Carmen Fabbris (a cura di)
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XX , n. 2, agosto 2000
Le condizioni di vita e di lavoro delle operaie biellesi in tempo di guerra sono un tassello importante per leggere, attraverso la memoria delle protagoniste, quale grande occasione di formazione di identità del proprio ruolo sociale, individuale e collettivo, furono quegli anni cruciali.
Un modo per accendere i riflettori sul contesto sociale in cui il “Contratto della montagna” maturò e da cui fu reso possibile.
Le testimonianze alle quali attingiamo sono storie di vita che fanno parte di una ricerca avviata nel 1990 dal Centro di documentazione della Camera del lavoro di Biella, condotta da Simonetta Velia, Aurora Zedda e dalla sottoscritta e coordinata da Claudio Dellavalle e Gianni Perona.
Dalle oltre cento testimonianze di ex operaie biellesi nate tra la fine dell’Ottocento e gli anni trenta depositate al Centro, ne abbiamo scelte trenta e da queste abbiamo estrapolato i ricordi riguardanti la guerra, che ci aiutano oggi a dipingere uno scenario che sarà reso più vivo dai racconti che seguiranno. Delle trenta narratrici sedici sono nate nel Biellese, quattordici sono immigrate con le famiglie dal Veneto o dal Friuli subito dopo la grande guerra. Durante il secondo conflitto mondiale dodici lavoravano da Rivetti, cinque alla Filatura di Tollegno, tre da Cerruti, le altre da Piacenza, Poma, Garlanda. Erano perlopiù operaie dei reparti di tessitura e filatura, che nel ’40 avevano in media ventidue anni e in maggioranza vivevano ancora nella famiglia d’origine. La guerra coincise, è bene qui sottolinearlo, col periodo della giovinezza delle nostre testimoni, dunque della loro formazione.
Vorremmo prendere le mosse da una testimonianza che riassume bene quale fosse lo stato d’animo e il grado di coscienza di una giovane operaia all’inizio del conflitto e che ci servirà tenere a mente, al termine di questo itinerario, per misurare quanto, nel volgere di pochi anni, si modificherà profondamente nella consapevolezza individuale e collettiva di ciò che stava avvenendo.
«Il giorno che dichiarano guerra – racconta Primina Baraldo – a noi della Rivetti ci mandano fuori nel cortile, e lì agli altoparlanti c’è il duce che grida: “Guerra, guerra, guerra!”. Hai capito qualcosa tu?. Io non avevo capito niente. Questo duce ci aveva tenuti ignoranti di ogni cosa; a casa mia non arrivava mai un giornale; mio padre in casa non parlava mai… non sapevamo… abbiamo ascoltato. Nessuno batteva le mani, solo tre o quattro fascisti, ma gli altri: tutti con la testa bassa. “La guerra? Tu cosa ne dici?”’. “Ah, non so niente io”. Una non sapeva, l’altra non sapeva…».
La guerra dunque iniziò, e tornare con la memoria a quel periodo non è facile: la fame, la paura dei bombardamenti, le rappresaglie, la sofferenza per le persone lontane, i lutti, il poco lavoro, la crisi, la fatica e i salari decurtati. È forse per questo che le nostre interlocutrici, a tutta prima, spesso saltano il periodo bellico, o lo risolvono in poche parole. Ricordare è faticoso, e poi la guerra altera a tal punto la vita quotidiana da renderla difficilmente inscrivibile nella continuità del racconto di vita.
Il primo “picco” che emerge dall’iceberg del passato e la difficoltà della vita di tutti i giorni, soprattutto l’alimentazione. Tutte ne parlano, ognuna con episodi particolari. Rita Mattis ricorda: «Qualche volta potevo avere una pagnotta di pane bianco fatto in casa [con il grano] macinato clandestinamente al mulino di Chiavazza, ma non lo portavo in fabbrica perché mi vergognavo di fronte alle compagne di lavoro, quindi lo mangiavo a casa».
Lo zucchero era un bene così prezioso che Maria Pensotti, alla quale ogni tanto le padrone del negozio di commestibili ne regalavano un pacchettino, lo teneva «come se avesse centomila lire in cassaforte».
Alla Rivetti – dove c’era la mensa – le operaie andavano portandosi da casa il raminin, e dopo aver mangiato in fretta – racconta sempre Maria – lo riempivano di nuovo e lo portavano a casa per il resto della famiglia. Il bisogno era così forte che, ad esempio, Nive racconta che ragazze e madri di famiglia in tempo di guerra lasciavano la filatura di Tollegno – dove il lavoro era saltuario – e con l’assenso della direzione aziendale andavano a fare le mondine nella bassa, per poter avere, quelle che resistevano, la paga e i dieci chili di riso pattuiti.
La ricerca di cibo era uno dei problemi assillanti. Chi si spingeva – e in genere erano le donne a farlo, perché correvano meno rischi degli uomini e davano meno nell’occhio – nelle cascine della bassa per procurarsi fagioli, meliga, qualche salame e altro, non di rado ai posti di blocco subì le requisizioni dei tedeschi e dei fascisti.
Questo succedeva sempre più spesso dopo l’8 settembre 1943, data che segnò, per tutte le donne, l’inizio del precipitare della situazione, da tutti i punti di vista. Dopo l’8 settembre non si trovava più niente, e i racconti delle operaie confermano quello che le ricerche su questo tema hanno già messo in luce: la necessità di procurare il cibo alla famiglia, ai figli piccoli, l’incertezza per il futuro spingevano le donne ad una grande mobilità sul territorio, e fu la molla che fece scattare in esse quel meccanismo di rivolta che le vide protagoniste degli scioperi del ’43 e del ’44.
Nel panorama generale una condizione di quasi “privilegio” pareva esistere alla Rivetti, fabbrica militarizzata, dove non solo – come abbiamo visto – funzionava la mensa, ma, in virtù appunto del ruolo ausiliario svolto dall’azienda, venne aperto uno spaccio dove si trovavano generi altrove irreperibili: verdura, formaggio, carne, che, stando alle testimonianze, i tedeschi andavano a prendere con i camion in Emilia per rifornire il grande lanificio (forse il più grande perché occupava oltre tremila dipendenti).
Ma, se il “fronte di guerra” della donna fu la famiglia, un fronte non meno impegnativo fu quello della fabbrica.
La precarietà delle condizioni di vita si estese, e si confermò, nel lavoro. E questa è un’altra punta emergente, a tinte vive, nei ricordi del tempo della guerra.
La scarsità di materie prime da parte delle aziende in regime di autarchia, il peggioramento delle condizioni di lavoro e le decurtazioni di salario si fecero sentire pesantemente. Negli ultimi anni di guerra tutte ricordano come sempre più spesso, e per periodi sempre più lunghi, gli operai venissero lasciati a casa per mancanza di lavoro. E si lavorava di tutto: il grigioverde, il lanital, c’è chi ricorda, alla filatura di Tollegno, addirittura una partita di canapa.
Nell’autunno del ’43 iniziarono le prime agitazioni nelle fabbriche. Le date sono sfumate nel ricordo, ma la parola d’ordine è nitida: il pane! Rita Mattis ricorda che il conte Rivetti chiamò i fascisti per far rientrare uno sciopero. «Sono venuti, prima sono passati alla Cerniti, hanno picchiato, hanno mandato alcuni in campo di concentramento e di loro qualcuno non è più tornato. Poi sono venuti alla Rivetti e io non c’ero… allora, ho trovato mio fratello per la strada e mi dice: “Guarda che è successo così e così…”. Difatti siamo andati dentro, c’era un silenzio di tomba: quel giorno lì tutti gli operai avevano rotto tutti i fogli del Bédaux, per protesta. Tu dovevi sempre lavorare, e per quanto facevi eri sempre in rosso, non ti davano mai niente…». Sempre della fine del ’43, e sempre della Rivetti, è un altro ricordo di Giuseppina: «Sono entrati i fascisti, i tedeschi e forse anche dei mongoli… avevano delle facce! Volevano obbligarci a lavorare mentre noi volevamo scioperare, come ci invitava il volantino che avevamo trovato in reparto. Sono entrati nel salone della tessitura. Io non so gli altri, ma nel reparto tessitura e orditura hanno sparato… in aria, per fortuna, ma hanno sparato… ma nessuno ha ripreso a lavorare. Ad un certo punto, io ero con mia cugina, andiamo fuori dal salone e vediamo un gran movimento… Arriva il mio caporeparto e ci dice di scappare…: “Non vedete che li portano via?”. C’erano due camion in portineria e caricavano gli uomini… Allora ci ha insegnato a scappare dalla parte opposta, dove passava la ferrovia, e via di corsa, anche se ero incinta. E così siamo uscite fuori con le ciabatte, il grembiule e sono arrivata a casa così».
Le condizioni di vita e di lavoro sempre più pesanti, le rappresaglie e le violenze che si spingevano fin dentro i muri delle fabbriche sollecitarono una risposta collettiva: la coscienza della condizione comune strinse i legami di solidarietà, e fa dire a Nive che durante il primo sciopero alla filatura di Tollegno avrebbe anche dormito, in fabbrica, «tanto era bello stare lì tutte insieme a parlar male del fascio. Non è che sapessimo proprio bene, nessuno ci aveva spiegato, ma tutti dicevano: “Se almeno si ottenesse qualcosa, se almeno la guerra finisse…”».
Ci fu chi aveva provato, prima, a reagire individualmente, a far valere i propri diritti come singolo, ma ecco come Primina racconta l’esito di quel tentativo: «Una sera partiamo dalla Rivetti io e una mia amica di Ponderano e andiamo dai sindacati fascisti a reclamare il Bédaux. Andiamo lì e parliamo: siamo mal pagate, lavoriamo come negre… erano lì in tre e ci dicono di portare la busta paga. Figurati! C’era il nome sopra! Stanno freschi ! Sapete cosa fanno questi qui? Vengono in fabbrica a individuarci. Combinazione, vedo arrivare il conte Oreste con quelli del sindacato. Siamo andate a chiuderci nei gabinetti e non ci han trovate. Capito?».
Le rappresaglie, le violenze, le intimidazioni sono ricordate in mille episodi, evidentemente incisi profondamente nella sensibilità e nella coscienza di tutte. Ma l’evento che nel ricordo si impone su tutti, quasi immagine-simbolo, è la fucilazione in piazza Martiri. Il fascismo mostrò allora il suo vero volto: non ammetteva dubbi o dissidenze, faceva rispettare rigidamente il motto mussoliniano “Il duce ha sempre ragione”. Ormai era difficile non vedere, non sapere, non capire…
In questa situazione così difficile prese corpo sempre più la necessità di organizzarsi, di ribellarsi, anche a costo di grandi rischi.
Gli uomini scappati l’8 settembre dalle caserme, se non andarono subito in montagna, si nascosero nelle case per non rispondere al richiamo alle armi per la Repubblica di Salò. Ma ben presto quella condizione divenne così pericolosa a causa dei rastrellamenti continui, che anche quei giovani raggiunsero in montagna le formazioni partigiane.
Cominciarono così a venire organizzate le attività di aiuto e sostegno ai partigiani nei paesi e anche nelle fabbriche, dove le operaie e gli operai sottraevano le matasse di lana, le portavano a casa, le lavoravano o le davano da lavorare alle donne più anziane, per poi mandare i capi confezionati ai partigiani. Si realizzava così una fitta rete, complessa e minuta, alla quale parteciparono centinaia di persone, chi per procurare il filato, chi per trasportarlo, chi per lavorarlo, chi per consegnarlo infine a destinazione.
Certo, era un’attività rischiosa, perché in fabbrica si poteva venire scoperti: i controlli erano severi, soprattutto da Rivetti; i tedeschi giravano nei reparti coi fucili spianati, bastava una spiata per rompere questa rete, per provocare arresti e deportazioni.
Tuttavia, il desiderio di porre fine alla guerra e insieme di proteggere e aiutare gli uomini – padri, fratelli, mariti, figli – che erano in montagna, fu la forte molla che fece scattare questa solidarietà di massa. La donne – come si è detto prima a proposito della ricerca del cibo – erano quelle più indicate a sviluppare questi contatti, a tenere i collegamenti, a spostarsi sul territorio senza dare troppo nell’occhio.
Si “impadronirono”, dunque, di questo territorio, si organizzarono per spostarsi con tutti i mezzi (a piedi, in bicicletta, col trenino), impararono a conoscere scorciatoie, nascondigli, sentieri meno frequentati; controllavano nei paesi le presenze sospette, i segnali di pericolo, e salvarono in questo modo molte vite.
Il rischio era ovunque, la paura e la diffidenza pure, ma il clima nelle varie fabbriche non era il medesimo. Infatti, mentre alla Rivetti pareva di “sentire” la presenza, all’interno delle mura della grande fabbrica-città, del presidio tedesco, per quanto riguarda Cerniti e Filatura di Tollegno sembra di cogliere, dai racconti, un clima di comunità che abbracciava i capireparto e in alcune occasioni la stessa direzione aziendale che, per esempio, a detta di tutte, per tutto il tempo di guerra chiuse un occhio sulla sottrazione del filato. A Tollegno addirittura – ma questa e storia nota – Schneider concesse ad una staffetta partigiana la macchina e l’autista per poter trasportare un ’infermiera in montagna. A Tollegno, le testimoni ricordano che partigiani e staffette, pur assenti negli ultimi due anni di guerra, si ritrovarono dopo il ’45 i contributi versati e ricevettero il salario arretrato. Tuttavia «Silenzio, il nemico ti ascolta» era la scritta impressa sul muro di un reparto della Filatura, e per tutti c’era la consegna del silenzio. Non bisognava fidarsi: la spia poteva essere il vicino di telaio. «Tutti sapevano, ma nessuno sapeva», dicono in molte, e spesso solo a guerra finita si sono conosciute e riconosciute nell’impegno e nel rischio corso comunemente.
Rischio che in molte, la maggioranza, corsero perché ad un certo punto si trovarono di fronte all’alternativa, dovettero scegliere da quale parte stare: se con i fascisti o con quelli che lottavano per liberare l’Italia da quella tirannide.
L’aver compiuto questa scelta significò, per le donne, compiere un salto di qualità nella propria maturazione personale, nel proprio impegno sociale e inconsapevolmente anche politico.
L’esperienza della guerra contribuì a scardinare il modello fascista della madre-fattrice, dedita al lavoro, al focolare e a dar figli alla patria.
Alla fine della guerra quella stessa ragazza che ascoltava nel ’40 l’annuncio del duce dagli altoparlanti dei lanifici Rivetti, non era più la stessa: aveva scoperto la propria forza, come singola e come parte di una collettività, e con lei tante altre.
Nel ricordo di parecchie i primi effetti degli accordi stipulati in montagna nella primavera del ’45, sono rimasti impressi come risultati delle lotte operaie. Il gran sollievo rappresentato dalle mille lire al mese e dalle sporadiche distribuzioni di viveri, seguite immediatamente a quell’accordo, è ricordato come primo segnale positivo dopo tante tribolazioni.
Non si sapeva bene, nel dettaglio, il contenuto di quel patto tra gli industriali biellesi e i partigiani. Solo dopo la guerra se ne conobbero appieno i contenuti innovatori.
Le testimonianze che seguono potranno esprimere meglio il clima creatosi tra i lavoratori dopo quell’accordo. Tra l’altro, una delle testimoni contribuì, almeno tecnicamente, alla stesura di quel testo.
Non sta a me entrare nel merito di quell’accordo. Marni preme però sottolineare il valore che esso ebbe in prospettiva per l’intera categoria dei tessili, in particolare il principio della parità di salario tra uomo e donna. Infatti il “Contratto della montagna” prevedeva, tra l’altro, la parità delle tariffe di cottimo tra tessitrici e tessitori. A guerra ultimata quell’accordo continuò ad esistere come contratto integrativo.
Era la prima volta che il principio di parità si affermava, anche se parzialmente. Soltanto nel 1963, e proprio nel Biellese, venne definitivamente conquistato, con l’ottenimento della sentenza del Tribunale di Biella, che accolse il ricorso avanzato da molte tessitrici e patrocinato dal sindacato: sentenza nella quale si stabilì il diritto della donna di percepire salario pari all’uomo per uguale lavoro. Negli anni successivi, i contratti nazionali dei tessili recepirono questo principio per l’intera categoria.
Testimonianza di Giuseppina Arposio
Fino a tutto il ’42, più o meno, ci siamo barcamenati; poi, nel ’43, è stato proprio un disastro: non si mangiava mai abbastanza, cioè, si mangiava quel che si poteva. Mi ricordo tante patate bollite, tanti fichi secchi: nello spaccio del Lanificio Cerruti, dove io lavoravo, c’erano fichi, castagne, cioccolato; io la sera passavo di lì, comperavo tre etti di fichi secchi e prima che avessi fatto la via Cernaia li avevo già mangiati tutti, in modo che arrivavo a casa un po’ meno affamata, e mi bastavano quelle due o tre patate riscaldate nel forno.
Quanto al pane, la razione giornaliera era una pagnotta di riso, così dura che se la tiravi in testa a qualcuno ci rimaneva secco. I miei tante volte non la mangiavano per darla a me, che ero figlia unica. Loro lavoravano tutti e due in fabbrica e avevano a Ponderano un pezzetto di terra, per cui palate e granoturco non ci mancavano mai: era la pietanza che proprio non c’era. Avevamo tenuto qualche gallina per avere qualche uovo ma, soprattutto dopo l’8 settembre, spesso le irruzioni di fascisti e tedeschi ci lasciavano senza galline e senza uova.
Non è che in fabbrica si stesse male: noi eravamo giovani, avevamo formato un bel gruppo che andava d’accordo; si lavorava, e quando non c’era lavoro alle macchine si lavavano anche i vetri. Quando mancava l’energia elettrica stavamo a casa anche qualche settimana, per poi riprendere. La Cerutti era una fabbrica vivibile: non avevamo dentro né tedeschi, né fascisti.
Ricordo che nel marzo ’43 – lavoravo come porgifilo a una macchina di orditura – avevamo fermato perché si faceva lo sciopero per il pane e a un certo punto abbiamo visto entrare nel reparto uno squadrone di uomini vestiti in divisa nera che volevano che dessimo acqua alle macchine. Qualcuno si è impaurito e l’ha data subito; dietro di me c’era una tessitrice, che consideravo una donnina, la quale ha preso una navetta per darla in testa a uno di questi. Tutti si sono messi a gridare: “Piantala li!”, ma lei non ha dato acqua al suo telaio, l’han data loro. Ricorderò sempre questo episodio, ho avuto una paura tremenda.
Dopo l’8 settembre c’è stato un altro episodio che ricordo bene: un giorno eravamo seduti vicino alla macchina: mancava l’energia elettrica; vediamo entrare dei tedeschi e dei fascisti che vanno su al quarto piano, dove c’era il magazzino filati, e tornano giù con tre nostre compagne delle quali una l’abbiamo rivista dopo qualche giorno, una dopo qualche settimana e l’altra dopo la fine della guerra, molto mal messa. Avevano trovato dei volantini a casa di queste ragazze, qualcuno ha fatto la spia ed è andata a finire così.
In tempo di guerra guadagnavamo da gran fame. In fondo al magazzino filati, ricordo, c’era una saletta di deposito dei filetti per le pezze; noi tre o quattro ragazze giovani avevamo scoperto che in quel magazzino c’erano dei sacchi di carrube – allora il commendator Silvio teneva ancora i cavalli – e noi, con la scusa dei filetti, andavamo e ci riempivamo le tasche di quelle carrube, tanta era la fame!
Verso la fine del ’44 le cose hanno cominciato a cambiare: il salario era migliorato e ogni tanto ci davano qualche pezzo di stoffa: potevamo farci i grembiuli. L’ultimo Natale, quello del ’44, è stato un Natale da favola, perché tutte le ditte hanno dato un mucchio di roba ai loro operai: carne, salame, pasta, olio. Ricordo che in casa mia lavoravamo in tre fabbriche diverse, e non si sapeva più dove guardare da tanta roba che avevamo. Allora abbiamo fatto una cosa: eravamo quattro famiglie nel cortile abbiamo messo tutta la roba insieme perché c’erano anche quelle dove uno solo lavorava in fabbrica; abbiamo fatto un Natale pantagruelico, una cosa da ricordarsi per anni. A me avevano dato mezza oca, pasta, zucchero, un fracco di roba; a mio padre avevano dato salami, pasta, burro; alla mamma avevano dato galline, carne da bollito, di modo che quel Natale lì abbiamo fatto mezzogiorno e sera. È stato un festeggiare all’infinito.
Forse su questo stato d’animo ha influito moltissimo il clima di allora, perché si capiva che si stava andando verso la fine della guerra, anche se a noi sembrava che non dovesse finire mai. Pensavo a quei poveri ragazzini in montagna, che cosa dovevano provare. Io non avevo nessuno tra i partigiani, però aiutavamo come potevamo quelli che avevano scelto di andare in montagna.
A Ponderano, nel nostro cortile, c’erano dei ragazzi della Piaggio che dopo l’8 settembre erano andati in montagna, tre ragazzi che non avevano nessuno. Ci siamo fatti carico noi di aiutarli: lasciavano la roba a casa nostra e noi gli davamo quella pulita; venivano giù, facevano il bagno, si cambiavano, mangiavano un piatto di minestra quando c’era. Mio padre gli dava le scarpe, mia mamma faceva anche le calze. Avevo una zia che filava: prendeva la lana da una famiglia che aveva le pecore e la filava, e con quella si facevano calze e maglioni anche per quei ragazzi. Li aiutavamo così nei paesi: li accudivamo quando venivano giù.
Testimonianza di Laura Dellamontà
Io lavoravo nella ditta Albino Botto di Strona. Negli anni tra il ’43 e il ’45 mia madre gestiva una cooperativa a Brovato, frazione di Valle S. Nicolao.
Sopra la cooperativa c’era il Dopolavoro ex Enal, e poiché avevano in comune la cantina, gli amministratori chiesero di gestire anche il Dopolavoro, con la promessa che ci avrebbero aiutato, e così fu.
In quella zona operava Ercole Ozino – che io allora conoscevo come Giorgio – il quale teneva collegamenti tra le formazioni partigiane e quelli che operavano al basso.
Già all’inizio del 1944 io avevo collegamenti con lui tramite mio fratello, che prima di salire in montagna collaborava e partecipava a riunioni, che a volte si svolgevano a casa mia.
Nel mese di giugno del ’44 mio fratello salì in montagna e purtroppo il 25 luglio, nella battaglia di Issime, in Valle d’Aosta, ferito gravemente da una scheggia di granata, si sparò alla testa per paura di mettere in pericolo i suoi compagni.
Malgrado il dolore di mia mamma e mio, non cessammo di collaborare e fare tutto quello che era a noi possibile, perché eravamo convinte che quella era la parte giusta.
Mi ricordo che Ozino chiese a mia madre se una volta ogni tanto, nei locali del Dopolavoro, poteva incontrarsi con delle persone, che seppi poi facevano parte del Comitato di liberazione.
Loro s’incontravano e discutevano, molte volte animatamente, e qualche volta mia madre preparava loro da mangiare: roba che portavano loro, perché in quei tempi con la tessera noi non avremmo potuto.
Un giorno Ozino mi disse: «Tu devi imparare a scrivere a macchina». Io rimasi interdetta e incerta, poiché io le macchine per scrivere le avevo viste solo negli uffici, ma lui mi disse: «Non preoccuparti, troverò io chi ti insegnerà».
Infatti un giovane che lo sapeva fare mi insegnò le cose più importanti. La macchina per scrivere che Ozino mi aveva portato era una Remington un po’ vecchia e con i tasti molto duri.
Ogni tanto lui mi consegnava dei suoi testi manoscritti e io li copiavo. Senza chiedere nulla, mi accorsi che ciò che scrivevo si riferiva a cose che riguardavano il lavoro e si parlava di tariffe.
Io non so se quello che scrivevo e consegnavo a Ozino serviva solo a lui e a chi rappresentava, o se veramente era una parte del “Contratto della montagna”, però sono convinta che quello che scrivevo facesse parte di un contratto.
Era la fine di febbraio o i primi di marzo del ’45, quando una mattina, verso le 8.30 o le 9, una colonna di repubblichini che proveniva da Cossato, passò senza fermarsi e salì verso il paese. Verso le 10 o le 11 Ozino, preoccupato perché quel giorno doveva incontrarsi con Mario Vietti (quando il tempo era bello Vietti arrivava con una moto guidata da un giovane) , mi disse: «Vai in paese e vedi di capire se è successo qualcosa».
Io andai e quando arrivai in paese vidi il giovane, che guidava la moto, seduto sui gradini dell’atrio del municipio, circondato dai fascisti. Ricordo che alzò la testa e mi vide. Per un momento ebbi paura e tremai un po’: se lui avesse parlato, per mia madre e per me sarebbe stata la fine. Qualcuno aveva già fatto la spia, quindi eravamo già state sottoposte a perquisizione, ma, per fortuna, non avendo trovato niente, ci era andata bene, però ci avevano minacciato che se avessero saputo altro per noi non ci sarebbe stato più niente da fare. Però – tornando a quel giovane – lui non fece una mossa né parlò, allora io entrai nell’edicola, comprai delle cartoline e dei francobolli e ritornai a casa.
In seguito seppi che quel giovane, accortosi dei fascisti, si era gettato dalla moto e si era fatto catturare, dando il tempo a Vietti di fuggire.
Testimonianza di Piera Riboldazzi
Del tempo di guerra ricordo la gran fame. Si mangiava patate bollite senza sale finché si poteva. In fabbrica, alla Rivetti, si andava alla mensa a mangiare la minestra o quello che c’era: ci si portava il secchiellino, si riempiva e si portava a casa per mangiare alla sera. Mio padre, che lavorava anche lui da Rivetti, faceva il turno dalle 6 alle 2, riempiva il secchiellino di minestra e lo portava a casa; io, che facevo dalle 2 alle 10, facevo la stessa cosa la sera, e così avevamo la scorta. Allora non c’era il frigorifero, c’era la giaséra: andavamo a prendere un panino di ghiaccio al viale e conservavamo la minestra; capitava a volte che anche Rivetti non potesse dare la mensa perché mancavano gli ingredienti, e allora prendevamo dalla nostra “scorta”, la scaldavamo e la mangiavamo, magari dopo una settimana. Dovevamo fare così, se no non potevamo cavarcela. Poi, quando si poteva andare giù, alla bassa, era una faticaccia, perché tornavamo a casa con due ceste, una davanti e l’altra dietro la bicicletta, con un po’ di tutto: farina da polenta, farina bianca, riso… però era sempre un rischio, perché non si poteva passare dalla strada maestra. Andava così: finito di lavorare, magari la sera alle 10, si partiva con la bicicletta e si andava giù; si faceva la Ratina, lì a Cossato, senza pericolo. Quando si tornava, dopo cinquanta chilometri in bicicletta, alle 5 o alle 6 del mattino, dovevamo attraversare tutto il Sesia dove passava la ferrovia, attraversare i boschi, evitare i paesi, poi quando si arrivava a Cossato era un pericolo micidiale, perché c’erano posti di blocco, fascisti da una parte, rastrellamenti dall’altra. È capitato un giorno che non sapevamo come fare a passare un posto di blocco a Chiavazza, allora, passando dietro al tiro a segno, abbiamo attraversato il Cervo, siamo arrivati su da dove passava il trenino che arrivava fin dentro Rivetti, abbiamo nascosto la roba – il portinaio ci conosceva – e poi, dalla finestra del magazzino della trama filati, abbiamo buttato giù i pacchi; dall’altra parte erano già avvertiti, c’era mia madre o qualcuno che li raccoglieva subito e li portava a casa (noi allora abitavamo in quella casa alta che chiamavano la cassia da mòrt)’, si evitavano rischi e ce la cavavamo in quel modo.
Poi la Rivetti ci ha dato la tessera, e lo spaccio ci dava, una volta ogni quindici giorni o una volta al mese, non ricordo più, un pacco con un etto di formaggio, un etto di burro, un chilo di riso, pasta, un po’ di cose, però tutto assieme non bastava, perché in casa eravamo in cinque.
La mia fame è stata così.
Il clima in fabbrica era pesante, alla Rivetti. A un certo punto, non ricordo esattamente quando, si sono installati i tedeschi, in fabbrica: hanno fatto l’ufficio in fabbrica e comandavano loro. Noi in tessitura dovevamo lavorare per loro; anzi, c’è stato un periodo che mancava della stoffa e hanno fatto lavorare di notte anche le donne, con un tedesco di guardia ogni due file di telai. Non si poteva parlare, non si poteva andare al gabinetto, perché se ti vedevano ti seguivano per controllare che non combinassi qualcosa. Tante volte capitava che al mattino alle 6 mancava una tessitrice a dare il cambio a quella del turno di notte, e loro ci facevano fermare fino alle 2, perché avevano bisogno della stoffa – si lavorava il caki, il grigioverde -. Facevamo il lavoro sempre seguiti da un tedesco; devo dire che c’erano dei ragazzi anche bravi: si sedevano lì in fondo e non dicevano niente, invece c’erano quelli che ogni cinque minuti giravano. Avevamo 500 telai, nei telai da panno; fate il conto di quante file c’erano… e le passavano tutte. Bastava aprire la bocca, magari per dire a quella davanti: “Aiutami a legare questo filo” e quello arrivava, si fermava lì: paura, gente, paura davvero!
Ricordo il rastrellamento. Un giorno nella fabbrica è entrato il camion dei tedeschi : hanno preso gente in tessitura, nella tintoria e nel finissaggio – nella filatura non hanno toccato -, e hanno riempito il camion. Hanno preso un uomo, signori miei, un poveretto che lavorava in tintoria, e l’hanno portato fino al camion fermo davanti alla portineria. Non so se per la paura, ma quest’uomo, come hanno fatto per alzarlo e buttarlo sul camion, è diventato tutto bianco di capelli e si è sentito male. Lì è intervenuto il signor Oreste, il conte, che si è preso la responsabilità e lo ha fatto ributtare giù.
Io mi sono salvata da quel rastrellamento per il fatto che ero pratica del magazzino filati (prima ancora di lavorare in tessitura facevo la portatrama: portavo la trama in spalla). Sapevo che c’erano delle finestre, nel magazzino, che i tedeschi non avevano inchiodato. Mio padre si è salvato perché è venuto ad avvertirmi; allora io e un’altra – eravamo magre – ci siamo infilate lì, siamo scese, siamo uscite nell’officina che c’era lì dietro e siamo scappate a casa.
Noi abbiamo aiutato i partigiani come potevamo. Dopo l’8 settembre hanno cominciato ad andare su: iniziava l’inverno e i primi non avevano indumenti né niente. Eravamo quattromila alla Rivetti in quegli anni, compresa la pettinatura; era un paese, e c’era gente che arrivava da Sala, Tavigliano, Miagliano, Sagliano, Ponderano, Cossato e le donne dei paesi avvertivano tutti, abbiamo saputo quello che succedeva.
Allora, che si faceva? Si prendeva qualcosa in fabbrica per mandare su a quei ragazzi, i primi, che non avevano niente. C’era un trenino, che passava in mezzo alla fabbrica, e il conduttore, o forse il controllore, era d’accordo con noi. E allora gli uomini della tintoria, quando andavano a prendere le pezze, cercavano di nasconderne qualcuna, o anche solo metà: facevano un rotolo in un pezzo di carta e lo buttavano giù nella piccola scarpata al di sopra della ferrovia. In quel tratto il conduttore rallentava e chi di dovere scendeva e prendeva la roba.
Noi, che eravamo giovani e vivaci e non davamo tanto nell’occhio se giravamo in bicicletta, portavamo le calze pesanti, o qualche maglione, che le anziane facevano per i partigiani. Mettevamo questa roba nella borsa e ci davamo l’appuntamento, in bicicletta, davanti alla stazione del tram di Cossato. Lì c’erano ad aspettarci quelle che arrivavano da Masserano, prendevano la borsa e la portavano via. Cercavamo di fare le indifferenti, perché lì c’era un via vai di fascisti col mitra e col fucile addosso.
Ne abbiamo fatte, insomma, ma ce la siamo sempre cavata. Questo è durato per un po’ di mesi, fino a quando su in montagna si sono organizzati e tutto è andato diversamente.