E le chiamavano rappresaglie

Marilena Vittone

articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXIII, n. 1, giugno 2003 (con aggiornamenti in Appendice del luglio 2024)

La storia non si snoda/ come una catena/ di anelli ininterrotta./ In ogni caso/ molti anelli non tengono./ La storia non contiene/ il prima e il dopo/ nulla che in lei borbotti/ a lento fuoco…/ La storia non è poi/ la devastante ruspa che si dice./ Lascia sottopassaggi, cripte, buche/ e nascondigli. C’è chi sopravvive… (Eugenio Montale, La Storia, in Satura, Milano, 1971).

Introduzione

Questo lavoro è il risultato di una ricerca relativa ai fatti accaduti a Crescentino l’8 settembre 1944, giorno della tragica rappresaglia: un momento che segnò la vita e la memoria di una piccola comunità vercellese non solo nei mesi di guerra civile, ma anche nell’immediato dopoguerra e negli anni successivi.

Il caso di Crescentino si inquadra in un clima di violenza generale, dove le regole del diritto internazionale erano saltate e i comandi militari e politici, sia degli occupanti tedeschi che degli italiani della Repubblica sociale, non furono in grado di controllare la situazione, anzi la inasprirono, mettendo a repentaglio la stessa popolazione civile. Infatti, l’eccidio che causò l’uccisione di nove ostaggi fu uno dei tanti casi efferati in cui la gente comune, tra cui vecchi, donne e bambini, si trovò coinvolta e divenne oggetto di vendetta in un crescendo di violenze, come documentano autorevoli storici contemporanei: nel settembre del 1944 si contarono nel Nord Italia ben sessantotto rappresaglie[1].

A partire da Boves, 19 settembre 1943, a Caiazzo, 13 ottobre, a Civitella, a Fossoli, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema, a Santhià, fino ad Avasinis, località in provincia di Udine dove, il 2 maggio 1945, giorno della resa delle forze armate naziste in Italia, l’esercito tedesco e le Ss, coadiuvati dai soldati della Guardia repubblicana e delle brigate nere, si lasciarono alle spalle una scia di sangue e di morti senza motivo che toccò, con il suo rituale dell’orrore, anche paesi isolati e cascine sperdute[2].

Le stragi dei civili perpetrate negli anni 1943-45 rientrano, sia in Italia che in Germania, in un capitolo ancora poco studiato della storia della seconda guerra mondiale, che fu deliberatamente non indagato dalle istituzioni preposte, per una concomitanza di fattori tra cui anche la possibile perseguibilità giuridica, individuale, di singoli omicidi. A partire dagli anni novanta gli storici hanno ripreso ad analizzare nuovi documenti, riguardanti le stragi dei civili nel periodo dell’occupazione nazista, e a ricostruire in modo dettagliato gli eventi, incrociando diverse ottiche di indagine, consultando prima materiali non reperibili o coperti da segreto di stato e testimonianze dirette.

I dati rilevati sono drammatici, ma ricchi di spunti critici per l’accertamento del passato e per la memoria pubblica.

Utilizzando testimonianze inedite, documenti d’archivio, pubblicazioni locali, questo saggio, a quasi sessant’anni di distanza, propone una rilettura dei fatti accaduti a Crescentino nei venti mesi di guerra civile[3], nell’estate di fuoco del 1944 nel Vercellese[4], quando l’ordine del maresciallo Kesselring di lottare con ogni mezzo contro le bande partigiane consentiva la guerra anche ai civili, e si sofferma sulla “memoria” dell’eccidio, sulla sua successiva rimozione, nella convinzione che comprendere il passato e individuarne gli snodi critici possa contribuire a una migliore ricerca dell’identità collettiva[5]. Nello stesso tempo questo studio costituisce un piccolo tassello di una più vasta indagine compiuta dallo storico Mimmo Franzinelli e da altri studiosi sui 695 fascicoli processuali riguardanti i crimini di guerra nazifascisti che vennero occultati nella sede della procura generale militare, a Roma, in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi. “L’armadio della vergogna” conteneva inchieste e dati raccolti su delitti e rappresaglie, tra cui quella dell’8 settembre ’44, su saccheggi e uccisioni di gente comune di tutte le regioni d’Italia, rimasti sepolti e sconosciuti alla giustizia, sia militare che ordinaria.

L’occasione

Agosto 2002: “Ritrovate le denunce sulle rappresaglie del 1944; primi riscontri in Procura”; “Brigate Nere: un fascicolo sui fatti del ’44”. Questi i titoli di alcuni giornali locali in cui appaiono notizie su documenti risalenti a rappresaglie nazifasciste del 1944-45 in tre comuni del Vercellese. Sono pagine ingiallite inviate dalla procura militare al tribunale civile di Vercelli per eventuali indagini sui presunti colpevoli, ancora in vita[6].

Un fascicolo viene citato: il 2.153 riguardante la rappresaglia dell’8 settembre ’44 a Crescentino. «Arrivano con ogni probabilità – scrive Walter Camurati – dal famoso armadio della vergogna i tre fascicoli che il sostituto Marina Eleonora Pugliese ha ricevuto dalla procura militare di Torino: se l’ipotesi è giusta, fanno parte dello stock di 119 che il procuratore Pier Paolo Rivello ha ricevuto il 31 maggio del 1995 da Roma»[7].

Questo è il pretesto dello studio su un tragico episodio di quasi sessant’anni fa, per descriverlo e valutarlo con obiettività, senza dimenticare le vittime e la pietà per loro.

L’analisi della rappresaglia rientra nell’ambito della storia dei fascicoli, sepolti nell’armadio della procura militare di Roma a partire dal 14 gennaio 1960 fino a metà anni novanta, che è a sua volta complessa ed emblematica. In un armadio di Roma, quasi murato e nascosto al pubblico, nel 1994, in occasione del processo contro l’ex capitano delle Ss Erich Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, si ritrovarono documenti riguardanti i crimini di guerra, con indagini dettagliate e denunce di testimoni e familiari, raccolte dai carabinieri e dalle forze armate alleate, inglesi e americane, a metà del 1945. Nel periodo più acuto della guerra fredda (1960) il procuratore militare Enrico Santacroce le aveva chiuse letteralmente in un armadio con un timbro emblematico: archiviazione provvisoria, dicitura che non esiste nella legislazione penale italiana e che comportò la vera e propria scomparsa degli incartamenti[8]. Solo per puro caso fu scoperto dal procuratore militare Antonino Intelisano un registro in cui si davano indicazioni di tali fascicoli e allora, anche a distanza di cinquant’anni, qualche giudice riprese ad indagare. Un caso in particolare fece discutere e si chiuse con una condanna: quello del boia del Lager di Bolzano, Michael Seifert, fuggito in Canada e accusato di crimini e violenze gratuite contro i prigionieri del campo. Nel marzo del 1999 Bartolomeo Costantini, a capo della procura militare di Verona, raccolse le testimonianze e procedette al processo in contumacia. Seifert fu condannato all’ergastolo, dopo il processo d’appello celebrato a Verona il 18 ottobre 2001, e con una procedura di estradizione in corso.

Crescentino: estate 1944

Crescentino e tanti altri centri dell’Italia del Nord, dal giugno all’ottobre del ’44, furono teatro di violenze e saccheggi che non avevano ragione di essere e si compirono stragi di civili in luoghi anche lontani dai fronti[9]. Mai si appurarono i motivi degli eccidi, se non quelli derivati dalla violenza insita nella guerra e nella lotta ai “banditi” partigiani; non si cercarono i responsabili, né chi aveva dato ordini efferati che avevano provocato migliaia di morti[10]. Tante, allora, le ragioni per tornare a capire e studiare la rappresaglia dell’8 settembre ’44.

La prima è chiarire un momento tragico e importante della storia locale, per il quale si dispone di versioni contrastanti, e mettere in relazione cause e conseguenze. La seconda è utilizzare materiali inediti, testimonianze e ricerche storiche recenti sulle stragi di civili durante il secondo conflitto mondiale, per comprendere il complesso periodo storico; poi, analizzare “la memoria” attraverso i materiali dell’Archivio storico di Crescentino.

«È facile comprendere che gli eventi, nella loro atrocità, sono stati vissuti dalle comunità a cui appartenevano le vittime come vere e proprie catastrofi. […] Le persone scampate agli eccidi hanno in genere vissuto quanto era accaduto come un evento apocalittico e tale percezione si è mantenuta fino ad oggi. Di qui l’elaborazione in forma letteraria degli eventi, e la loro conservazione talvolta in diverse varianti nella memoria e nell’identità dei paesi colpiti. È più che comprensibile che una comunità colpita sul piano esistenziale dia alla memoria una forma letteraria. E tuttavia quest’ultima ha in qualche modo ostacolato la ricostruzione degli avvenimenti. Ma inquadrare gli eventi nel loro contesto storico è qualcosa cui non possiamo rinunciare, essendo l’unica possibilità che abbiamo di chiarire le responsabilità individuali e istituzionali degli eccidi»[11].

Da fine agosto si era intensificata l’attività della Brigata nera di Vercelli e dei reparti della Guardia repubblicana provenienti da Livorno Ferraris o da Cigliano, dove era localizzato anche un Reparto arditi ufficiali (Rau); un piccolo distaccamento della Gnr si trovava anche a Saluggia.

Invece a Crescentino la sede repubblicana era stata chiusa dal giugno del 1944, proprio per l’inasprirsi delle azioni della Resistenza, per cui i militi erano stati concentrati in località vicine considerate più strategiche, come si è appurato leggendo i pochi materiali dell’Archivio storico riguardanti il periodo oggetto della ricerca, anche se il commissario prefettizio ne richiedeva il ripristino.

Il podestà in carica era il geometra Antonio Dellarole; in quei mesi si trovava in malattia, sostituito, a partire dal 24 marzo ’44, dal dottor Emilio Silvestri[12].

La tranquillità del paese era solo apparente; salvo sporadiche denunce alle autorità locali verso ignoti o presunti partigiani, relative al sequestro di un’auto del medico condotto o di requisizioni di riso, vitelli o altri viveri, a livello istituzionale non veniva segnalato niente di eccezionale.

Le delibere amministrative prendevano atto dello stato di guerra e del suo inasprirsi; ad esempio, pesanti bombe erano cadute i giorni 23 e 24 di luglio, causando panico tra la gente e gravi danni. Venivano recepite le norme per la protezione antiaerea, per il razionamento dei generi di prima necessità e vigeva il coprifuoco.

In effetti, la situazione generale, politica e militare, di questa parte della provincia che si incunea tra le colline del Monferrato, era in continua evoluzione e quotidianamente Crescentino era percorsa da automezzi militari fascisti e tedeschi o da gruppi armati di partigiani locali. Questi ultimi, dal giugno 1944, fecero riferimento alla divisione “Monferrato”, di stanza a Villadeati, con battaglioni anche prossimi alla città di Crescentino, ad esempio a Verrua Savoia (sulla Rocca verrà in seguito installata la stazione radio partigiana)[13].

La città si trovava al confine della provincia di Vercelli, su una linea ferroviaria importante (Torino-Casale Monferrato) più volte bloccata dalle incursioni degli aerei alleati e dai sabotaggi partigiani; non era lontana dall’autostrada Torino-Milano e da altre strade statali, di facile percorribilità, che comunicavano con il capoluogo e con importanti sedi di comandi nazifascisti (non ultimo Chivasso, dove era insediato l’Ost-Bataillon 617, specializzato nell’attività antiguerriglia); dal 21 giugno ’44 fu sede del comando del primo reggimento della flottiglia Mas[14]. Inoltre, il ponte sul fiume Po tra Crescentino e Verrua Savoia metteva facilmente in contatto pianura e collina ed era attraversato dagli impianti dell’acquedotto del Monferrato, indispensabile per portare acqua alle città di Alessandria e di Asti; sarà l’unica infrastruttura che si salverà dalla distruzione bellica.

Dall’estate del 1944, sulle ultime propaggini del Monferrato, si erano raggruppate molti reparti partigiani, che controllavano il territorio entro il triangolo Chivasso-Casale-Asti e compivano azioni di aiuto ai soldati sbandati italiani e alleati, di attacco ai nazifascisti, di sabotaggio. Il quartier generale dei numerosi gruppi armati, che facevano riferimento alla VII divisione autonoma “Monferrato”, al comando di Carlo Gabriele Cotta “Gabriele”, dall’ottobre si situerà a Cocconato (At), con distaccamenti in varie località collinari da Moncestino, Moncalvo, Gabiano, fino a Gassino Torinese[15].

Non si deve inoltre dimenticare che, per la scadenza dei bandi Graziani relativi ai giovani di leva, in quei mesi estivi molti si diedero alla macchia preferendo località conosciute e vicine alle proprie case; in particolare a Crescentino, pochissimi giovani risposero alla chiamata di Salò e anzi, l’impiegata comunale addetta all’anagrafe, Rosina Pattarino, che fece parte del Cln, fu più volte sollecitata a trasmettere i dati richiesti circa i giovani di leva sia al Distretto militare che alla Prefettura, come si evince dal registro del protocollo comunale relativo al 1944.

Dal 18 febbraio ’44 e nei mesi successivi il maresciallo Graziani, ministro della Difesa della Rsi, fu costretto a minacciare la fucilazione per coloro che non si fossero presentati alla chiamata alle armi e pene detentive, dai 10 ai 15 anni, per chi avesse dato assistenza ai disertori[16].

Seguendo l’unico libro pubblicato sul periodo dell’occupazione nazista, scritto da Mario Arena, si scopre che esisteva un Cln clandestino, formato da antifascisti e da persone sfollate dalla città di Torino, di cultura e di estrazione per lo più liberale, in grado di mettere in contatto una piccola comunità, piuttosto isolata, con il capoluogo e con il fervore culturale e politico di quei mesi (contatti con l’avvocato Valdo Fusi e il Comitato militare piemontese). Alcuni presero vie diverse e parteciparono ad importanti iniziative di resistenza, ad esempio Mario Casalvolone, viceparroco, divenne cappellano della 50a brigata “Garibaldi”[17].

Allora, come risulta dai registri presenti nell’Archivio storico, gli sfollati erano circa millecinquecento, ben accolti da famiglie locali. Vi erano inoltre localizzate alcune fabbriche importanti, che si erano trasferite da Torino in seguito ai tragici bombardamenti del 1942: ad esempio la Lenci, fabbrica tessile che occupava molte donne e giovani. Altre fabbriche lavoravano per la produzione bellica, quale quella di Maggiorino Bianzeno, che si occupava di forniture militari, e quella di Pietro Sartoris, personalità di rilievo e antifascista, proprietario di un laboratorio di falegnameria che lavorava per l’organizzazione Todt.

Sartoris (“Radice”) fece parte del Cln, occupando un ruolo importante nel gruppo dei partigiani autonomi del basso Monferrato, quale commissario di guerra nel 3o battaglione “Tino Dappiano”[18].

L’occupazione tedesca e repubblicana del Vercellese si faceva sentire sulla città. Buch, comandante della zona di sicurezza, tenente colonnello e comandante di reggimento, aveva scritto l’11 luglio del 1944 al commissario prefettizio Silvestri «di segnalare ogni attività di ribelli nella giurisprudenza del vostro comune […] sia di giorno sia di notte a mezzo telefono; mentre i rifugi di banditi sono da segnalare a mezzo corriere al comando a Vercelli, via Giovane Italia 20». L’11 agosto Hartmann, vicecomandante della zona 23, sollecitò l’amministrazione locale a denunciare prontamente la presenza di «bande o movimento di bande o sospetti di banditismo» sul territorio e invitò «ogni podestà o pubblico ufficiale e anche ogni concittadino di farmi il summenzionato rapporto. In caso di inosservanza alle mie disposizioni, in futuro, procederò al sequestro dei beni del singolo cittadino o anche di tutto il Comune e all’occorrenza ordinerò l’annientamento della località».

Nello stesso periodo, tra giugno e luglio del ’44, in seguito alle discussioni tra i membri del Cln clandestino e i renitenti alla leva, si era deciso di organizzare il primo campo partigiano nella località di Cerrone, ai confini del Comune, nei boschi della Dora Baltea.

La stessa organizzazione “Franchi” (coordinata da Edgardo Sogno) prese in considerazione il piccolo gruppo di giovani crescentinesi, a cui se ne aggiunsero alcuni provenienti dai paesi limitrofi e altri sfollati da Torino, di estrazione monarchica e militare, che avevano preso contatto con Carlo Gabriele Cotta, ed effettuò a loro beneficio due lanci di armi e di uomini.

In quell’estate alcuni giovani renitenti alla leva, che erano entrati in altre organizzazioni partigiane del Cuneese o delle valli di Lanzo, pensarono di tornare a casa, considerando l’inasprirsi della guerra; qualcuno aveva esperienze in altre formazioni, come Mario Arena, che aveva fatto parte del gruppo di Giustizia e Libertà del tenente Burlando, medaglia d’oro al valor militare, che operava nel Canavese. Si impegnarono a dar vita a nuclei armati su base locale, dove certamente era possibile conoscere gli abitanti e la conformazione del territorio, con anfratti naturali e nascondigli[19].

Il 28 agosto 1944 fu il giorno di un grande rastrellamento cittadino operato dalla Brigata nera di Vercelli guidata da Bertozzi e Testa, che era già intervenuta più volte a Crescentino, a causa delle azioni di disturbo partigiane (sulla linea ferroviaria locale, sui ponti della zona, ad esempio sulla Dora Baltea), dalla presenza del nucleo partigiano nel territorio locale, dalla mancata rispondenza dei giovani alla Rsi (ultimo bando Graziani, 15 luglio ’44), oltre che dalla presenza di spie e collaborazionisti. Il rastrellamento portò alla cattura di quaranta ostaggi civili, tra cui il viceparrocco don Mario Casalvolone, membro del Cln, la moglie di Sartoris, membro del Cln, e la mamma di Rosina Pattarino: vennero condotti nei locali delle scuole elementari per essere interrogati sui renitenti alla leva e sui partigiani della zona.

Durante il rastrellamento avvenne un fatto inquietante. Mentre il grosso della colonna si fermò a Crescentino, bloccando tutte le vie di accesso, due esponenti della Brigata nera, in motocicletta, imboccarono il ponte sul fiume Po in direzione della frazione Rocca di Verrua Savoia e vennero fermati e arrestati dai gruppi partigiani che lì operavano.

Dopo alcune ore le camicie nere si recarono alla Rocca, alla ricerca dei due, ma ne persero le tracce. Il giorno successivo gli ostaggi partirono per il carcere di Vercelli, mentre il capo della provincia Michele Morsero, sopraggiunto in città, minacciò l’uccisione dei prigionieri se non fossero stati consegnati i due militi fascisti.

Proprio in quella settimana, poiché la situazione divenne pericolosa, per evitare ulteriori rischi alla popolazione e per minore visibilità e maggiore protezione, i giovani crescentinesi che si erano raggruppati da fine giugno nella banda di Carlo Nasi (“Stefano”) raggiunsero il Monferrato, e precisamente il Comune di Verrua Savoia, composto di piccoli casali isolati tra i boschi, aperti a collegamenti con altri distaccamenti partigiani autonomi e “Matteotti”[20].

Dopo il rastrellamento, i contatti con i comandi fascisti e nazisti di Vercelli per il rilascio degli ostaggi dovevano essere presi da persone credibili e coraggiose, in grado di gestire con diplomazia le diverse fasi della trattativa; mancavano le autorità comunali, del tutto inesistenti nel momento più drammatico. Si richiedevano capacità strategiche e tattiche, in quanto erano coinvolte persone innocenti, alcuni familiari di partigiani e membri del Cln locale.

Le trattative per il rilascio procedettero con cautela, nonostante le pressioni dei familiari; si chiese aiuto al parroco di Sulpiano, don Giovanni Balossino e a Joseph Steiner, un tedesco abitante a Crescentino, che si impegnò in tutto il periodo della guerra per scambi e trattative[21].

Crescentino: 8 settembre 1944

I partigiani, in località Bolacco, pensarono di scambiare gli ostaggi con un ufficiale tedesco e il suo autista che erano stati catturati alcuni giorni prima a Palazzolo dal gruppo crescentinese di Carlo Nasi. Bisognava percorrere le vie diplomatiche più adatte al fine di evitare una ritorsione sui civili inermi. L’incaricato a sondare il terreno fu il parroco di Sulpiano, don Giovanni Balossino, perché indisposto don Alessandro Casetti di Crescentino. A fine agosto don Balossino si recò a Vercelli, ma non fu ascoltato; il comandante della Brigata nera, Gaspare Bertozzi, lo accusò di essere il prete dei “ribelli” e fu minacciato di morte. Il capo della provincia non si trovava in città e i vertici repubblicani mantennero una linea intransigente. Interessanti le pagine del parroco di Sulpiano, che scrisse di suo pugno, in collaborazione con il capo partigiano “Neve”[22], il documento da sottoporre successivamente a Michele Morsero.

I contatti vennero ripresi alcuni giorni dopo, il 5 settembre, con la partecipazione dei due parroci e di Joseph Steiner, ma furono respinti dal capo della provincia in maniera minacciosa. Maggior fortuna ebbero col capo della polizia Hartmann, col quale stabilirono lo scambio degli ostaggi sul ponte di Crescentino per il giorno 8 settembre alle ore 13: venti persone in cambio del tenente colonnello e del suo autista: «Da Crescentino saranno accompagnati con bandiera bianca al ponte sul Po; una tregua d’armi assoluta dovrà regnare dalle ore 12 alle 15: le scorte armate dovranno stare almeno cinquecento metri distanti dal luogo di consegna»[23].

Restavano altri quindici crescentinesi in carcere, che sarebbero stati liberati con nuove trattative il 13 settembre in cambio della motocicletta e delle armi dei repubblicani catturati[24]. I partigiani del gruppo “Nasi” accettarono le condizioni; ma il comandante Neve decise di forzare la situazione.

I partigiani della “Monferrato”, al fine di poter procedere ad un ulteriore scambio di ostaggi, dato che alcuni restavano fuori della trattativa e la loro liberazione non era stata accordata, scesero dal campo del Bolacco (Verrua Savoia) il 7 settembre sera, per catturare alcuni soldati tedeschi destinati a raccogliere vettovaglie e foraggio, che erano di stanza presso la cascina Alemanno, vicino alla stazione ferroviaria.

Decisero di agire in modo spontaneo: Carlo Gabriele Cotta era in carcere a Torino, catturato a luglio mentre trasportava armi in città ricevute in un lancio di una missione inglese; dall’accampamento mancavano alcuni importanti capi, “Sergio” e “Vittorio” (Sergio Cotta e Luigi Radicati di Brozolo). Neve si proponeva di sorprendere i militi tedeschi, catturarli con una rapida azione alla stazione di Crescentino e poi scambiarli. Quella sera c’erano due soldati al caffè della stazione gestito da Edoardo Castagnone. Verso le 21 irruppero i partigiani. Al “mani in alto”, uno reagì sparando contro Neve, che riuscì a schivare il colpo; nella sparatoria che seguì uno fu ucciso e l’altro ferito[25].

I partigiani tornarono alla sede, ma, dopo qualche ora, da Vercelli giunsero numerosi militi per rastrellare dalle case ostaggi inermi, addormentati, che furono radunati alle scuole elementari per compiere la triste rappresaglia.

Fu una lunga notte quella del 7 settembre ’44; gli arrestati furono moltissimi. Così il racconto in un opuscolo edito dal Comune di Crescentino in occasione della commemorazione dell’8 settembre, nel 1947: «La popolazione, ignara del tragico evento dormiva serenamente, quando verso mezzanotte, giungeva un distaccamento di Ss italiane e tedesche. Nell’assenza del commissario prefettizio dottor Silvestri, che risiedeva abitualmente a Vercelli e del segretario capo, geometra Perotti, sfollato con la famiglia a Castagneto Po, dell’autorità locale fu prelevato soltanto il parroco don Alessandro Casetti, che poco dopo veniva rilasciato in considerazione dell’età e dell’ora ingrata. Per contro tutti i dipendenti comunali reperibili furono prelevati, condotti nel cortile delle scuole elementari e quivi piantonati. Il comandante germanico minacciò di voler rastrellare tutti gli uomini dai 18 ai 50 anni, buttando giù porte a colpi di bombe a mano.

Ma ecco arrivare da Vercelli una squadra di Gnr, al comando di un certo Moia, non meglio identificato. Poco dopo giunge anche il sig. Giuseppe Steiner, il quale si rivolge al maresciallo tedesco, che lo tratta con molta freddezza e altezzosità. Nel frattempo avveniva la designazione degli ostaggi destinati alla fucilazione (nda, alla morte di un soldato tedesco doveva corrispondere quella di dieci civili)[26].

Vi era compreso tra questi anche l’Alemanno Guglielmo, trentenne padre di tre figli, che poi venne rilasciato. La stessa cosa accadde al giovane Borgondo Giuseppe, mutilato di guerra. I prescelti, a cui si aggiungerà il proprietario del bar della stazione, prelevato sul posto, sono fatti salire su di un autocarro.

Il geometra Remo Ravarino e il brigadiere delle locali Guardie di Finanza, costretti a raggiungere la stazione a piedi, erano destinati a essere testimoni oculari del dramma, ma essi lo ignoravano; erano convinti di dover subire la stessa sorte degli altri. Quale questa dovesse essere ormai non v’era più dubbio: anche il Moia aveva apertamente parlato di fucilazione.

Il maresciallo tedesco dispone che il viale venga piantonato. Due signorine, che si trovavano sul piazzale, vengono invitate ad entrare nella stazione».

I nove furono collocati a quattro metri dalla staccionata che costeggia il gioco delle bocce con il volto rivolto alla medesima: «Allora tutti in un ultimo vano tentativo si voltano ad invocare clemenza […] Schiavello, ultimo della fila a sinistra, e quindi il più vicino alla staccionata, fugge, cercando una via di scampo nella campagna al di là dei binari. I militi italiani e tedeschi, che si disponevano all’esecuzione, rincorrono il fuggitivo e gli sparano addosso all’impazzata»[27].

Dopo l’incidente, i militari si disposero in fila a circa venti metri dalle loro vittime e al segnale di “fuoco” fecero partire dai loro fucili mitragliatori la scarica micidiale, quindi, avvicinatisi a pochi passi dai poveretti già caduti al suolo, scaricarono su di loro una seconda raffica finale. Prima di partire il maresciallo tedesco ordinò che i cadaveri fossero lasciati in loco fino a nuovo avviso; poco dopo tutti salirono sull’autocarro e si diressero verso Livorno. I testimoni tornarono alle scuole dove stavano i cinquanta ostaggi, a cui narrarono il dramma. Mentre incominciavano ad arrivare alcuni parenti, il parroco somministrò l’estrema unzione.

«Per le vie del paese non si udivano che scoppi di pianto, singhiozzi sommessi, ma soprattutto accenti di maledizioni per gli autori di tanto scempio… La sera del 9 ebbero luogo i funerali solennissimi e gratuiti». Intensa la partecipazione alle esequie; molti accorsero dai paesi vicini. Anche se per venire a Crescentino si correvano reali pericoli, vollero testimoniare con la presenza la pietà per i nove martiri: Enrico Marsili, Michele Schiavello, Eugenio Lento, Ettore Graziano, Giacomo Petazzi, Giovanni Pigino, Edoardo Castagnone, Giuseppe Arena, Mario Rondano[28].

Nel testo del 1947 curato dall’amministrazione comunale si racconta che il maresciallo che aveva ordinato di fare fuoco al plotone di esecuzione fu lo stesso che diresse lo scambio di ostaggi sul ponte del Po, alle ore 13 dello stesso giorno.

Un’ipotesi di ricostruzione dei fatti[29]

Il 6 settembre il parroco di Sulpiano don Balossino, incaricato della trattativa, raggiunse i partigiani di Crescentino nell’accampamento del Bolacco e comunicò i risultati dell’incontro a Vercelli con il vicecomandante Hartmann. Tra i partigiani circolava amarezza perché ancora quindici (o più) ostaggi sarebbero rimasti in carcere; ci si ripromise di preparare una nuova azione per catturare altri militari tedeschi da utilizzare in seguito, anche per liberare la madre e la sorella di Luigi Radicati e il padre di Sergio Cotta, presi prigionieri in un rastrellamento nella zona di Robella.

Il 7 settembre arrivò all’accampamento un informatore (T. G.) e disse che nella cascina San Francesco, di proprietà della famiglia Alemanno, nei pressi della stazione ferroviaria, si erano insediati dei soldati tedeschi addetti alla requisizione del bestiame. «Secondo lui sarebbe una cosa da niente fare un’imboscata, prendere prigionieri i soldati, che ogni sera si recano al caffè della stazione, e anche portare via il bestiame requisito e restituirlo ai contadini della zona».

Mentre Carlo Gabriele Cotta, il comandante della brigata, era detenuto, Neve guidò il piccolo gruppo di giovani renitenti alla leva e disertori di Crescentino.

L’informatore diede alcune indicazioni: si sarebbe fatto trovare in piazza alle 9 di sera, si sarebbe recato a bere un caffè come al solito, poi avrebbe segnalato la situazione ai partigiani appostati fuori.

Una ventina di partigiani armati, tra cui lo stesso Mario Arena, scesero dalle colline con un camioncino fino al ponte del Po, poi a piedi, passando dalla frazione Mezzi e percorrendo un sentiero nei pressi della cascina Spinata, giunsero al viale e arrivarono all’appuntamento. Un piccolo gruppo di cinque uomini, tra cui Neve e “Barba”, si incontrò con l’informatore[30].

Gli altri si appostarono dietro gli alberi di castagno; Mario Arena controllava la stradina che portava alla cascina, localizzata alla destra della piazza della stazione.

L’informatore entrò, mentre due partigiani si appostarono ai lati del piccolo locale, dove c’erano due finestre; poi comunicò la situazione interna, così gli altri tre si prepararono ad entrare per disarmare i due soldati che stavano seduti, avevano il fucile appoggiato al tavolino, ma disponevano di una pistola. «I minuti per noi che aspettiamo fuori – racconta Mario Arena – sembrano eterni finché si sentono delle grida di mani in alto, ma quasi contemporaneamente degli spari, e poi ancora grida. Descrivere di preciso cosa successe in quei pochi istanti all’interno del locale è difficile; su tutto scende poi uno spettrale silenzio. Osservo la stradina che porta alla cascina; non vedo spuntare nessuno, nonostante i colpi d’arma da fuoco che avrebbero potuto richiamare gli altri soldati lì stanziati. Neve dà ordine di ritirarsi subito; ma interviene un altro partigiano, che gli ricorda che all’interno del bar ci sono due feriti ed è meglio portarli via. Neve è irremovibile. Anch’io cerco di convincerlo e penso che stesse commettendo un grave errore di valutazione».

Abbandonare i due soldati morti o feriti (su questo punto Mario Arena conferma i dubbi, perché dopo nessuno disse più nulla, anche quando cercò ulteriori testimonianze, intorno agli anni ottanta) proprio prima della liberazione dei venti ostaggi era rischioso. Non si riesce inoltre ad appurare chi avvisò i tedeschi rimasti nella cascina, né chi raggiunse il posto telefonico nell’edificio comunale, chiuso a quell’ora di notte, per telefonare alla Brigata nera di Vercelli (tutti i numeri telefonici per segnalare i “banditi” sono appuntati sulla copia del manifesto di Hartmann depositata in Archivio storico).

«Non ho potuto accertare se i tedeschi portarono il soldato ferito all’ospedale di via Bolongara o altrove; al campo del Bolacco circolò la voce che vi fosse stato solo un ferito dopo la sparatoria della notte» scrive Mario Arena.

Verso mezzanotte le squadre fasciste di Vercelli occuparono tutta la città, sistemarono i posti di blocco e poi iniziarono a cercare chi potesse individuare i familiari dei partigiani. Poiché non vi erano autorità reperibili, si recarono da Ernesto Zanero, dipendente comunale, e lo minacciarono affinché rivelasse i nomi dei giovani in età di leva e dei partigiani; poi andarono dall’unica autorità presente, Remo Ravarino, geometra del Comune, per farsi accompagnare in municipio a cercare le liste dei giovani di leva. Il geometra però non era originario del paese; era da poco tornato dalla Russia con l’armata italiana e quindi non conosceva nessuno. I militi fascisti si fecero accompagnare nella caserma della Guardia di finanza, dove trovarono un brigadiere che li seguì. Intanto le pattuglie giravano per il paese, tentando di farsi aprire dagli ignari cittadini rimasti, visto che una buona parte di uomini e giovani di notte si rifugiava in campagna o in collina. Chi aprì, venne arrestato e condotto nei locali delle scuole elementari.

All’alba sopraggiunsero le squadre delle Ss tedesche che presero in mano la situazione. Era giunto il momento della vendetta e di dare una lezione al paese dei ribelli, come affermarono più volte Bertozzi, Testa e lo stesso Morsero il 29 agosto[31].

Alcuni operai delle frazioni, tra cui Ettore Graziano, di San Silvestro, che si recavano alla stazione per partire con il treno delle 5, furono fermati.

Iniziarono gli interrogatori dei prigionieri ai quali, con toni minacciosi, si chiese se conoscevano i partigiani e i loro familiari.

Il geometra Ravarino tentò di mettersi in contatto con il capo del Partito fascista locale e poi con il prefetto, ma tutti erano irreperibili. Anche Joseph Steiner, lì sopraggiunto, mise in atto un’opera di mediazione con l’ufficiale, grazie alla quale alcuni crescentinesi tornarono liberi; tra questi Giuseppe Borgondo, mutilato di guerra nel 1941.

Al mattino gli ostaggi, ai quali si aggiunse Enrico Marsili, furono caricati su un camion militare e portati alla stazione ferroviaria. Fu scartato, sempre per opera di mediazione, Guglielmo Alemanno, padre di quattro figli e reduce di guerra (non ci fu l’intervento del parroco don Casetti, che in quel momento celebrava la messa)[32].

Il geometra Ravarino e il brigadiere della finanza furono testimoni della rappresaglia di venerdì 8 settembre, che si svolse alle 8.45. Mentre si preparava il plotone di esecuzione, composto da ufficiali italiani e nazisti, si impose ai prigionieri di togliere la giacca[33].

«All’ordine di fare fuoco, il partigiano Michele Schiavello tenta di scappare, ma invano; vengono falciati gli altri otto ostaggi, a cui un milite dà il colpo di grazia alla nuca. I testimoni sono riaccompagnati alle scuole e le squadre nazifasciste ripartono; c’è grande titubanza, solo dopo alcune ore i civili prigionieri sono liberi».

Il geometra Ravarino provvederà personalmente alle casse per i cadaveri[34].

Rappresaglia non a caso

La scelta dei nove civili non fu casuale; certamente ci furono spie che li segnalarono all’ufficiale tedesco che eseguiva gli ordini del colonnello Leopold Buch, comandante della polizia militare della zona di protezione 23.

Michele Schiavello aveva venticinque anni ed era un soldato di Gerocarme, in provincia di Catanzaro; sbandato dopo l’8 settembre, era temporaneamente a Crescentino, dove lavorava come operaio alla ditta di Pietro Sartoris.

Eugenio Lento di Roccasecca (Roma) di 27 anni, sbandato, lavorante alla falegnameria di Sartoris, era stato bloccato di notte nel laboratorio.

Schiavello e Lento presero parte ad alcune azioni partigiane nella zona; avevano la tessera dell’organizzazione Todt, quindi non avrebbero potuto essere arrestati.

Ettore Graziano, 27 anni, abitava nella frazione di San Silvestro, operaio motorista a Torino, era un partigiano della 21a brigata Sap garibaldina “Cagnoli”, del quarto settore città, con il nome di battaglia “Mario”. Il 25 luglio ’43 aveva partecipato alle manifestazioni in favore della caduta del fascismo a Crescentino[35].

Ricordiamo i nomi degli altri civili, che non erano direttamente impegnati politicamente e non avevano violato nessuna legge.

Enrico Marsili, 18 anni, di Torino, sfollato alla casa parrocchiale, nipote del parroco don Casetti, aveva la tessera dell’Azione cattolica; arrestato perché in età di leva.

Giacomo Petazzi, di 35 anni, nato e residente a Grandola e Uniti (Como), una persona semplice, che faceva lavori saltuari, provvisoriamente a Crescentino come lavorante all’osteria di Porta Vische del signor Scalvenzi.

Giovanni Pigino, di 38 anni, lavorante dalle sorelle Colombo, che possedevano un magazzino di granaglie, fu arrestato mentre si recava al lavoro; chiese al milite che lo stava portando verso la scuola di poter tornare a casa a prendere la giacca, credendo di andare a lavorare in Germania.

Edoardo Castagnone, di 42 anni, nato a Rosignano Monferrato, residente a Crescentino, esercente del caffè della stazione, che il 19 settembre, giorno di un’altra tragica rappresaglia, sarà distrutto dalle fondamenta: fu accusato di essere un informatore dei partigiani.

Giuseppe Arena, di 53 anni, padre di quattro figli, tra cui uno deceduto in Grecia in seguito a malattia contratta in guerra, con altri due in età di leva, partigiani delle formazioni autonome del Monferrato, impegnato di prima mattina nel suo lavoro di sellaio.

Mario Rondano, di 60 anni, conducente, nato a Crescentino, con un figlio partigiano e una figlia. «Vennero a cercarlo a casa sua, come avessero l’indirizzo preciso. Fermò i militi sulla soglia quel tanto che potesse permettere di far fuggire il figlio. Allora, gli chiesero se conoscesse Arena, altra prova che i nomi dei familiari dei partigiani erano stati detti. Proprio in quel mentre, Arena stava uscendo da un portone di uno stallaggio, dove si era recato per lavoro. Gli sarebbe bastato fermarsi qualche attimo in più per salvarsi».

Per tutto il giorno i nove morti rimasero stesi sulla piazza, scomposti e insanguinati[36].

«Il mattino dell’8 settembre ’44 – scrive Arena – nell’accampamento del Bolacco tutto era tranquillo. Niente faceva presagire la tragedia. Nessuno venne a informarci della tragica situazione».

Quello stesso giorno si verificò lo scambio dei venti ostaggi secondo le modalità stabilite da Hartmann. A metà del ponte sul Po, alle ore 13: incontro ufficiale tra partigiani e tedeschi, con i due parroci e Steiner; liberazione e lacrime di gioia.

«Il giorno dopo notavo una certa premura da parte dei miei comandanti. Alle undici, Neve mi chiama e mi dice che io e lui dobbiamo scendere a Sulpiano, frazione di Verrua Savoia.

Ci rechiamo in parrocchia, dove don Balossino si avvicina e mi parla.

Il suo è un discorso senza senso: “La miglior vendetta è il perdono; pensa a tua madre e a tua sorella piccola. Non commettere colpi di testa avventati”.

In breve, mi annunciò che mio padre era morto nella rappresaglia. Ero bloccato, inebetito; non feci nessun cenno di rabbia. Poi, di sera, verso le sei, arrivarono mia madre e mia sorella. Le sistemai nella frazione Cervotto di Verrua Savoia, dove si trovavano alcuni membri del Cln crescentinese ricercati dalle brigate nere di Vercelli. Rimasero in collina per più di venti giorni; quando dovemmo abbandonare il campo del Bolacco per il rastrellamento del 3 ottobre ’44».

Chi sparò nei locali del caffè della stazione? Calò da quel momento un’ombra sui fatti dell’8 settembre: colpevoli i partigiani, che per superficialità (anche Mario Arena mette a nudo l’incapacità di Neve di gestire il gruppo partigiano) organizzarono l’azione; “martiri innocenti” vennero successivamente definiti i nove civili fucilati.

Altre informazioni recenti sostengono che fu il comandante Neve a sparare al soldato tedesco, ma nell’opuscolo del 1947 si scrisse che fu Barba a colpire per primo. Chi vide, appostato ai vetri del locale, non parlò mai[37].

Il ricordo di Enrico Marsili

La testimonianza di Franca Rubatto, di Torino, che accompagnava il giovane alla stazione, è inedita.

La signora era intervenuta, per la commemorazione del cinquantennio dell’eccidio, alla manifestazione promossa dall’amministrazione comunale e aveva consegnato al parroco e al sindaco il testamento spirituale di Enrico.

«Era l’8 settembre, una mattina tersa d’autunno – racconta Franca Rubatto, allora sfollata con la mamma a Crescentino – Enrico Marsili ed io ci incontrammo verso le 7.30 per salutare suor Gemma, una delle suore dell’asilo infantile, allora localizzato in via Bolongara, che era stata trasferita a Vercelli e che sarebbe partita dalla stazione alle 8. Avevo quindici anni, lui diciotto.

Ci eravamo diretti lungo il viale della stazione parlando della nostra amica suora e del dispiacere per la sua partenza. Ad un tratto quattro militari ci affiancarono e ci chiesero i documenti».

Il giovane fu accusato di essere un disertore; disse subito che in tasca aveva solamente una tessera: la tessera dell’Azione cattolica.

«Fu obbligato a seguirli – continua la testimone – io corsi dal parroco che stava celebrando la messa. Andai all’altare per avvertirlo, mi rispose che non poteva interrompere la funzione. A quel punto mi recai alle scuole del paese, perché era già successo che in altri rastrellamenti la gente fosse radunata lì. All’esterno si diceva che stessero scegliendo dieci persone come ritorsione per l’omicidio o ferimento di un tedesco avvenuto nella notte. Quando uscirono, i soldati fascisti e tedeschi fecero salire sul camion anche me e il medico del paese dottor Minella. Non riuscii più a scambiare una parola con Enrico perché era controllato a vista. Il dottore e io rimanemmo sul camion dove fu piazzata una mitragliatrice, mentre furono schierati i prigionieri, allineati a destra dell’ingresso della stazione con la schiena rivolta alla mitragliatrice. L’arma fu posizionata e dato l’ordine di sparare, uno tentò di scappare. Poi, caddero tutti, l’ufficiale passò a dare il colpo di grazia alla tempia. Aspettavo di scendere dal camion e dare un’ultima carezza ad Enrico. Ma non permisero a nessuno di avvicinarsi. In quel momento arrivò il parroco e anche una staffetta con l’ordine di sospendere l’esecuzione, perché sembrava avessero risolto il caso nella notte».

Crescentino era allora un paese di campagna che ospitava molti torinesi sfollati, in seguito ai bombardamenti. «Io ero fra questi e anche Enrico Marsili, che aveva trovato rifugio presso il parente parroco. Noi ragazze frequentavamo l’asilo un po’ per studio e un po’ per imparare a cucire; volevo studiare da maestra d’asilo. Enrico, che era nato a Torino l’11 febbraio del 1926, studiava ragioneria presso il collegio La Salle. Mi accompagnava dalle suore tutti i giorni e intratteneva i bambini, con giochi e passatempi».

La famiglia dopo l’eccidio si chiuse in un silenzioso dolore e lasciò al parroco l’incarico di difendere il “martirio” di Enrico. «Dopo alcune ore ci diedero il permesso di avvicinarci ai corpi dei nove caduti. Enrico era stato colpito col colpo di grazia all’occhio destro e toccando la sua mano mi accorsi che stringeva il rosario. Di lui ricordo la bontà, la religiosità, il suo amore per lo studio. Aveva occhi profondi e neri. Voleva andare in missione in Africa.

Ci lasciò un testamento spirituale molto toccante, scritto il 30 aprile ’44. La famiglia lo regalò a don Casetti e a me.

Il giorno 10 settembre fu dato il permesso di portare i martiri presso le famiglie, alcuni invece presso la confraternita di San Bernardino; poi si svolsero i funerali in forma solenne e con la partecipazione di tutta la popolazione».

Solo a fine guerra la bara, avvolta in un tricolore, fu portata a Torino nel campo della gloria appena inaugurato, dove si trovano i caduti per rappresaglia.

«Un ragazzo di grande maturità, capace di scelte spirituali e di grande responsabilità. Il suo testamento spirituale del trenta aprile ’44 fa riflettere: “Carissimo papà, carissima mamma, quando voi leggerete questa mia ultima, io non sarò più. Il dolore che già fin d’ora sento in me per questa mia separazione dolorosa, voi potete immaginarlo.

Voi forse non avreste mai pensato che il vostro Enrico vi sarebbe stato rapito così presto […] Non piangete sulla mia morte; il Signore ha voluto così. Lui solo è il padrone dell’anima mia. Lui può tutto perciò sperate, prendete con rassegnazione questo dolore che vi manda per provare la vostra fede […] Non voglio dilungarmi di più, sicuro di aver ottenuto da Dio il perdono E le chiamavano rappresaglie a. XXIII, n. s., n. 1, giugno 2003 95 delle mie colpe. Vi prego di salutare tanto i miei Professori, compagni, parenti, amici; non dimenticate in special modo il teologo Quaglia, il canonico Bosso e tutti gli amici di Azione cattolica e dite che lassù nel cielo dove spero Iddio voglia accogliermi, mi ricorderò e pregherò per loro. A voi cari genitori, alla cara Ida (sorella) vi sia conforto il sapermi felice. Bacioni, vostro affezionatissimo figlio Enrico”»[38].

Conclusione

La rappresaglia dell’8 settembre 1944 ha segnato la storia della comunità, che ne ha tramandato più versioni. La proposta di ricostruzione dei fatti tenta di essere oggettiva, comparando fonti scritte e testimonianze orali. A quasi sessant’anni di distanza, si evidenzia l’anomalia dell’eccidio, che toccò persone non residenti in città; gli ostaggi da fucilare non furono scelti a caso, ma designati in quanto perlopiù vicini alla Resistenza. Per decenni, l’unica motivazione dell’eccidio fu la dura legge di guerra e l’irresponsabilità della banda partigiana: dieci italiani per un militare tedesco. Restano ancora da valutare incartamenti ufficiali, oltre che la memoria dei nove martiri nel secondo dopoguerra. Nel mondo partigiano non si fece chiarezza sul tragico episodio.

Le stragi di civili restano una pagina dolorosa del secondo conflitto mondiale, ne rappresentano l’orrore in quanto rivelano che non si combatté solo contro eserciti nemici, ma anche contro persone comuni. Se i bombardamenti aerei colpirono con uguale intensità, ma a caso e di lontano, nelle rappresaglie gli uccisori ebbero davanti a sé le loro vittime, che avevano scelto senza avvertimenti o ricerca dei colpevoli dei fatti, considerati la causa scatenante della violenza. Nessuna rappresaglia avvenne per errore, l’ordine di uccidere fu dato dai comandi militari ed eseguito dai soldati tedeschi e italiani perché la morte di un gruppo di civili fosse di ammonimento all’intera popolazione accusata di sostenere i “banditi”. La guerra ai civili fu piena di sofferenze, man mano che si intensificava la lotta di liberazione nelle regioni del Nord Italia. «La catastrofe umana complessiva scatenata dalla seconda guerra mondiale è quasi certamente la più grande mai avvenuta nella storia. Uno dei suoi aspetti più tragici è che l’umanità ha imparato a vivere in un mondo in cui lo sterminio, la tortura e l’esilio di massa sono diventati esperienze quotidiane di cui non ci accorgiamo più»[39].

Per Crescentino, se responsabilità individuali ci furono, non emersero in seguito, nonostante una segnalazione alle autorità; leggendo le carte e comparando le versioni si scopre che la rappresaglia contro i nove martiri non toccò la procedura dello scambio di ostaggi, decisa in altra sede, e che i funzionari repubblicani, a cui il territorio era soggetto nominalmente, furono inefficienti. Il capo della provincia Morsero inviò in quella circostanza al ministero dell’Interno della Rsi un telegramma che si concludeva con l’espressione: «Notizia pervenuta operazione fatta», evidenziando la politica germanica del fatto compiuto[40].


Note

[1] «Dal luglio del 1943 al maggio 1945, subimmo una durissima legge del contrappasso: il fascismo, che aveva inseguito i suoi deliri imperiali in terre lontane, portò la guerra sull’uscio delle nostre case, in un turbinio di stragi naziste (15.000 vittime civili), bombardamenti (65.000 vittime civili), rappresaglie, battaglie campali. Invasori, liberatori, occupanti, comunque si chiamassero, le truppe straniere guardarono all’Italia come a un Paese vinto. E si comportarono di conseguenza». Cfr. Giovanni De Luna, in “Diario del mese”, a. II, n. 1, gennaio 2003, p. 50. Di seguito si indicano alcuni testi che riportano la tragica contabilità: Ricciotti Lazzero, Il sacco d’Italia. Razzie e stragi tedesche nella repubblica di Salò, Milano, Mondadori, 1994; Leonardo Paggi (a cura di), Le memorie della Repubblica, Scandicci, La Nuova Italia, 1999; Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia, Roma, Donzelli, 1997; Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca. 1943-1945: le rappresaglie naziste in Italia, Milano, Mondadori, 2000; Mimmo Franzinelli, Le stragi nascoste, Milano, Mondadori, 2002.

[2] «Ancora non si conosce il numero preciso delle vittime delle stragi compiute dalla forza d’occupazione tedesca in Italia […] che dovrebbe essere determinato solo attraverso approfondite ricerche negli uffici anagrafici comunali e statali. Per il momento dobbiamo dunque partire dalla cifra di circa 10.000 civili assassinati da tedeschi appartenenti alla Wehrmacht e alle Ss. Gran parte degli uccisi erano donne e bambini. Alcuni dei massacri che hanno avuto luogo in territori dichiarati dalle autorità tedesche “Bandengebiete” (territori di bande), o che erano di particolare importanza militare e strategica, risaltano per la loro estrema brutalità». Cfr. L. Klinkhammer, op. cit., p. 15.

[3] «L’interpretazione della lotta fra la Resistenza e la Repubblica sociale italiana come guerra civile ha incontrato da parte degli antifascisti, almeno fino a questi ultimissimi tempi, ostilità e reticenza, tanto che l’espressione ha finito con l’essere usata quasi soltanto dai vinti fascisti, che l’hanno provocatoriamente usata contro i vincitori. […] Affermare che la Resistenza è anche guerra civile non significa andare alla ricerca di protagonisti che l’abbiano vissuta esclusivamente sotto quel profilo. Al contrario significa sforzarsi di comprendere come i tre aspetti della lotta – patriottica, civile, di classe -, analiticamente distinguibili, abbiano spesso convissuto negli stessi soggetti individuali o collettivi». Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 221.

[4] Gattinara, 20 giugno: nove morti per un bombardamento tedesco, su segnalazione di collaborazionisti; Roasio, 9 agosto: undici civili fucilati, undici impiccati; sequestro di civili a Rovasenda il 10 agosto. Cfr. Arnaldo Colombo, La Resistenza all’ombra di Sant’Eusebio, Vercelli, Litocopy, 1981.

[5] «Costruire una percentuale di ostaggi in quelle località dove risultino essere bande armate e passare per le armi detti ostaggi tutte le volte che nelle località stesse si verificassero atti di sabotaggio […] Compiere atti di rappresaglia fino a bruciare abitazioni dove siano sparati colpi d’arma da fuoco contro reparti o singoli militari germanici. Impiccare nelle pubbliche piazze quegli elementi riconosciuti responsabili di omicidi e capi di bande armate». Cfr. Albert Kesselring, Memorie di guerra, Milano, Garzanti, 1954, p. 260, citato in Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1974, p. 355.

[6] Cfr. articoli del 9 agosto 2002 de “La Stampa”, p. 35 e de “La Sesia”, a firma rispettivamente r. m. e Michela Giuliani; successivo articolo del 10 agosto, sulle pagine locali de “La Stampa”, a firma Walter Camurati.

[7] Tre fascicoli riguardano i fatti avvenuti nel ’44 a Stroppiana, Arborio e Greggio, in cui le vittime non sono militari e perciò la competenza è passata alla procura civile. I reati risultano prescritti; sul caso di Stroppiana, dato che riguardava due omicidi (l’omicidio non ha prescrizione), ha indagato per circa due mesi la procura di Vercelli. «Denuncia a carico di Testa Giovanni, vice comandante delle Brigate nere di Vercelli, tenente Parenti, brigadiere Bertolone, maggiore Vicri, tutti appartenenti alla G.n.r., non meglio identificati, per i reati di omicidio in persona di Roncarolo Pier Michele e Carenzo Domenico, presentata il 25 febbraio ’46, sulla base di una prima denuncia per crimini di guerra del 23 agosto 1945, a Stroppiana. I fatti si riferiscono al 21 aprile ’45, in cui i due giovani della Sap del paese vennero seviziati e uccisi a raffiche di mitra a Cascine Stra. Il giudice di Vercelli per le indagini preliminari, esaminata la richiesta di archiviazione del Pubblico ministero, dato che sono morti i due principali imputati, dispone l’archiviazione del procedimento in data 25 settembre 2002». Se il fascicolo non fosse stato insabbiato nel lontano 1960, forse sarebbe stato possibile accertare le responsabilità dell’omicidio.

[8] «Crescentino (Vercelli) – n. 2.153 – Colonnello Buch ed altri militari tedeschi; parte lesa: 9 cittadini del comune di Crescentino; archiviazione provvisoria 14 gennaio 1960; trasmissione alla procura militare di Torino 27 giugno 1995. [La rappresaglia tedesca per il ferimento di due militari sfociò il 7 settembre ’44 nel rastrellamento e nella fucilazione di nove cittadini di Crescentino]». Cfr. M. Franzinelli, op. cit., p. 144.

[9] “Una cronografia dell’orrore” viene testimoniata dalle puntuali ricerche di Gerhard Schreiber, nel testo citato in precedenza: «Nell’estate del 1944, con la liberazione di Roma, la lotta contro il movimento di resistenza entrò nella sua fase più aspra, con pesanti ripercussioni sulle azioni di rappresaglia». Cfr. G. Schreiber, op. cit., p. 172. La lotta contro i partigiani andava condotta con la massima durezza, servendosi di tutti i mezzi a disposizione, dichiarò il feldmaresciallo Kesselring; «[…] il primo luglio, richiamandosi direttamente al suo “monito”, esortò le proprie truppe ad agire inesorabilmente. L’annuncio che contro i partigiani e i loro sostenitori si sarebbe ricorsi “a mezzi estremamente severi” non doveva restare “una vuota minaccia”. Il Comandante superiore Sudovest era inflessibile, esigeva che si reagisse con tempestività e brutalità alle azioni violente di coloro che combattevano nella Resistenza. Per essere preparati a simili evenienze, nei distretti in cui agiva “un numero più elevato di bande” occorreva “arrestare una percentuale di popolazione maschile” da stabilirsi caso per caso, che sarebbe stata fucilata qualora si fossero “verificate violenze”». Cfr. idem, pp. 102-103.

[10] «L’implacabile decorso del tempo ha portato alla tomba i persecutori, rimasti impuniti, e ha mutilato per sempre la ricostruzione dei crimini di guerra. A tanti decenni dai fatti, l’azione del giudice, più che punitiva, si prefigura quale testimonianza fornita alle nuove generazioni» (M. Franzinelli, op. cit., p. 13) ed è perciò che acquista un significato ricostruire alcuni drammatici episodi di mezzo secolo fa.

[11] L. Klinkhammer, op. cit., pp. 16-17.

[12] Archivio storico comunale di Crescentino, “Documenti relativi alla vita politica del Comune”. Il 28 settembre 1944 il capo della provincia, Michele Morsero, sollecitava il geometra Dellarole (podestà dal 29 marzo 1941) a riprendere la sua carica: «Ritenuto che occorre provvedere al regolare andamento dell’Amministrazione Comunale e che si trova in grado di esercitare le sue funzioni». Un commissario prefettizio, Enrico Damian, sostituirà, di nuovo, il podestà, dal 17 novembre 1944.

[13] Cfr. Renato Borello – Sergio Cotta – Renzo Vaj (a cura di), Noi della Monferrato. La 7a divisione autonoma Monferrato nella Resistenza piemontese, Torino, Autonomi Editore, 1985; Mario Arena, Una testimonianza sulla resistenza crescentinese nella lotta di Liberazione, Crescentino, Comune, 1981.

[14] Cfr. Giuseppe Banfo (a cura di), Combattere per non obbedire. Chivasso tra fascismo e resistenza 1922-1945, Chivasso, Comune, 1995.

[15] Quando ci sarà il pesante rastrellamento di novembre nei confronti delle brigate partigiane autonome, sarà predisposto un “accerchiamento” delle basi, operato dalle camicie nere e dai tedeschi di quattro province: Vercelli, Torino, Alessandria, Asti. Cfr. R. Borello – S. Cotta – R. Vaj (a cura di), op. cit., pp. 15-17. Da ricordare che dal 16 ottobre, presso il Distretto militare di Chivasso, opererà la tristemente famosa brigata nera “Ather Capelli”; dal 4 novembre, nel casello dell’autostrada verso Caluso, la legione “Ettore Muti”. Cfr. G. Banfo (a cura di), op. cit., pp. 51-52.

[16] Il saggio di Enrico Pagano Partigianato e società civile nel Basso Vercellese delinea un quadro quantitativo del mondo partigiano locale; la ricerca indica che a Crescentino, nei venti mesi della lotta di liberazione, vi furono 110 resistenti, così distinti: 63 partigiani, 30 patrioti e 17 benemeriti. Altre indicazioni interessanti sono quelle relative alla scarsa rispondenza ai bandi di Graziani e all’operato del Cln in paese. Il saggio è inserito in Atti del convegno storico “Terre sul Po dal Medioevo alla Resistenza”, Crescentino 2- 3 ottobre 1998, Crescentino, Associazione Amici della biblioteca, 2002.

[17] «[…] la 50a brigata ebbe il suo cappellano nella persona di don Mario, già viceparroco di Gattinara e poi di Crescentino, che assunse il nome partigiano di “Macario”. La storia del novello cappellano è ricca di episodi movimentati. Il suo primo contatto con la Resistenza avviene proprio l’8 settembre 1943, quando, tornando da S. Grisante a Crescentino, incontra sulla sua strada un gruppo di giovani sbandati, che egli guida verso Verrua». Più volte fermato in perquisizioni operate a Crescentino dalla Brigata nera, viene arrestato il 28 agosto ’44 e minacciato di morte, «[…] sul finire del ’44, a Buronzo, ha inizio la sua collaborazione ed assistenza spirituale alla 50abrigata». Cfr. A. Colombo, op. cit., pp. 34; 36; testimonianza orale inedita di don Mario Casalvolone.

[18] “Radice” nell’immediato dopoguerra, fu incaricato, il 26 aprile ’45, di raccordare la nuova amministrazione comunale con le forze partigiane (ufficiale di collegamento tra le Ff.Aa patriottiche e la giunta amministrativa). Le notizie sui giovani partigiani di Crescentino si trovano nel testo di Mario Arena pubblicato nell’agosto del 1981; varie informazioni circa le difficoltà organizzative e la presenza di spie sono raccolte in alcuni documenti inediti, dello stesso Arena, relativi al gruppo “Nasi”; la testimonianza orale di Mario Casalvolone fornisce spiegazioni su fatti accaduti in zona. A proposito della ditta Bianzeno, Casalvolone ricorda un atto di sabotaggio da lui ideato per bloccare la fornitura bellica ai tedeschi: un improvviso incendio notturno ai materiali in deposito.

[19] «28 agosto: verso le 23 di ieri alcuni individui armati si sono presentati presso il Municipio di Crescentino facendosi consegnare dal capo guardia alcune armi che erano state rinvenute su un’automobile abbandonata. Si allontanavano per ignota direzione senza altri incidenti». Cfr. Piero Ambrosio (a cura di), I “mattinali” della questura di Vercelli. Ottobre 1943-aprile 1945, in “l’impegno, a. VI, n. 3, settembre 1986.

[20] Da ottobre, la banda “Nasi” confluirà nel 3o battaglione “Tino Dappiano”, della 2a brigata “Enrico Tumino” della divisione “Monferrato”, guidata da Sergio Cotta, con più di duecentocinquanta uomini. Carlo Nasi, commissario di guerra della 2a brigata, parteciperà alla liberazione di Chivasso. Cfr. R. Borello – S. Cotta – R. Vaj (a cura di), op. cit., e G. Banfo (a cura di), op. cit.

[21] Il sindaco Guido Casale, il 22 agosto 1945, delineò la personalità di Steiner e gli episodi che lo videro coinvolto: «Valendosi della sua perfetta conoscenza della lingua tedesca si adoprò in varie occasioni e con tutte le sue forze per la liberazione di numerose persone trattenute quali ostaggi ed incarcerate dai repubblicani e dai tedeschi, esplicando in ogni contingenza la massima attività possibile, sottoponendosi a disagi ed a pericoli talvolta molto gravi» (dichiarazione per l’Ufficio stralcio del Cmrp di Torino affinché ottenesse il titolo di collaboratore civile).

[22] Luigi Pozzi “Neve” era un paracadutista milanese, facente parte della missione angloitaliana “Edison” paracadutata nel campo di Cerrone nel luglio del 1944. Cfr. R. Borello – S. Cotta – R. Vaj (a cura di), op. cit., p. 114. L’azione dei partigiani della “Monferrato”, qui raccontata, fa riferimento al citato testo di Mario Arena.

[23] Interessante è la pagina del libro del parroco che riproduce il primo documento da sottoporre a Morsero, poi a sua volta modificato da Hartmann, il 5 settembre 1944. «Il Comando tedesco dovrà dare in cambio: tutti gli ostaggi catturati a Crescentino, a motivo della cattura dei due repubblicani presi dai partigiani; dovrà rilasciare dichiarazione che l’incidente resta chiuso definitivamente e cioè non saranno presi altri ostaggi; si impegna di sollecitare il rilascio della contessa Radicati di Brozolo e della figlia, detenute quali ostaggi nelle carceri tedesche di Torino. Luogo dello scambio: gli ostaggi detenuti a Vercelli dovranno arrivare da Crescentino all’estremità del ponte sul Po verso Crescentino accompagnati da quattro militi disarmati e dal Parroco di Crescentino. Gli ostaggi detenuti dal Comando dei partigiani si troveranno all’estremità del ponte verso la Rocca accompagnati da quattro partigiani disarmati e dal Parroco di Sulpiano. I Parroci si incontreranno sul ponte e controllata la regolarità delle condizioni per lo scambio ne cureranno la esecuzione. Giorno dello scambio sarà mercoledì 6 settembre alle ore 12. Le due parti si impegnano di osservare due giorni di tregua a partire dalle ore 3 del mattino del mercoledì 6 settembre sino alle ore 23 di giovedì 7 settembre. Sulpiano, 4 settembre 1944. Il Comandante: Neve – Il Parroco: Teologo Giovanni Balossino» (documento tratto da: Giovanni Balossino, A che serve il prete, Novara, Tipografia San Gaudenzio, 1947, pp. 14-15).

[24] Idem, p. 23, e testimonianza orale di Casalvolone, che tornò a Crescentino nel secondo scaglione.

[25] «8 settembre ’44. Questa notte cinque sconosciuti armati, ritenuti ribelli, nella stazione ferroviaria di Crescentino hanno ucciso un militare tedesco ferendone un altro. Spettacoli pubblici sospesi per lutto nazionale». Cfr. P. Ambrosio, (a cura di), art. cit. Nella pubblicazione del Comune del settembre 1947 si scrive che fu il tenente Africo, non meglio identificato, a sparare per primo.

[26] «Anche il problema delle proporzioni esistenti fra rappresaglia e azione che l’ha scatenata è da un punto di vista storico particolarmente controverso. Diversi giuristi sono dell’opinione che il principio di proporzionalità fosse previsto dal diritto internazionale allora vigente […] Negli studi di storia militare e nei pubblici dibattiti si continua a sostenere che l’ordinamento militare per la guerra terrestre prevedeva per le azioni di rappresaglia una proporzione di uno a dieci. Ma non è esatto. Di fatto fino al termine della seconda guerra mondiale non è esistita una norma obbligatoria e generalmente valida che fissasse il numero di persone da uccidere durante le rappresaglie». Cfr. G. Schreiber, op. cit., pp. 115-116.

[27] «I tedeschi e le brigate nere assimilarono i civili ai “banditi”, trovando così la giustificazione preventiva e poi la legittimazione degli interventi terroristici, le cui valenze intimidatorie risultarono rafforzate dal lugubre rituale dell’esposizione pubblica dei cadaveri. Spesso i militari si scagliarono contro i civili con impeto maggiore di quello con cui si attaccavano le formazioni partigiane: se era difficile snidare e colpire i reparti guerriglieri, risultava agevole rastrellare gli abitanti di casolari o di piccoli centri rurali o montani, facendo pagare loro il prezzo dell’opposizione armata all’occupazione nazista». Cfr. M. Franzinelli, op. cit., p. 5.

[28] Si trovano riferimenti all’eccidio nei seguenti volumi: G. Balossino, op. cit.; A. Colombo, op. cit.; Don Massimo Milano (a cura di), Don Bianco, arciprete di San Grisante (Crescentino), Vercelli, Sete, 1978; Mario Ogliaro – Piero Bosso, Crescentino nella storia e nell’arte, Crescentino, Mongiano, 1998; Giovanni Olivero, Urla il vento, Saluggia, Comune, 2000; Rosaldo Ordano, Cronache vercellesi: 1910-1970. La vita politica, Vercelli, La Sesia, 1972; R. Borello – S. Cotta – R. Vaj (a cura di), op. cit., e nelle memorie dell’Università popolare di Crescentino, del 1995.

[29] Questa ricostruzione si basa sulle pagine inedite di Mario Arena, sulla testimonianza orale di Mario Casalvolone e su altre memorie personali.

[30] Arturo Africo “Barba”, partigiano della 2a brigata della divisione “Monferrato”, era un ex ufficiale dell’esercito italiano. Fu catturato nel grande rastrellamento nazifascista iniziato il 13 novembre 1944; morirà a Mauthausen.

[31] Molte le versioni su chi operò di notte e al mattino; secondo la più credibile dopo mezzanotte occuparono Crescentino gli uomini della Brigata nera di Vercelli, al mattino la polizia tedesca, con compiti di ordine pubblico.

[32] Sulla liberazione di Guglielmo Alemanno non vi è certezza; per alcuni non arrivò neppure alla stazione. Dai locali della scuola partirono nove ostaggi.

[33] Come attesta il registro del protocollo comunale, al numero 2.190. Lettera alla Prefettura di Vercelli: si comunica che alle 8.45 è stata eseguita la fucilazione di nove ostaggi; negli atti dell’amministrazione comunale non esiste più la copia. Lo stesso capita per la dichiarazione, inviata al Comando della Brigata nera di Vercelli, il giorno 9 settembre 1944, da parte di Rosina Pattarino, impiegata dell’anagrafe, relativa al rilascio di ostaggi.

[34] Non si trovano nell’Archivio storico i documenti riguardanti il pagamento da parte del Comune delle spese funebri dei nove ostaggi.

[35] Da Atti del convegno storico, cit., p. 48.

[36] Altre informazioni sui nove martiri si ricavano dall’opuscolo della Città di Crescentino dell’8 settembre 1947. Marsili Enrico, di Ettorino e di Romersa Olga, nato e residente a Torino, sfollato dallo zio Prevosto. Schiavello Michele, di Fortunato e Papilo Maria, temporaneamente a Crescentino; Graziano Ettore, fu Giuseppe e di Bosso Teresa, nato e residente a San Silvestro; Lento Eugenio di Vincenzo e Fata Carolina, sbandato, temporaneamente a Crescentino; Petazzi Giacomo, di Matteo e Barelli Rosa, provvisoriamente a Crescentino; Pigino Giovanni, fu Pietro e fu Bertolino Rosa, nato e residente a Crescentino; Castagnone Edoardo, fu Luigi e fu Patrucco Albina, di Rosignano Monferrato, padre di due figli; Arena Giuseppe, fu Luigi e fu Piccaluga Teresa, nato a Casale Monferrato, residente a Crescentino, coniugato con Ferri Erminia; Rondano Mario, fu Francesco e fu Brusasca Teresa, nato e residente a Crescentino.

[37] Una versione dell’uccisione del soldato tedesco è tratta dal libro di Giovanni Olivero, già citato: «Alla stazione due partigiani in borghese, Carlo Pagliano di Saluggia e un altro denominato Camicia Nera (perché portava sempre la camicia nera) giungono al bar della stazione. […] Contro il parere di Pagliano, Camicia Nera passa vicino al tavolino dei tedeschi ed allunga una mano per sottrarre i mitra. Ma i tedeschi sono pronti a ritirarseli. Temendo la loro reazione, Camicia Nera estrae la pistola e spara uccidendone uno e ferendo gravemente l’altro». Cfr. G. Olivero, op. cit., pp. 192-193. In Rosella Cena, Tracce di guerra a Verolengo 1940-45, Verolengo, Il Confronto, 1998, p. 92, la causa dell’eccidio «fu una lite tra due soldati tedeschi, che si erano picchiati con dei giovani».

[38] La lettera di Marsili si trova nell’opuscolo del Comune del 1947 e in A. Colombo, op. cit., alle pp. 48-49. Nell’Archivio parrocchiale non si trovano documenti sull’eccidio scritti dal parroco don Casetti.

[39] Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 2002, pp. 68-69.

[40] M. Franzinelli, op. cit., p. 22.

Appendice con aggiornamenti

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