Fermenti politici e intellettuali alle soglie del Risorgimento

Mario Ogliaro

articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXVI, n. s., n. 1, giugno 2016

 

In un agile compendio sull’Unità d’Italia, lo storico inglese Bolton King osservò che nella nostra penisola all’inizio del secolo XIX vi era una «scarsa idea nazionale»[1]. Infatti, nel dibattito concernente le radici cronologiche del Risorgimento si sono formati giudizi interpretativi contrastanti riguardo al complesso processo storico che portò all’ancora vacillante proclama di Vittorio Emanuele II del 17 marzo 1861. Quantunque sia durante l’epoca della Rivoluzione francese e più chiaramente agli inizi della Restaurazione che dev’essere individuato il quadro di riferimento delle azioni politiche e militari successive, non possiamo trascurare l’établissement formatosi con i trattati di Utrecht e di Aquisgrana, che segnarono, soprattutto per lo Stato sardo-piemontese, quell’impostazione geopolitica che rimase pressoché inalterata fino alla seconda guerra d’indipendenza. Si trattò di un assetto territoriale nel quale molti storici intravidero i primi germi della “libertà italiana”, ovvero quegli elementi embrionali che poi favorirono, per un insieme di fattori, la futura spinta unitaria, alla quale contribuirono altresì quelle idee, già circolanti nella cultura illuministica, che variamente si legarono alla formulazione di un movimento intellettuale inteso a dare una nuova coscienza politica all’Italia. I presupposti di tali idee, che provenivano anche dalla «crisi della coscienza europea» descritta da Paul Hazard[2], non furono estranei all’esigenza di separare l’ambito della fede da quello della ragione, nonché alla necessità di trovare un equilibrio tra le competenze ecclesiastiche e quelle civili, al quale i Savoia, fin dall’esperienza siciliana, diedero un importante contributo.

A questo riguardo dobbiamo innanzitutto rilevare che nel primo decennio del secolo XVIII lo Stato sabaudo aveva concorso sia a contenere il piano egemonico dei Borboni, sia a determinare nuovi equilibri nella penisola, equilibri destinati comunque a subire continui scossoni per l’evolversi delle condizioni dei rapporti di forza tra gli stati europei. L’ambiziosa e tenace politica estera di Vittorio Amedeo II, pur tra ambiguità e oscillazioni, gli valse la corona reale e lo collocò nello scacchiere internazionale. Inoltre, la configurazione del suo vecchio ducato ora non corrispondeva più all’immagine che tradizionalmente si aveva, ma richiedeva il riconoscimento della specifica azione politica e militare svolta. Nel nuovo ruolo “regale” gli fu possibile riprendere l’antico progetto di espansione territoriale, già vagheggiato dai suoi predecessori nell’infruttuoso trattato di Bruzolo del 1610 e poi riproposto con maggior vigore nel 1696, quando, con le clausole segrete sottoscritte a Torino, il Re Sole gli aveva promesso l’aiuto per la conquista della Lombardia, in cambio degli stati savoiardi d’oltralpe e della sua alleanza nella futura contesa per l’eredità spagnola[3]. Ma con il mutamento dell’accordo, operato nel 1703 dal Savoia stesso con l’adesione alla lega imperiale, alla fine della guerra di successione di Spagna gli fu possibile l’acquisizione del Regno di Sicilia, del Monferrato, delle province di Alessandria, Lomellina, Valsesia, delle valli di Pragelas e d’Oulx, dei forti d’Exilles e Fenestrelle, indi di Bardonecchia, Casteldelfino e lo spostamento del confine da Susa al Monginevro, nonché l’orientamento delle sue mire verso il mare da una parte e verso la pianura padana dall’altra: aspirazioni d’ingrandimento, dunque, ma solo in direzione di una politica territoriale che facesse da contrappeso alle grandi potenze. In seguito poté dedicarsi alle riforme interne, le cui prime basi, già progettate da tempo, furono poste in rapporto a obiettivi d’efficienza dell’apparato burocratico, fiscale e militare del nuovo Stato.

La composizione statuale europea formatasi nel 1748, dopo le crisi dinastiche polacche e austriache, non andò esente da una certa visione tendente a legare la futura idea di unificazione italiana anche alla continuità della tradizione militare piemontese e alla sua strategia riguardante la famosa “politica del carciofo”, cioè alle graduali annessioni territoriali che i sovrani sabaudi, come si è detto, covavano all’ombra delle Alpi, mentre gli indirizzi politici del ventennio fascista s’indirizzarono piuttosto a ricondurre il lungo travaglio risorgimentale entro confini squisitamente nazionali, ridimensionando, di conseguenza, il ruolo francese di Napoleone III del 1859 e l’influenza della diplomazia inglese, al fine di evidenziare l’opera dello Stato sardo, considerata come una premessa al Regno d’Italia[4]. Un apprezzamento che avrebbe precorso il vasto orizzonte risorgimentale, dove i “costruttori”, prima ancora di considerare l’unità della penisola, pensarono a un progetto “federalista”, ritenendo impraticabile la riunificazione di tutti gli stati italiani sotto un unico scettro; progetto non trascurato dallo stesso Cavour, che nel luglio 1858 stipulò con Napoleone III quell’alleanza in cui s’ipotizzò, una volta rimossa l’ingerenza austriaca, la suddivisione dell’Italia in tre regni confederati. Il discorso potrebbe continuare con la tesi di coloro che hanno visto un significativo strumento propulsivo alla spinta unitaria italiana nei programmi riformatori della massoneria, che dall’originaria culla inglese si espansero, suscitando anche la condivisione di nobili e borghesi, accomunati dalla lotta per la tolleranza e contro l’oscurantismo religioso, sul quale si erano già scagliati molti intellettuali, tra cui il filosofo e pubblicista trentino Carl’Antonio Pilati con il suo trattato “Di una riforma d’Italia”, pubblicato nel 1767 a Coira nei Grigioni, ma con la falsa data di Villafranca[5]. Un contrasto, quello con la Chiesa, sul quale, fra gli altri, intervenne, con una miriade di scritti e di importanti testimonianze, il sacerdote ligure Giacomo Margotti, definito dai contemporanei “il Sansone dei Clericali”[6], che dalle colonne del giornale “L’Armonia” praticamente anticipò il non expedit di Pio IX.

Nell’ambito delle interpretazioni miranti a collocare le radici risorgimentali verso la metà del secolo XVIII, non va dimenticato che i dibattiti politici e i carteggi diplomatici del periodo relativo ai conflitti dinastici e in quelli susseguenti alla cosiddetta guerra dei sette anni, non ci restituiscono affatto una coscienza tendente a un futuro progetto politico federativo o unitario. Anzi, inquieti e discordi, i principati italiani subivano i maneggi diplomatici delle grandi potenze che si affannavano per impedire l’affermarsi dell’egemonia dell’una sull’altra, in una gara vertiginosa di schieramenti. Tuttavia, in un quadro più generalizzato, sono affiorati vari aspetti che influirono sul passaggio di questo tempo da un piano meramente ideale a un piano economico e sociale, che poi si amalgamò con i moti che seguirono la Restaurazione. Né va dimenticato il rapporto tra Risorgimento e liberalismo europeo, entro il quale si manifestò il contrasto dialettico tra l’ordine instaurato da Vienna e le forze del romanticismo nazionale, dal momento che all’interno di tale primitivo contesto letterario è possibile riconoscere diverse esperienze che esprimevano una certa rivalsa da contrapporre al primato francese e miravano a riprendere quell’esaurita superiorità culturale italiana che aveva primeggiato nelle corti rinascimentali.

Sotto quest’aspetto, i caratteri del secolo XVIII espressi dalla nostra erudizione giustificano pienamente che in quell’epoca l’Italia cercava di tornare a rappresentare una parte viva della sua storia e della sua civiltà. Pertanto, le idee che dalle sponde della Senna penetravano negli ambienti colti delle nostre città, pur costituendo l’espressione di una classe borghese più evoluta, non sostituirono la nostra cultura, ma la arricchirono in varia misura. Nel campo militare poi, la presenza di organismi in decadenza e avviati al completo sfacelo, come le vecchie repubbliche oligarchiche e lo Stato pontificio, fu largamente bilanciata dalla struttura bellica in ascesa del Regno sardo, che riuscì a imporsi come forza operante nella penisola, attraverso azioni diplomatiche e risoluzioni politico-militari che entrarono in collisione con gli interessi austriaci, che tanta importanza assunsero poi nelle vicende risorgimentali. Una constatazione che appare ancor più appropriata se si tiene conto che l’assetto della penisola, nell’epoca in questione, fu il risultato non soltanto di imposizioni straniere, ma anche di operazioni di forze interne che avevano agito e combattuto con successo. Infine, la grave crisi degli stati preunitari alla fine della dominazione napoleonica e il ripristino delle vecchie norme legislative per cancellare quelli che erano stati definiti i “passati sconvolgimenti” avevano posto i governi di fronte a scenari radicalmente mutati, poiché l’espansionismo napoleonico in tutta l’Europa centrale aveva generato vasti cambiamenti, ma anche opposizioni e dissensi, sia rispetto alle occupazioni militari, sia nei confronti dei programmi politici e dei concetti di sovranità popolare che avevano sorretto il modello rivoluzionario e che le armate bonapartiste avrebbero dovuto esportare in tutto il continente. Ma ciò non corrispose alle aspettative e, per contro, si fece strada la difesa del patrimonio storico, della religione e dei costumi locali, dei quali Chateaubriand e Madame de Staël furono i portabandiera, soprattutto contro le forme di pensiero che avevano spezzato le tradizioni più venerande. Tale cultura, impegnata in una più equilibrata comprensione del passato, ebbe una vasta influenza prima con gli studi storici dell’abate Du Bos, definito un «initiateur de la pensée moderne»[7] e poi grazie ad alcuni scrittori franco-svizzeri come Benjamin Constant e Sismondo de’ Sismondi. Se la vecchia pubblicistica piemontese di tendenza monarchica, analizzando la politica sabauda del Settecento pose l’accento sul cosiddetto “assolutismo illuminato” dei sovrani da Vittorio Amedeo II in poi, ciò è da mettersi in relazione con una lettura tendente a vedere in questo tempo riformatore i prodromi di quelle condizioni che resero possibile l’avvio delle aspirazioni risorgimentali, i cui rilievi più importanti si possono ravvisare negli scritti di Cesare Balbo, che auspicava una federazione sotto la guida di Carlo Alberto, e successivamente nelle “Letture del Risorgimento” del Carducci[8] , nonché nelle opere di Gioacchino Volpe, fino ad arrivare alle ricostruzioni liberali di Piero Gobetti, secondo le quali il Risorgimento sarebbe stato opera di una minoranza che si adattò poi a un compromesso con le vecchie forze politiche e rinunciò ad attuare un’autentica rivoluzione sociale e culturale[9]. Egli era partito dal presupposto che il Risorgimento, fin dal principio, non si appropriò degli ideali della Rivoluzione francese: un giudizio che non teneva conto della linfa generosa che alimentò grandi e piccoli protagonisti di quegli eventi e che non riconosceva quanto di positivo vi era nelle loro azioni, mentre la tesi gramsciana, nota solo dopo il 1945, diede particolare rilievo al connubio fra borghesia industriale e agraria guidata dai liberali, sul cui legame si sarebbe formato il moto risorgimentale.

Bisogna ancora ricordare che la storiografia nazionale dei primi decenni del secolo scorso ravvisò una certa contrapposizione fra l’intellettualismo astratto dei pensatori stranieri e lo spirito più concreto dei riformatori italiani. Con una simile tesi, spinta poi a conseguenze radicali, si volle stabilire una continuità fra il modello riformista e il Risorgimento, sostenendo una totale indipendenza dello sviluppo culturale ed economico italiano nei confronti delle correnti illuministiche straniere[10]. In realtà, la non perfetta identità fra movimento riformista e illuminismo fu un fatto che valse per tutti gli stati del Settecento. Non solo, ma su alcune problematiche la disparità di vedute dell’intellettualismo in genere si mostrò evidente e ancor più significativa fu la differenza delle posizioni politiche, le quali, pur non costituendo un insieme coerente, nondimeno svolsero un ruolo essenziale nel trasformare in oggetto di discussione i problemi del tempo. In ogni caso, il riformismo nostrano, anche se non fosse stato interrotto bruscamente nel 1796 dall’armata napoleonica, non sarebbe stato in grado di condurre a un sentimento nazionale, stante la mancanza di una partecipazione popolare all’azione riformatrice dei principi e alla scarsa ammissione di una libertà di pensiero.

Sull’ipotesi mirante a ravvisare l’idea unitaria in tempi lontani e comunque indipendenti dalle circostanze rivoluzionarie, s’inserirono pure gli studi del Solmi[11] e del Rota[12], i quali, con metodologie diverse, intesero dimostrare una certa linea unitaria di carattere italiano, dovuta al convergere di una lunga tradizione che preparò le vicende risorgimentali[13]. Benché su tali vicende si siano ritrovati importanti temi di ricerca e di discussione nei fondamentali e più recenti lavori di Franco Venturi[14], è indubbio che nella seconda metà del secolo XVIII iniziarono a plasmarsi quelle idee che portarono all’estensione del termine “Risorgimento” dalla letteratura all’ambito della pubblicistica politica. Infatti questo sostantivo, originariamente riferito al rinnovamento degli studi letterari[15], si ampliò fino a designare una possibile rinascita dell’Italia nei suoi confini geografici naturali e occupò gli ambienti intellettuali del primo Ottocento, attraverso il confronto tra la condizione del presente e quella del “glorioso passato” che avrebbe potuto risorgere non dal ripristino di un organismo statuale italiano mai esistito, ma dal passaggio da paese frastagliato da principati a una confederazione unitaria di tipo moderno, considerando che nella penisola già esisteva, perlomeno dagli inizi del secolo XIII, un’identità culturale, linguistica e artistica che produsse il grande fenomeno del Rinascimento. Pertanto, senza disconoscere l’influenza esercitata sulla nostra cultura dal movimento dell’“Enciclopedia” francese come veicolo di emancipazione di pensiero[16], non mancarono nobili voci italiane che, quantunque deboli e minoritarie, sollecitarono quella “libertà”, intesa sia come postulato per la costruzione di uno Stato moderno, sia come patrimonio intangibile dell’uomo e dei suoi diritti naturali[17], diritti costantemente soffocati nel corso della storia dai ripiegamenti e dalle limitazioni dei principi d’autorità, come fu osservato nell’ambito della memorialistica risorgimentale[18] e come affermò Julien Luchaire, individuando negli scritti di Vittorio Alfieri, soprattutto nella chiusa “Del Principe e delle lettere” del 1784, un profondo insegnamento morale e nazionale che servì a nutrire le future generazioni di patrioti italiani[19]: idee che sostenevano la preminenza di un Risorgimento inteso come processo morale e spirituale prima ancora che fatto politico-territoriale, come si espresse anche il letterato e patriota cesenate Eduardo Fabbri con le sue tragedie di modello alfieriano[20]. Fra la schiera di queste voci che, direttamente o indirettamente, riposero le loro speranze in una “libertà italiana”, ricordiamo il poeta Alessandro Pegolotti, che si scagliò contro le antiche discordie dei nostri principati, a cui fece eco Antonio Gatti, additando l’Italia «di straniero e di proprio sangue intrisa»[21], indi la poetessa Petronilla Paolini Massimi, definita dal Croce «distinta per certa sua sincerità e virilità tra le altre rimatrici arcadiche»[22], la quale scrisse una riduzione dell’“Italia liberata dai Goti” del Trissino. Seguì il patrizio milanese Giuseppe Gorani, ardente repubblicano, letterato, avventuriero e viaggiatore, che con il suo lavoro sul “dispotismo” raccolse il plauso degli spiriti più illuminati del suo tempo[23]. Fin dall’introduzione delle sue “Mémoires secrets”, pubblicate nel 1793, non nascose il suo disappunto per le discordie degli stati italiani e la sua avversione contro ogni forma di tirannia: «Des tyrans trop longtemps nous fûmes les victimes, trop longtemps on a mis un voile sur leurs crimes: je vais les déchirer»[24].

Non fu da meno l’abate Pietro Tosini, che con la sua “Libertà d’Italia”, edita in Olanda in lingua italiana nel 1718[25] e ripubblicata nello stesso anno in lingua francese[26], levò il suo grido di dolore di fronte alla triste situazione politica generale del suo tempo: «Vedo l’Italia, la mia cara Patria, minacciata dalle guerre fra cristiani […], la vedo insidiata dalle truppe straniere, che pretendono di invaderla in parte, o forse tutt’intera, mentre essa dovrebbe godere di quella pace assicurata dagli ultimi trattati [di Utrecht]»[27]. Nell’ambito del preilluminismo piemontese, in cui avevano suscitato grande interesse le lezioni scientifiche e metodologiche di Bernardo Andrea Lama, sostenitore della causa realistica, occuparono uno spazio non secondario le vedute e le intuizioni di Alberto Radicati, portatrici di una linea fra le più radicali dell’anticlericalismo, le cui istanze e inquietudini furono da lui pagate con l’esilio e la confisca dei beni. Deluso da Vittorio Amedeo II, verso la fine dei suoi giorni vagheggiò un’Italia unita sotto lo scettro di don Carlos di Borbone.

Fra gli altri numerosi esempi, ricordiamo ancora lo scritto anonimo pubblicato nel 1765 nella rivista “Il Caffè” di Pietro Verri, ma attribuito al poligrafo Gian Rinaldo Carli, il quale, pur operando a Milano per il governo austriaco, inneggiò alla “Patria degli Italiani”[28]. Analoghi pensieri, più o meno espliciti si trovano anche in Alessandro Verri, nelle prime due parti delle sue “Notti romane al sepolcro degli Scipioni” (1792), presso le cui tombe, scoperte a Roma in quel tempo, egli concepì di andare una notte con la fantasia e immaginò di scorgere, quando le tenebre stavano per avvolgerlo, come in una visione, le ombre degli illustri romani antichi, Cicerone, Cesare e altri, che discorrevano di politica, di libertà e se come forma di governo la repubblica fosse preferibile alla tirannide: agitavano, cioè, le questioni che più interessavano gli uomini dell’ultimo Settecento, fra i quali Gian Francesco Galeani Napione di Cocconato che, nel 1794, riprendendo la vecchia proposta dell’ambasciatore francese d’Argenson, espose in una “Memoria” la necessità di una confederazione delle potenze italiane sotto il papa, anticipando il programma del neoguelfismo giobertiano. Un’idea rimasta su di un piano puramente teorico e, forse, intesa a mettere l’Italia al riparo dai venti rivoluzionari, più che a imbastire un vero progetto nazionale, a differenza di quella enunciata due anni dopo da Melchiorre Gioia, con la quale, considerando le discordie endemiche dei principati italiani, egli propugnò una repubblica unitaria indivisibile, da attuarsi con mezzi pacifici e graduali, ovvero un autogoverno del popolo italiano coscientemente unito. Nello stesso anno in cui comparve la proposta del Napione, il genovese Sebastiano Biagini, in un forte appello propagandistico, richiamava gli italiani a levarsi in massa e a liberarsi dai «crudeli aristocratici, dai nobili prepotenti e sciocchi, dai principi tiranni», incitando a riunirsi e governarsi «in una sola ed indivisibile repubblica o in tante repubbliche democratiche federate»[29]. Un analogo proclama fu definito a Venezia nel luglio 1797 con la raccolta di trentacinquemila firme per unirsi in «una sola repubblica democratica, una e indivisibile, con tutte le città e territori della Veneta Nazione e con gli altri popoli liberi d’Italia»[30]. Incitamenti che fin dal 1791 erano pervenuti in Piemonte attraverso lo scritto poco noto dell’osservatore francese Doppet, il quale, dopo aver visitato gli stati sardi, affermava d’aver trovato un popolo «qui n’est point ce qu’il pourrait être: l’un est victime de la superstition & du fanatisme, l’autre l’est de la misère que la cour y entretient à grands frais». Pertanto, pur riconoscendo l’opera dei Savoia, affermava che sarebbe stato interesse dei sudditi sabaudi non rimanere «dans cette apathie humiliante où ils sont tenus depuis longtemps»[31]. Come abbiamo visto da questi esempi, lo spirito pubblico foriero di tempi nuovi non mancava, semmai appariva ancora relegato in un ambito ristretto, incerto nella sua formulazione e soggetto a molteplici diffidenze, preoccupazioni e resistenze che ne rallentavano la maturazione nell’opinione pubblica, consumando le speranze rivoluzionarie e lasciando il mondo intellettuale oppresso da una nuova inquietudine e da una fortissima delusione.

Dall’articolata e complessa composizione della società italiana di quel periodo emersero altri personaggi che, pur non essendo direttamente impegnati sul piano politico, contribuirono con il loro ingegno a dare un grande apporto alla cultura giuridica ed economica con nuove idee e riflessioni. È il caso dell’economista piemontese Maurizio Solera[32], poi di Gian Domenico Romagnosi, docente di diritto civile all’Università di Pavia e collaboratore degli “Annali di statistica”, il quale, oltre a essere stato una figura centrale nel passaggio storico dall’enciclopedismo al romanticismo, generò con la sua scuola un originale insieme di valori e di metodi positivi rivolti alla conoscenza sociale. Giurista ed esperto nei vari campi del diritto e della stessa pratica legale, trovò nella riflessione sociale e politica l’autentico baricentro capace di unificare in modo compiuto i suoi eclettici interessi di scienziato[33], la cui vasta elaborazione si compendiò nella dottrina della “Civile filosofia”[34], che l’allievo Cattaneo definirà come lo studio dell’uomo senza isolarlo dagli altri uomini e dalla natura. Lo stesso si potrebbe dire di Giuseppe Compagnoni, che si inserì a buon diritto fra i maggiori giuspubblicisti italiani dopo la pubblicazione del suo manuale di diritto costituzionale in cui contemperò sia la “rappresentanza” che la “garanzia sociale” dei diritti dei cittadini[35]. Un percorso diverso, ma sotto certi aspetti innovativo, fu tracciato trent’anni prima da Antonio Genovesi di Salerno, professore di scienza delle finanze e uomo di vasta dottrina, che accolse nella sua “Diceosina” coraggiosi pensieri sull’economia, sulla giustizia[36] ed ebbe come allievo il grande riformatore Domenico Caracciolo, marchese di Villamaina[37].

La schiera dei rinnovatori potrebbe continuare con Guillaume Du Tillot, che con il suo riformismo antiecclesiastico mise in atto una vera e propria crociata laica[38], seguita dal toscano Bernardo Tanucci, anch’egli campione dello Stato laico e solerte combattente contro i privilegi feudali[39]. Altri riformatori degni di rilievo furono Giuseppe Palmieri, autore di una singolare opera sull’arte della guerra[40], e Gian Vincenzo Gravina, che pubblicò importanti studi giuridici e critici, quando i profeti dell’“Enciclopedia” non erano ancora nati[41]. Non da questi ultimi, certamente, provennero i pensieri di Pietro Giannone che troviamo nei suoi trattati e nelle sue dissertazioni, e neppure quelli dell’erudito veronese Scipione Maffei che, con Apostolo Zeno e Antonio Vallisnieri, fondò il “Giornale dei Letterati d’Italia”, un foglio che si staccò di gran lunga da tutte le altre pubblicazioni del genere, rappresentando quanto di meglio poteva dare l’intellettualismo italiano in fatto di dottrina, di serietà e di buon gusto. Il Maffei, inoltre, si valse di tale periodico anche per riaccendere la polemica contro i gesuiti francesi che, attraverso le loro “Mémoires de Trévoux”, spesso denigravano la cultura italiana. E fu per spirito antifrancese e per orgoglio nazionale, ossia per sottrarre il nostro teatro dall’influenza di Parigi, come aveva fatto prima di lui Luigi Riccoboni di Modena[42], che egli compose di getto la “Merope”, andata in scena nel teatro ducale di Modena, la sera del 12 giugno 1713[43], per dimostrare come anche in Italia si sapessero comporre buone tragedie.

Più tardi, le teorie sulla scienza della legislazione di Gaetano Filangieri e gli scritti del Beccaria subirono indubbiamente l’influenza delle opere di Montesquieu, di Rousseau e di Voltaire ma, a loro volta, questi intellettuali d’oltralpe conoscevano non solo Vico e Machiavelli, ma anche i liberi pensatori inglesi, come John Locke, John Toland, David Hume e Adam Smith.

Del resto, è noto che in Francia i “Lumi” ebbero una loro vita pressoché autonoma e che la cerchia dei filosofi costituì una forza intellettuale, accanto ai parlamenti, ai giansenisti e al movimento politico-ecclesiastico del gallicanesimo, nonché alle espressioni culturali delle varie classi sociali[44]. Non solo, ma essi, pur divenendo una vera forza d’opposizione all’assolutismo, non furono i soli a “picconare” la società dell’Ancien Règime basata solo sui doveri, poiché i principi delle lumières, oramai serpeggianti ovunque, agirono come elementi intrinseci di quel processo di mutamento delle strutture sociali già in atto, la cui forza egemone tra gli intellettuali formò un bagaglio culturale e scientifico, suscitando altresì un’atmosfera in cui dominò un’acuta percezione di mutamento di climi e di valori, come ravvisò Edoardo Tortarolo, sottolineando i grandi flussi di informazioni e di nuove culture provenienti dai viaggi e dal commercio in Europa e nelle Americhe[45]. Una ricchezza d’interessi, di diritti e di aspirazioni in cui la “ragione” fu intesa come strumento principale per studiare e chiarire i problemi dell’uomo, da quelli esistenziali a quelli religiosi, politici e sociali, nonché come facoltà capace di raggiungere risultati forniti di un’evidenza superiore a quella dei dati sensibili: una tendenza dominata dalle eccitanti novità della scienza e dalle grandi prospettive di progresso, frutto dell’illimitata fiducia nell’intelletto umano, concepito come immutabile e universalmente valido, che si proponeva altresì di rinnovare ogni categoria dello scibile, sbarazzandosi di tutto ciò che la tradizione aveva costruito ma che non era razionalmente giustificabile. Una fiducia, spesso ingenuamente ottimistica, che spinse gli uomini di cultura a un’opera incessante e straordinariamente efficace di critica, per ricostruire una civiltà su basi puramente razionali, dando il via a un risveglio culturale che, visto senza lente d’ingrandimento, fu, in misura diversa, comune a quello degli altri paesi europei, dove gli intellettuali, partecipi in veste di protagonisti nelle battaglie filosofiche più rilevanti del loro tempo, non potevano rimanere estranei alle sollecitazioni sempre più numerose della questione sociale che si andava rapidamente rinnovando nello spirito e nei metodi, come sostenne con una certa spregiudicatezza l’italiano Ferdinando Galiani che, nei suoi “Dialogues” consegnati nel 1769 a Madame Louise d’Épinay, elaborò teorie economiche sul liberismo e sulla mutabilità delle forme storiche con straordinario anticipo sui tempi[46]. Concetti in cui rimase il senso storico della realtà politica e sociale del tempo e l’affermazione di una spontaneità nella formazione dei valori morali, fecondi di contatti e di esperienze. Se è vero che nell’impianto teorico di questi pensatori si può riconoscere la presenza di alcuni principi di emancipazione, è altrettanto vero che andrebbe specificata l’estrema diversità del ruolo che questi stessi principi hanno giocato all’interno della loro ricerca, così come avvenne più tardi nella letteratura rivoluzionaria del primo Ottocento[47].

Anche per l’Italia, dunque, il secolo XVIII ebbe per gli studi storici, letterari, scientifici e giuridici un’inesauribile fecondità, che destò – come sostenne Gabriel Maugain[48] – non solo ammirazione, ma anche sentimenti di rinascita in quella che fu chiamata l’“Arcadia della scienza”, la cui funzione, trasversale agli stati italiani, dev’essere, senza indulgere in facili enfatizzazioni, collocata nel giusto rilievo[49], così come va considerato il nuovo indirizzo impresso sia da Ludovico Antonio Muratori nelle sue imponenti opere, che abbracciano un vasto arco temporale della storia italiana, sia da Girolamo Tiraboschi per quanto riguarda la letteratura.

Il concetto di libertà evocato nelle epoche precedenti dal popolo in genere e soggetto alle esigenze locali era assai diverso dal modo in cui lo intesero più tardi i pensatori moderni, soprattutto quando essi posero come fondamento irrinunciabile l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge: idea che giunse al riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo come problema morale, politico e giuridico, diritti che dovevano attuarsi come fine necessario per lo sviluppo e l’autodeterminazione della persona umana[50]. In altri tempi, infatti, la libertà era riconducibile essenzialmente in ciò che si definiva “privilegio”, cioè nell’affrancare singole persone o interi gruppi sociali da norme vessatorie o da dure prescrizioni statutarie. Queste esenzioni speciali, che facevano eccezione alla legge generale, costituivano delle concessioni che variavano di continuo, finendo per apparire un ammasso caotico e instabile, che nello Stato sabaudo fu in parte superato con la promulgazione delle costituzioni del 1722, 1729 e poi con quelle del 1770, integrate dal nuovo regolamento dei “Pubblici”, che costituì il perfezionamento e il consolidamento di un ampio testo normativo in materia di amministrazioni comunali. Lo scuotimento suscitato dal complesso di trasformazioni e di conoscenze, che tendevano alla liberazione dalle vecchie categorie di pensiero, unitamente alle successive innovazioni portate dalla Rivoluzione francese, coincise largamente con il clima politico generale, entro il quale va collocato anche il rapporto tra l’Italia e le grandi potenze, un rapporto non più considerato esclusivamente in una prospettiva di interessi egemonici, ma visto nel quadro di quel processo di trasformazioni geopolitiche del continente europeo che ebbe un effetto dirompente e che variò d’intensità secondo il fluire delle vicissitudini storiche[51].
Alla piega degli eventi che caratterizzarono l’Italia settecentesca si aggiunse anche l’evolversi della classe borghese che, acquisendo sempre maggior autonomia, rispetto al ruolo che le era stato assegnato nel passato, iniziò a porsi come soggetto attivo della trasformazione economica e produttiva. Su tale sfondo si aprirono poi in Italia i tratti specifici dell’idea di “risorgimento morale”, i quali trovarono punti di riferimento e di appoggio in un’azione sempre più rilevante della cultura e della pubblica opinione, rivestendosi gradualmente di una forza propria e di una caratteristica autoctona che ebbe un ruolo essenziale nei processi della conoscenza, come intese dimostrare con indulgenza per il Piemonte Carlo Calcaterra in funzione risorgimentale[52]. Una cultura che, per quanto riguardò lo Stato sardo-piemontese, non poté esprimersi compiutamente, poiché per quasi tutto il secolo XVIII Torino risentì del suo presidio militare permanente e di una soffocante censura. Ciò non toglie che si distinguessero forti personalità che giudicavano la storia in senso critico e nello stesso tempo guardavano con nostalgia alla Chiesa delle origini e con altrettanta simpatia ai giansenisti della prima ora. Anche nella “Biblioteca oltremontana e piemontese”, il periodico mensile che accoglieva scritti di carattere scientifico e letterario, le controversie del tempo furono orientate a valorizzare la nostra cultura.

Un certo risveglio, fuori dei lacci gesuitici, si conseguì allorché il modenese Girolamo Tagliazucchi fu chiamato a insegnare retorica, rinnovando il gusto letterario ancora legato al manierismo accademico. Dalle fila dei suoi discepoli uscirono parecchi scrittori che si distinsero per capacità e intelligenza, fra i quali Giuseppe Baretti. Ma gli studi filosofici rimasero alquanto contenuti e, se l’insegnamento della storia fu affidato nel 1770 a Carlo Denina, autore delle “Rivoluzioni d’Italia”, presto questi dovette lasciare la cattedra ed emigrare, non potendo pubblicare liberamente il suo pensiero critico. Né miglior sorte toccò al conte Francesco Dalmazzo Vasco, definito il “Verri del Piemonte”, che tentò di conciliare la causa della democrazia con quella della libertà, pagando con un lungo carcere l’esposizione delle sue idee[53]. Tale controllo fu meno pressante nella ricerca scientifica, cosicché fu possibile dar vita a quegli studi che si polarizzarono attorno al fisico Giovanni Battista Beccaria e che formarono poi il nucleo primordiale della nascente Accademia delle Scienze, la quale acquistò rinomanza e intrattenne rapporti con le più importanti comunità scientifiche europee.

Minor fortuna ebbe il gruppo di letterati che si riunivano nel palazzo del conte Bava di San Paolo, dove discutevano sulle questioni del loro tempo, in particolare del ruolo della borghesia, la cui crescita ed espansione fu il frutto di varie sovrapposizioni e interferenze tra classi e gruppi sociali che s’intrecciarono in molteplici modi con le strutture istituzionali, le quali, a loro volta furono attraversate da grandi fremiti innovatori che diedero origine anche a quella che sarà la caratteristica peculiare delle riforme, di cui però la maggior parte fu realizzata da uomini che provenivano principalmente dalle file della burocrazia statale più che dalla cerchia degli intellettuali.

«Accelerando il progresso del pensiero costituzionale – afferma acutamente Gilles Pécout nella sua magistrale opera – gli uomini dei Lumi della fine del secolo non hanno fatto che favorire l’accoglienza dei principi del 1789, e ciò in ossequio alla tesi di Paul Hazard, per il quale i Lumi sostituiscono a una civiltà basata sull’idea del dovere nei confronti di Dio e del principe una civiltà basata sull’idea del diritto: i diritti della coscienza individuale, i diritti alla critica della ragione degli uomini e del cittadino. Il periodo rivoluzionario e la dominazione napoleonica permetteranno al patriottismo italiano, ancora piuttosto confuso e marginale, di integrare alla rivendicazione di questi nuovi diritti anche l’idea nazionale»[54].
Si trattò, com’è noto, della maturazione di una coscienza patriottica permeata di fiducia e di speranza, la cui capacità di lotta unificante costituì una componente importantissima del protorisorgimento, poiché se gli elementi emersi nei periodi precedenti rappresentarono solo tenui barlumi di rinascenza politica perlopiù fondati sull’amplificazione di concetti e di miti, la riflessione sull’epoca che seguì il tracollo del Piemonte nel 1796 e i tumulti delle cosiddette “Insorgenze”, ovvero le resistenze antifrancesi[55], pur con accenti diversi, trovò un punto di convergenza sia nel considerare questi fatti storici come una concretizzazione di pensieri, di azioni, di volontà e di scelte, sia nel ritenere il movimento rivoluzionario francese un’esplosione tutto sommato positiva, respingendo pertanto le accuse di una certa “passività italiana”, cioè di un’incapacità di produrre spontaneamente un analogo movimento al di qua delle Alpi, come rilevò il Denina[56].

I suddetti fermenti di fine secolo cominciarono a misurarsi con nuove concezioni slegate dal corso della storia e dall’esperienza, il cui esito diventava sempre più un dato vincolante nell’ambito della crisi e del malessere serpeggiante, che ben presto pose problemi non più soltanto di rinnovamento culturale e morale, ma nel senso dell’eversione dell’ordinamento politico. Essi, dunque, tracciarono un solco che trovò un primo riferimento in quell’ancora immatura, ma essenziale esperienza di lotte e di rivendicazioni di “Patria”, che il Manzoni nel suo “Marzo 1821” chiamerà «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor». Del resto, fu anche in contrapposizione alla strategia della Restaurazione, ma ad essa associata che, accanto ai vecchi ideali cosmopolitici del Settecento, si diffuse il concetto di “nazione”, destinato nei decenni successivi a diventare un’entità oggettiva e meta ideale di uno sviluppo storico in grado di modificare nel profondo lo scenario italiano. Tale concetto si legò a quei principi definiti “democratici” grazie alla diffusa circolazione delle idee che congiunsero la politica a persone di ogni ceto, ma soprattutto alla figura dell’intellettuale, una figura che nel passato si era vista relegata a “consigliere del principe” o ad avere funzioni del tutto marginali nella società, ma che ora era entrata nel vivo delle lotte, trasformando la cultura in strumento di intervento e di partecipazione agli eventi pubblici e assumendo il ruolo di protagonista nell’effervescenza delle passioni che si costruirono e si strutturarono intorno a ideali e ad aggregazioni di energie e di movimenti liberali, movimenti che pensavano di ottenere dai regnanti estromessi e ora ritornati a governare l’attuazione dell’uguaglianza giuridica. L’azione restauratrice, invece, riaffermò il valore dell’autorità, l’uso della religione come sostegno del potere e la funzione dell’aristocrazia come guida della società. Essa non tenne in alcuna considerazione né le aspirazioni nazionali, in nome delle quali i popoli erano stati chiamati a combattere contro la dominazione napoleonica, né le nuove idee scaturite dai movimenti rivoluzionari, ma si attenne alla norma di legittimità astratta, secondo la quale ogni dinastia era depositaria dei poteri assoluti per diritto divino. Un diritto che, fin dal 1793 il nobile savoiardo Joseph de Maistre s’illudeva di poter ristabilire, rimettendo le cose sulle stesse basi in cui esse si trovavano prima degli eventi rivoluzionari[57].

I valori su cui poggiavano le società dell’Ancien Règime, già fortemente minati, erano oramai crollati per sempre, poiché i principi rivoluzionari, che – come rilevò il Matter – avevano parlato «non pour la France seulement, mais pour l’humanité entière»[58], continuarono ad aggirarsi come spettri nello spirito europeo, facendo da riferimento alle nuove trasformazioni politiche, trasformazioni fortemente avvertite fin dal 1811 dall’ideologo repubblicano Destutt de Tracy[59] e particolarmente studiate con un taglio sociologico da Paul Bénichou, che propose alcune dottrine miranti a creare una società moderna fondata sugli ideali comuni del nuovo ordine sociale e spirituale[60].

Pertanto, le radici del Risorgimento non possono essere dissociate dalle caratteristiche complesse di questi fenomeni storici e culturali che hanno contraddistinto le varie fasi a cavallo del secolo, il cui quadro d’approccio esposto, necessariamente sommario, non è che un tentativo per ricordare il peso delle idee, il ruolo delle forze sociali e i nessi profondi collegati a quel dinamismo intellettuale che divenne una componente destinata a integrarsi con le successive formulazioni politiche. Infine, il giudizio generale del Saitta, secondo il quale la storiografia non è «mai avulsa dalle grandi crisi politiche e sociali del tempo in cui lo studioso vive»[61], ci appare appropriato nel dibattito intorno al tema risorgimentale, sul quale pesano ancora molti pregiudizi e interpretazioni ideologiche più che storiche, tanto da essere sottoposto – come abbiamo visto – a molteplici letture che talvolta raggiungono forme di un revisionismo esasperato e polemico e di sospetto silenzio. Le posizioni storiografiche estreme appaiono manifestamente inaccettabili e l’analisi non può essere avulsa dal confronto diretto sui temi del rinnovamento della società italiana, così come lo intesero la cerchia degli scrittori e degli uomini politici contemporanei al Risorgimento che abbiamo ricordato.

Naturalmente, l’incontro tra le diverse “Italie” dopo il 1861 rivelerà ben presto differenze assai profonde e squilibri sociali dovuti all’eterogeneità delle società italiane, squilibri che da una parte costituirono un vero e proprio ostacolo all’unificazione e dall’altra diedero origine a quel fenomeno noto come “brigantaggio meridionale”. In conclusione, possiamo ragionevolmente affermare che il Risorgimento non fu un avvenimento improvviso, ma maturò lentamente fin dalla nostra storia settecentesca e può essere considerato come la naturale conseguenza dell’unità spirituale del popolo italiano. Dagli avvenimenti rivoluzionari e da quelli successivi si formarono, dunque, le radici risorgimentali che trovarono poi abili diplomatici, valenti uomini di pensiero e d’azione come Cavour, Mazzini, Garibaldi, che con Vittorio Emanuele II diventarono nel giro di pochi anni una forza sociale e crearono le basi di un lento, ma inarrestabile processo che determinò il risveglio della coscienza nazionale e l’aspirazione all’unità politica e all’indipendenza d’Italia. Pertanto, indagare sulle origini del Risorgimento, a nostro modesto parere, non è come ricercare lo zampillo da cui scaturisce la sorgente di un fiume: esse non risiedono in una presunta genesi che determinò la scintilla di una deflagrazione generale, ma sono disseminate nei molteplici rivoli che caratterizzarono la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX, rivoli, che nel loro insieme, costituirono il preludio delle azioni risorgimentali[62].


Note

[1] [H.] Bolton King, Storia dell’Unità Italiana, ossia storia politica dell’Italia dal 1814 al 1871, Milano, Fratelli Treves, 1909, vol. I, p. 1.

[2] Paul Hazard, La crise de la conscience européenne, 3 voll., Paris, Boivin, 1935, traduzione italiana, Torino, Einaudi, 1946, nonché i rilievi di Giuseppe Ricuperati, Paul Hazard e la storiografia dell’illuminismo, in “Rivista storica italiana”, a. LXXXVI (1974), n. 2, p. 372 e ss.

[3] Mario Ogliaro, Un’eclissi per il Re Sole: ambiguità diplomatiche e intrighi delle corti europee alla vigilia dell’assedio di Torino del 1706, in Memorie e attualità dell’Assedio di Torino del 1706 tra spirito europeo e identità nazionale, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2007, vol. I., p. 53 e ss.

[4] Nicolò Rodolico, Gli inizi del Risorgimento, in “Nuova Antologia”, 13 settembre 1937; Francesco Cognasso, I Savoia nella politica Europea, Milano, Ispi, 1941, p. 276 e ss.; Gioacchino Volpe, Principi di Risorgimento nel Settecento italiano, in “Rivista storica italiana”, serie V, vol. I (1936), pp. 29-31; Stuart J.Woolf, Risorgimento e fascismo: il senso della continuità nella storiografia italiana, in “Belfagor”, a. XX, n. 1, 31 gennaio 1965, pp. 71-91.

[5] Carl’Antonio Pilati, Di una riforma d’Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose Leggi d’Italia, Villafranca (sic), 1767. Una versione in tedesco fu pubblicata nel 1768 a Friburgo e un’altra, tradotta in francese, fu edita nel 1775 da G. B. Manzon.

[6] Carlo de la Verrene, Lettere italiane / Vittorio Emanuele II e il Piemonte nel 1858, Genova, Dario Giuseppe Rossi, 1859, p. 249.

[7] Alfred Lombard, L’abbé Du Bos, un initiateur de la pensée moderne (1670-1742), in “Revue d’histoire de l’Église de France”, vol. 6, n. 31, 1920, pp. 194-196.

[8] Giosuè Carducci, Letture del Risorgimento Italiano, Bologna , Zanichelli, 1896, p. XXV e ss.

[9] Marcello Verga, Le XVIIIe siècle en Italie: le “Settecento” réformateur?, in “Revue
d’Histoire Moderne et Contemporaine”, 45-1, janvier-mars 1998, pp. 89-116.

[10] Cfr. Carlo Capra, L’età rivoluzionaria e napoleonica in Italia 1796-1815, Torino, Loescher, 1978, pp. 11-12.

[11] Arrigo Solimi, L’idea dell’unità italiana nell’età napoleonica, Modena, Società Tipografica Modenese, 1934.

[12] Ettore Rota (a cura di), Le origini del Risorgimento (1700-1800), 2 voll., Milano, Vallardi, 1948, e L’enigma del Settecento italiano e il problema delle origini del Risorgimento, in “Nuova rivista storica”, a. II, , n, 1, 1918, pp. 386-387.

[13] Giorgio Vaccarino, Contributo agli studi sul giacobinismo “anarchico” e le origini dell’unità italiana, in “Rassegna storica del Risorgimento”, a. XLI, fasc. II-III, aprile-settembre 1954 , p. 595; Anna Maria Rao, Lumières et révolution dans l’historiographie italienne, in “Annales Historiques de la Révolution Française”, octobre-décembre 2003, § 16.

[14] Franco Venturi, Il Settecento riformatore, 5 voll., Torino, Einaudi, 1979-1997, in particolare vol. IV, La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), tomo I e II.

[15] Il termine “Risorgimento” pare sia stato usato in senso letterario per la prima volta nel 1769 dal conte Benvenuto Robbio di San Raffaele, novelliere e musicista (vissuto tra il 1736 e il 1794, autore dell’opera Della condotta de’ letterati, pubblicata a Torino in forma anonima presso la stamperia Fontana nel 1780), nella prefazione del suo studio sul Secolo d’Augusto (sino all’età neroniana), seguito dal gesuita Saverio Bettinelli (1718-1808) nella sua opera Del Risorgimento d’Italia negli studi e nelle arti e ne’ costumi dopo il Mille, opera in due parti, pubblicata a Bassano nel 1775 a spese di Remondini di Venezia.

[16] Cfr. Françoise Waquet, La lumière… vient de France. Le livre français en Italie à la veille de la Révolution, in “Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée modernes et contemporaines”, n. 102-2, 1990, pp. 233-259.

[17] La tesi sui “diritti naturali” dell’uomo fu sostenuta anche dal sacerdote siciliano Nicola Spedalieri nel suo libro De’ diritti dell’uomo, pubblicato a Roma nel 1791 con la falsa data di Assisi, in cui (p. 22 e ss.) intese dimostrare come i diritti umani rivendicati dalla Rivoluzione francese fossero sostanzialmente già alla base dell’insegnamento evangelico.

[18] Pietro Martini, Studi storico-politici sulle libertà moderne d’Europa dal 1789 al 1852, Cagliari, A. Timon, 1854, pp. 19-20.

[19] Julien Luchaire, Essai sur l’évolution intellectuelle de l’Italie de 1815 à 1830, Paris, Hachette, 1906, p. 98. Sul concetto di “patria” nell’Alfieri si veda Mario Fubini, Patria e nazione nel pensiero dell’Alfieri, in “Bollettino storico bibliografico subalpino”, aprile-dicembre 1935, pp. 339-354, nonché lo studio di Arnaldo di Benedetto, La repubblica di Vittorio Alfieri, in Dal tramonto dei lumi al Romanticismo, Modena, Mucchi, 2000, pp. 75-118.

[20] Ugo De Maria, Della vita e degli scritti del conte Eduardo Fabbri, patriota e poeta romagnolo (1778-1853), Bologna, Zanichelli, 1921, p. 223 e ss.

[21] Raffaello Giovagnoli, Risorgimento italiano dal 1815 al 1848, Milano, Vallardi, sd, p. 33.

[22] Benedetto Croce, Fidalma Partenide, ossia la marchesa Petronilla Paolini Massimi, in “Quaderni della Critica”, marzo 1948. Le sue liriche e la sua commovente storia personale hanno suscitato il bel lavoro biografico di Michela Volante, Domani andrò sposa, Milano, Frassinelli, 2004. Sulla vita di questa poetessa si veda pure Mauro Martelli – Luca Ricciardini, La vita di Petronilla Paolini Massimi, Avezzano, CdC, 2004.

[23] Elio Zorzi, Venezia nelle “Memorie” di Giuseppe Gorani, in “Ateneo Veneto”, a. CXXXIII, vol. 129, n. 10-12, ottobre-dicembre 1942, pp. 261-264. I primi tre volumi di queste Mémoires furono curati da Alessandro Casati, mentre il quarto volume è stato edito da Carlo Capra ed Elena Puccinelli.

[24] Joseph Gorani, Mémoires secrets et critiques des cours, des gouvernements et des moeurs des principaux États de l’Italie, à Lyon, chez Allier et Leclerc, 1793.

[25] Pietro Tosini, La libertà dell’Italia dimostrata a suoi prencipi e popoli, Amsterdam, presso li compagni Josué Steenhouwer e Germano Uytwerf, 1718-1720. Sull’autore si veda Raffaele Belvederi, L’abate Tosini e il suo pensiero storico-politico, in Nuove ricerche storiche sul giansenismo, Roma, apud aedes Universitatis Gregorianae, 1954, pp. 139-184.

[26] La liberté de l’Italie démontrée à ses Princes et à ses Peuples, traduite de l’italien, Amsterdam, chez Steenhouwer & Uytwerf, 1718.

[27] Preface, in idem, pp. 3-4.

[28] Giuliano Gaeta, L’articolo di Gian Rinaldo Carli “Della patria degli Italiani” e suo influsso in una gazzetta del 1779, in “Rassegna storica del Risorgimento”, a. XXXVII, fasc. gennaio-dicembre 1950; Enrico Malato, Storia delle letteratura italiana: il Settecento, Roma, Salerno, 1998, vol. VI, p. 563.

[29] E. Rota (a cura di), op. cit., parte 2a, p. 910.

[30] Federico Augusto Perini Bembo, Giornalismo ed opinione pubblica nella rivoluzione di Venezia, Firenze, Cya, 1952, vol. I, parte III.

[31] [Doppet], État moral, physique et politique de la Maison de Savoie, Paris, chez Buisson, 1791, p. VIII e (2). Doppet, medico, romanziere e generale, fu una delle più curiose figure della Rivoluzione francese. Nel 1791 aveva inoltrato una lettera alla corte di Torino richiedendo l’annessione della Savoia alla Francia, fondando a questo scopo il “Club de Propagande des Alpes”. Tesi sostenuta anche da François Régis Carron, L’Assemblée Nationale des Allobroges en 1792, Paris, Imprimerie Bonvalot-Jouve, 1906, p. 203, nella quale rimproverava ai re sabaudi di aver “piemontesizzato” la Savoia.

[32] Giuseppe Pecchio, Storia dell’economia pubblica in Italia: ossia epilogo critico degli economisti italiani, Lugano, presso G. Ruggia e Comp., 1829, p. 232 e ss.

[33] Arcangelo Ghisleri, Sociologia italiana: di alcune vedute fondamentali di G. D. Romagnosi, in “Rivista d’Italia, lettere, scienza ed arte”, a. XXII, 1919, pp. 426-445.

[34] Gian Domenico Romagnosi, Istituzioni di civile filosofia, ossia di giurisprudenza teorica, 3 voll., Firenze, Piatti, 1846.

[35] Giuseppe Compagnoni, Elementi di diritto costituzionale democratico, ossia principi di giuspubblico universale, Venezia, presso Giustino Pasquali, 1797, ripubblicata anastaticamente a Bologna nel 1985 a cura di Italo Mereu e Daniela Barbon.

[36] Antonio Genovesi, Della Diceosina, o sia della filosofia del giusto e dell’onesto, Napoli, Stamperia Simoniana, 1766.

[37] Isidoro La Lumia, Domenico Caracciolo o un riformatore del secolo XVIII, in “Nuova Antologia”, vol. VII, 1868, pp. 213-241; Benito Li Vigni, Il viceré. Domenico Caracciolo, un riformatore nella Sicilia del Settecento, Napoli, Pironti, 1992.

[38] Umberto Benassi, Guglielmo Du Tillot, un ministro riformatore del XVIII secolo. Contributo alla storia dell’epoca delle Riforme, in “Archivio storico delle Province parmensi”, 15 (1915), pp. 1-121; 16 (1916), pp. 193-368; 19 (1919), pp. 1-250.

[39] Rosa Mincuzzi, Bernardo Tanucci ministro di Ferdinando di Borbone, Bari, Dedalo, 1967, p. 43 e ss.

[40] Piero Pieri, Giuseppe Palmieri e le sue “Riflessioni critiche sull’arte della guerra (1761)”, in “Rassegna storica del Risorgimento”, a. XXIII, fasc. V, maggio 1936, pp. 527-530, opera ignorata da Gian Francesco Galeani Napione nella sua Notizia de’ principali scrittori d’arte militare italiani, in Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino, voll. X e XI, Torino, Stamperia Reale, 1803. Gian Rinaldo Carli polemizzò anche con Rousseau nel suo libro: L’uomo libero ossia ragionamento sulla libertà naturale e civile dell’uomo, Milano, 1779 (2ª edizione), ristampata a Venezia due anni dopo.

[41] Meuccio Ruini, Pensatori e politici del prerisorgimento d’Italia, Milano, Giuffrè, 1962, p. 15 e ss.

[42] Luigi Riccoboni, Histoire du théâtre italien, Paris, Pierre Delormel, 1729.

[43] Nel 1734, all’inizio della crisi polacca, Scipione Maffei da Parigi osservava amaramente «Oh misera e strapazzata Italia! E con tutto ciò ella continua nella prodigiosa stolidità di mandar qua tutti i suoi denari, coi quali poi ci guardan così d’alto in basso; e i Milanesi che in tal piazza superano gli altri, co’ lor denari stessi si son fabbricati i ceppi». Giovanni Quintarelli, Il pensiero politico di Scipione Maffei, in Studi maffeiani, Torino, Bocca, 1909, p. 433.

[44] Sull’influenza del giansenismo e del gallicanesimo sul Risorgimento si veda Maurice Vaussard, Jansénisme et Gallicanisme aux origines religieuses du Risorgimento, Paris, Letouzey et Ané, 1959.

[45] Edoardo Tortarolo, Illuminismo politico e crisi rivoluzionaria, in Giovanni Antonio Ranza nel bicentenario della morte (1801-2001), atti del convegno, Vercelli, Vercelliviva, 2002, pp. 20-21.

[46] Ferdinando Galiani, Dialogues sur le commerce des blés, Paris, 1770, ma con la falsa indicazione di Londra, Merlin Joseph; cfr. Luigi Dal Pane, Influenze francesi sui nostri economisti del Settecento, in “Rassegna storica del Risorgimento”, a. XXIII, fasc. III, marzo 1936, p. 278. Sulla teoria economica del Galiani si veda Nicola Giocoli, La teoria del valore di Ferdinando Galiani: un’interpretazione unitaria, in “Storia del pensiero economico”, n. 38, 1999, pp. 69-93.

[47] Giacomo Berzellotti, La letteratura rivoluzionaria in Italia avanti e dopo il 1848 e 49, in Luigi Morandi, Antologia della nostra critica letteraria moderna, Città di Castello, S. Lapi, 1923, pp. 721-751.

[48] Gabriel Maugain, Étude sur l’évolution intellectuelle de l’Italie de 1657 à 1750 environ, Paris, Hachette et Cie, 1909.

[49] Benedetto Croce, La letteratura italiana del Settecento, Bari, Laterza, 1949, pp. 7-8.

[50] Paul Henri Thiry D’Olbach, La politique naturelle ou discours sur les vrais principes du gouvernement par un ancien magistrat, Paris-Londres, 1773, vol. I, p. 129, e Daniel Mornet, Les origines intellectuelles de la Révolution française (1715-1787), Paris, Librairie Armand Colin, 1933, p. 247.

[51] Jacques Godechot, Le Risorgimento (1770-1870), in Histoire de l’Italie Moderne, Paris, Hachette, 1972, vol. I, privilegia la tesi, secondo la quale i germogli della Résurrection italiana vanno ricercati nell’evoluzione economica, sociale, politica e religiosa che si manifestarono verso il 1770. Sul problema della “autoctonia” e degli influssi stranieri si veda Aldo Ferrari, La preparazione intellettuale del Risorgimento italiano 1748-1789, Milano, Treves,1923 e Alberto M. Ghisalberti, Gli albori del Risorgimento italiano 1748-1815, Roma, Cremonese, 1933.

[52] Carlo Calcaterra, Il nostro imminente Risorgimento; gli studi e la letteratura in Piemonte nel periodo della Sampaolina e della Filopatria, Torino, Sei, 1935, definito nella recensione di Antonio Monti «uno dei libri di consultazione più sicuri e più utili per chi studia le origini del Risorgimento italiano cercando di rendersi ragione delle forze che nel secolo XVIII hanno profondamente operato nella vita spirituale del Piemonte fecondandovi i germi di quel rinnovamento, che nel secolo successivo portò il Piemonte in testa agli stati italiani e ne fece uno degli strumenti più importanti nel processo di unificazione territoriale e politica », in “Rassegna storica del Risorgimento”, a. XXIV, fasc. III, marzo 1937, pp. 501-503.

[53] Su questo scrittore si veda Ernestina Dulio, Un illuminista piemontese. Il conte Dalmazzo Francesco Vasco con documenti inediti, Torino, Istituto giuridico della R. Università, 1928.

[54] Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-
1922), Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 41.

[55] Luca Topi, Insorgenze italiane e storia delle mentalità: suggerimenti per una prospettiva
di ricerca, in “Eurostudium”, gennaio-marzo 2009, pp. 1-16; Massimo Viglione,
Rivolte dimenticate: le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815, Roma, Città Nuova,
1999, p. 22 e ss. Sul giacobinismo si veda Luigi Lotti – Rosario Villari (a cura di),
Universalismo e nazionalità nell’esperienza del giacobinismo italiano, Roma-Bari, Laterza,
2003.

[56] Carlo Denina, Continuazione delle Rivoluzioni d’Italia (1713-1792), in Rivoluzioni
d’Italia, Venezia, Silvestro Gatti, 1793, pp. 63-64.

[57] Guido Verucci, La Restaurazione, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali,
diretta da Luigi Firpo, vol. IV, L’età moderna, Torino, Utet,1975, p. 873.

[58] Paul Matter, Les origines du Risorgimento, in “Revue des Sciences Politiques”, a.
XLIII, 1928, p. 7.

[59] Antoine-Louis-Clause Destutt de Tracy, Commentaire sur l’esprit des lois de Montesquieu
[…], Liege, chez J. F. Desoer, 1817, p. 1 e ss.; opera edita per la prima volta a Philadelphia
nel 1811, sotto gli auspici del presidente degli Stati Uniti Jefferson.

[60] Paul Bénichou, Il tempo dei profeti. Dottrine dell’età romantica, Bologna, il Mulino,
1977, p. 633.

[61] Armando Saitta, Aspetti e momenti della civiltà europea, Napoli, Guida, 1971, p. 235.

[62] Si veda a questo proposito l’importante studio di Corrado Malandrino, Il Risorgimento italiano fra storia, interpretazioni, innovazioni. Contributi a un dibattito aperto, in Corrado Malandrino – Stefano Quirico (a cura di), Garibaldi, Rattazzi e l’Unità dell’Italia, Torino, Claudiana, 1911.

 

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