomini oggi avversari, ma con i quali ha condiviso i rischi e le passioni della lotta al fascismo) una ricerca politica più di prospettiva così come le veementi accuse rivoltegli per la sua posizione “agnostica” di fronte alla scelta tra re e repubblica, non colgono il vero significato delle sue motivazioni: “Guai – scrive in quei momenti irti di difficoltà e di pericoli minacciosi per tutti – se gli italiani spezzassero la loro unità su questo problema, perché hanno altro più grave e più tragico da risolvere”.

Ancora più evidenti alcune tensioni di crescita nel partito socialista: da subito numericamente subalterni al Pci, i socialisti vercellesi mantengono fermamente la loro collocazione a sinistra, ma sono già spinti a cercare spazi nuovi, su una linea che è quasi “da ponte” tra i due maggiori partiti e che in parte richiama l’unità antifascista, ed in parte ipotizza una dialettica democratica non soffocata dallo scontro tra due blocchi. Il “caso Savoia” che si richiamava all’inizio apre uno squarcio in questo senso: solleticato dalle proposte di voto a un sindaco socialista, il Psiup resta nel blocco “socialcomunista”, ma sarà proprio il “Giuanin” Savoia (il segretario della Federazione, un galantuomo molto rispettato anche dagli avversari) a scrivere al riguardo una bellissima pagina su “La Risaia”. Con una sincerità al limite del candore racconta gli antefatti e le trattative tra i partiti: il Psiup, essendo l’ago della bilancia, potrebbe “abusare” di questa posizione, ma non sarebbe “onesto”, e, anzi, il suo primo tentativo è stato quello di “vedere se vi era la possibilità di un accordo, che consentisse ai tre partiti di massa di trovare una piattaforma per lavorare in comune per il bene della città”. Il tentativo naturalmente fallisce, i due blocchi devono ricompattarsi, ma quello che è venuto dal partito socialista è un altro dei segnali di una democrazia che saprà maturare, articolarsi, diventare ancora più ricca.

“Il popolo vercellese”, dunque, non solo si muove in forma di truppe che scoprono la gioia di ritrovarsi nelle piazze: tutta la situazione è in movimento, anche all’interno delle forze che lo rappresentano. Certo nel ’46 siamo ancora in una fase in cui è preliminare la necessità di contarsi, di distinguersi, quindi anche di dividersi e di scontrarsi: e scontri ancora più duri verranno di lì a poco, e per lungo tempo. Ma questo, appunto; è parso un passaggio necessario: sarebbe profondamente sbagliato pensare a quella situazione esclusivamente come ad una situazione di lotta e di tensioni, perché il retro della medaglia è quello di una intensa fase di costruzione della società che oggi conosciamo. Il che, mi sia consentito esprimere, non fa che aumentare il nostro debito verso coloro che di quella fase e di quelle passioni furono protagonisti.

Dai risultati delle elezioni una fotografia e una chiave di lettura della società vercellese

I dati e le considerazioni sui risultati elettorali (esposti nelle tabelle) meritano osservazioni a parte, anche per meglio cogliere alcuni elementi persino sorprendenti (e, comunque, peculiari) della società vercellese dell’immediato dopoguerra. Elementi che vanno anche molto oltre il puro e semplice dato elettorale e politico, e che contribuiscono a tratteggiare una fisionomia di fondo di questa terra.

Nell’esame degli stessi è necessario tenere presenti due avvertenze: la definizione territoriale del Vercellese è intesa in senso tradizionale; essa comprende, oltre al capoluogo, i cinquantacinque comuni presenti nel territorio provinciale a est della Dora, a nord del Po ed ovest del Sesia, e delimitato in alto all’incirca da una linea diagonale che unisce Roasio ad Alice Castello (cioè sostanzialmente il limite esterno dell’area risicola);
per semplicità sono state omesse le cifre assolute del voto del 2 giugno, ma si tenga conto che in questo appuntamento è più alta la partecipazione al voto, favorita dalla maggior tensione e valenza politica della scelta, e dal maggior numero di liste; perciò differenze in meno dei singoli partiti non sono necessariamente significative (come per il Pci, che scende dal 39,6 al 36,1, ma solo per uno scostamento di una novantina di voti), mentre differenze percentuali in più hanno un maggior significato (come nel caso dello Psiup, che cresce solo dello 0,6, ma per un apporto di circa cinquecento voti); i due voti, dunque, non sono meccanicamente confrontabili.

Il dato più immediato è, naturalmente, quello dei diversi rapporti di forza tra i due maggiori partiti: una situazione ben diversa dalle altre realtà provinciali e dalla stessa realtà nazionale.

Il Vercellese si caratterizza cioè come “zona rossa”: la Dc non ha il primato della maggioranza relativa a Vercelli città, e nel Vercellese lo consegue di poco solo grazie a una forte ridistribuzione di voti tra comunisti e socialisti. La maggioranza politica è comunque nettamente di sinistra, tanto nelle amministrative quanto nelle politiche, sia in città che nei centri minori; comunisti e socialisti sono chiamati alla guida di Vercelli (ventiquattro consiglieri comunali contro i sedici della “destra”) e di quarantadue comuni minori su cinquantacinque, anche se occorre precisare che quest’ultimo dato è reso più vistoso dal sistema elettorale maggioritario. I socialcomunisti, quindi, raccolgono, in complesso, dal 54,5 al 57,4 per cento dei consensi, contro il 39,4 dell’esito nazionale.

Ma se questo è il dato numerico di base, altri elementi più qualitativi vanno posti in evidenza. Innanzitutto all’interno della sinistra i rapporti sono già capovolti: i comunisti sono nettamente egemoni, soprattutto in città, dove il loro esito è almeno doppio rispetto a quello socialista (che, oltretutto, deve ancora vedere la scissione del Psli); nei centri minori il Psiup recupera molto, e le cifre del voto politico (con l’aggiunta dell’avvertenza precedente) lo dicono bene. Troviamo un primo dato strutturale: tra comunisti e socialisti il travaso è anche molto forte, le situazioni nei piccoli centri sono anche diversissime, e non di rado i rapporti tra i due partiti si invertono, ma le cifre globali praticamente non fanno una piega: il 2 giugno l’area socialcomunista è attestata attorno al 5,5 per cento, con uno scostamento di pochi decimi di punto tra la città e il complesso dei comuni minori. Ciò, all’inverso, vale naturalmente anche per l’area democristiana e moderata: la situazione vercellese è dunque molto omogenea culturalmente, ma anche molto compatta, rigida, caratterizzata da due blocchi contrapposti e nel complesso inamovibili.

In modo ancor più evidente questa rigidità emerge dalla polarizzazione delle scelte. In campo nazionale i tre maggiori partiti di massa fanno la parte del leone, raccogliendo un amplissimo 76,6 per cento dei voti, oltre i tre quarti dell’elettorato. Ma resta pur sempre un buon quarto che cerca spazio in un’area laica moderata (14,4 per cento a Udn, Pri, Bnl), o magari qualunquista (5,4 per cento all’Uq) e, almeno rispetto a tutte le altre decine di liste e raggruppamenti minori, non è insignificante neppure l’1,8 per cento degli azionisti. Nel Vercellese, invece, i tre poli quasi soffocano ogni spazio, sfiorando il 90 per cento il 2 giugno; nella città ci si potrebbe aspettare una più forte presenza di ceti medi di impronta laica, ma il dato si sposta di pochissimo: 88,5 per cento ai tre partiti maggiori. Il 24 marzo, poi, con un po’ meno elettori e meno liste, in città i tre superano il 92 per cento: resta appena un angolino per il 6,2 per cento degli indipendenti (di area liberale e moderata), mentre gli azionisti non riescono neppure a raggiungere il modestissimo 1,8 per cento e a conquistarsi una voce in Consiglio; nel parlamentino” della città entrano solo quattro gruppi, due di un blocco, due dell’altro.

Un voto semplice, dunque, polarizzato: che il popolo vercellese ha espresso compattamente, con una rigidità che riflette il substrato di una società di massa poco articolata anche dal punto di vista socio-economico; e lo ha fatto in modo plebiscitario: la partecipazione al voto è altissima (il 2 giugno: 95,1 per cento a Vercelli, 94,7 per cento nel complesso del territorio), i partiti, espressione organizzata della dialettica democratica, si radicano profondamente in ogni piega della società locale. E il confronto è un confronto tutto ideologico.

Quest’ultima constatazione nasce da dati che sono davvero sorprendenti. Guardiamo l’opzione monarchia-repubblica. Schierati apertamente per il passo avanti repubblicano, l’ultima tappa istituzionale per chiudere definitivamente la pagina tragica della dittatura e delle guerre, sono i comunisti, i socialisti, gli azionisti, i repubblicani e qualche altro gruppo minore. Il congresso democristiano ha anch’esso maggioritariamente indicato questa scelta, ma non la pone come un vincolo, ed è da qui che nasce l’agnosticismo integrale della Dc vercellese: esteriormente, la Dc si limita a mantenersi neutrale, vuole evitare la logica della scelta tra “salto” e “ritorno nel buio”, è tutta tesa a gettare acqua su un fuoco di tensioni che ritiene pericoloso per tutti.

Formalmente ci si potrebbe attendere un unanime voto repubblicano dalla compattissima sinistra, più una buona quota di adesioni provenienti dall’area moderata: la Repubblica dovrebbe stravincere. Invece non succede niente di simile. A Vercelli le forze dichiaratamente repubblicane superano il 56 per cento: le schede per la Repubblica arrivano a malapena al 57 per cento. In tutto il Vercellese, dove i partiti repubblicani raccolgono poco meno del 57 per cento, i voti per la Repubblica sono il 58 per cento. In alcuni seggi, addirittura, la corrispondenza dei voti è praticamente matematica, totale, assoluta. L’elettorato democristiano e moderato ha fatto la sua scelta in blocco; ha fatto argine e si è trasferito pari pari in campo monarchico. Un incredibile sussulto di ardore per casa Savoia? Un colpo di spugna sulle malefatte di “re Littorio”?

Le polemiche successive, per questo, arriveranno al livello delle bordate più violente, ma non si può cogliere il senso di ciò che è realmente accaduto in modo così netto nel Vercellese, se non si allarga il campo di osservazione. Confrontiamo questa situazione col dato nazionale, ed ecco due altre osservazioni.

È vero che il 58 per cento repubblicano del Vercellese supera il 54,3 per cento nazionale, ma è ancor più vero che questa pur sensibile differenza nasce da un quadro politico diametralmente diverso, in cui i rapporti
di forza tra i partiti sono semplicemente ribaltati. E come dire che cambiando l’ordine dei fattori, il risultato praticamente non cambia. C’è una spiegazione. Quello che cambia sono anche le grandezze assolute dei fattori. Se davvero la Dc fosse stata così “monarchica”, non si spiega come mai, invece, il 45,3 per cento totale dei partiti di sinistra e repubblicani in campo nazionale sia riuscito a capovolgere l’esito del referendum di ben una decina di punti.

Emerge quindi una specie di “legge di compensazione” della democrazia: nel Vercellese, per restare al nostro caso, la forza della sinistra è largamente maggioritaria, lo scontro è forte e tutto ideologico: tra i due blocchi c’è un “muro” attraverso il quale quasi non passa un voto; in campo nazionale la situazione è più articolata, relativamente meno tesa e relativamente meno ideologizzata. La sinistra (e soprattutto i comunisti) non è così forte: il pericolo del “salto nel buio” sembra così meno evidente. In questa condizione attraverso il “muro” può passare almeno quel 10 per cento che ribalta la situazione a favore della scelta storicamente più giusta e matura.

La Dc e le componenti moderate minori del Vercellese (o meglio: la gente, l’elettorato democristiano e moderato del Vercellese) non è semplicemente monarchica: reagisce, con un colpo di freno, a quella che ai suoi occhi, nella situazione specifica, è una spinta eccessiva. Né deve sorprendere il modo in cui tutto ciò avviene: leggendo “La Libertà” o lo stesso “L’Eusebiano” prima del voto non si sarebbe minimamente potuto cogliere i segni di ciò che sarebbe successo. Le scelte, le indicazioni, il tam-tam, il passaparola avvengono dietro la facciata, e neppure ciò che accade (e accade, certo) nei confessionali e dai pulpiti delle chiese riesce a spiegare in pieno quel tipo di voto. Anche questo aspetto produrrà accuse di ambiguità e di doppiezza, ma, ancora una volta, si tratta di polemiche che vanno lasciate nel loro tempo: questa parte di vercellesi si è mossa non con l’esteriorità delle piazze stracolme, ma si è mossa ugualmente, anche molto al di là delle più articolate e complesse espressioni dei suoi leader, per “compensare”, per raffreddare lo scontro. In fondo, si potrebbe concludere che ciò che accade nel Vercellese non è che il simbolo di una nuova Italia, che sta cercando e costruendo nuovi equilibri, tra difficoltà e pericoli immanenti, e in una situazione internazionale che, da un anno, guarda caso, è entrata anch’essa nella stagione della “guerra fredda”, dei due “grandi blocchi”. In queste incertezze (e nelle “compensazioni” che abbiamo visto così evidenti nel Vercellese) c’è certo tutta la fragilità di un Paese debole,  strutturalmente dualistico, uscito in ginocchio dalla dittatura e dalle guerre; ma ci sono anche tutti i tratti di una democrazia faticosamente consensuale, ma vitale, ricca, solida, forte, capace di superare le prove più dure. Nella semplice e dualistica società politica vercellese del 1946, quindi, ci sono già tutti gli ingredienti che preannunciano la spaccatura verticale del 1948 e degli anni successivi, ma anche in essa c’erano tutte le premesse politiche e culturali di un percorso che, comunque, era ed è di crescita.

 

Elezioni comunali del 24 marzo 1946: esiti del voto a Vercelli città
Voti % Seggi
Pci 10.095 39,6 17
Psiup 4.533 17,8 7
Dc 8.852 34,7 14
Indipendenti 1.588 6,2 2
P. d’azione 394 1,5

 

Elezioni comunali del 24 marzo 1946: le maggioranze nei 55 comuni minori del Vercellese
Maggioranza n. comuni Seggi
Pci-Psiup 37 508
Pci 3 43
Psiup 2 40
Dc 4 141
Dc-Dem. rurale 2 48
Dc-Liberali 1 15
Dem. rurale 1 16
Indipendenti 3 63
Indip.Liberali 1 9
Conc. centro 1 12

 

Elezioni del 2 giugno 1946: esiti del voto per la Costituente e del referendum a Vercelli e nel
Vercellese (valori percentuali)
Vercelli Vercellese Italia
Dc 34,0 34,7 37,2
Psiup 18,4 23,4 20,7
Pci 36,1 31,7 18,7
Un. Dem. Naz. 4,6 3,4 7,4
Uq 3,5 1,9 5,4
Pri 0,5 0,3 4,1
Bl.Naz.Lib. 0,8 0,6 2,9
P. d’azione 1,1 0,9 1,8
Altri 1,0 3,1 1,8
Repubblica 57,0 58,0 54,3
Monarchia 43,0 42,0 45,7

Note

[*] Ho accettato volentieri la richiesta dell’Istituto di scrivere queste note, anche se, purtroppo, soltanto dopo aver detto sì mi sono accorto che non trovavo praticamente nessun lavoro locale su cui appoggiare i piedi. Non credo che queste pagine siano particolarmente degne di attenzione, ma spero che i volonterosi che arriveranno alla fine siano così generosi da perdonare tutte le lacune, accettando un semplice sguardo d’insieme su quel ’46 vercellese.
Le fonti (escluse volutamente le testimonianze individuali) sono i documenti comunali e il mare di carta stampata di allora. Avendo come obiettivo un tale sguardo d’insieme, ho cercato di sintetizzare il maggior numero possibile di espressioni e citazioni nel contesto di uno scritto discorsivo; tutte le espressioni virgolettate – salvo poche riconoscibili espressioni allusive – sono citazioni tratte dai giornali e dai documenti: ho appositamente evitato di interrompere la discorsività del testo con note e riferimenti in tutti i casi.
Se qualcuno vorrà segnalare errori e imprecisioni, si consideri ringraziato sin d’ora.

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