“Il Monte Rosa è sceso a Milano”. Storia di un libro di storia partigiana

Enrico Pagano

 

articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXVIII, n. s., n. 1, giugno 2018

“Il Monte Rosa è sceso a Milano”, scrive Giacomo Verri, «è come una Bibbia per quelli della mia valle che vogliono mettere le mani nella Resistenza»[1]. Pubblicato da Einaudi nel 1958[2], al termine di una lunga e, in qualche momento, difficile gestazione, fu ristampato senza modifiche nei contenuti nel 1972, nel 1973, alla vigilia del conferimento della medaglia d’oro al valor militare a Varallo per la Valsesia, e nel 1983, prima di un’ultima, sciagurata, edizione anastatica distribuita da altro editore nel 2017[3].

Rimane, ad oggi, l’unica pubblicazione che propone una ricostruzione completa della storia della Resistenza nel Piemonte nord-orientale, un territorio che fino all’istituzione delle province di Vercelli e successivamente di Biella e del Verbano-Cusio-Ossola era compreso nella provincia di Novara. Occorre precisare che la storia partigiana in queste terre ebbe caratteri solo parzialmente unitari e che questi furono formalmente concentrati in un evento del primo inverno, quando il 15 gennaio 1944 all’alpe Pratetto, in valle Cervo, si costituì la 2a brigata Garibaldi “Biella”, che comprendeva sei distaccamenti biellesi e un distaccamento valsesiano, che a distanza di circa un mese si costituì a sua volta in brigata, la 6a “Gramsci-Valsesia”. Da quel momento in poi le competenze si distinsero, salvo circostanze occasionali, tra la zona operativa piemontese del Corpo volontari della libertà, denominata “Biellese” ma estesa anche al Vercellese, e la zona operativa “Valsesia”, che comprendeva anche il Novarese. Alla fine della guerra ci fu una divisione amministrativa tra le commissioni che valutavano le domande per il riconoscimento delle qualifiche partigiane che rispecchiava la distinzione operativa: le istanze prodotte dai partigiani della Zona Biellese furono inviate alla commissione che aveva sede a Torino, quelle della Zona Valsesia finirono a Milano.

L’opera di Secchia e Moscatelli tiene insieme quanto, storicamente, seguì percorsi diversi, in un lembo di Piemonte (al netto di qualche sconfinamento in Valle d’Aosta e Lombardia) che ancora oggi presenta caratteristiche molto diversificate e tradizioni particolari. L’obiettivo di Secchia, più marcatamente rispetto a Moscatelli, era quello di dimostrare come l’organizzazione politica e militare della Resistenza fosse stata improntata a criteri unitari, ideologicamente coerenti, e le dovesse pertanto essere riconosciuto un primato sullo spontaneismo e la conseguente multiformità della storia partigiana, destinata a risultati ininfluenti senza una forte guida politica. Ne sarebbe uscita, indirettamente, esaltata la sua azione quale commissario politico del Comando generale delle brigate “Garibaldi”. Ma, per il ricorrente fenomeno dell’eterogenesi dei fini, il libro finì per essere distribuito quando Secchia, già potente uomo di partito, era caduto in disgrazia. L’alone negativo che lo circondava in quel periodo ebbe qualche influsso sul giudizio di figure autorevoli del panorama editoriale, che ritenevano le qualità de “Il Monte Rosa è sceso a Milano” attribuibili a Moscatelli, mentre i difetti erano tutti da imputare agli eccessi ideologici secchiani. Giudizio che si è proiettato anche nella contemporaneità ed è sostanzialmente condiviso da Verri quando scrive, nel testo citato, che a Pietro Secchia «si devono, del volume, i lacerti più spiccatamente teorico-politici, quelli che già nel titolo sanno di ideologia: La classe operaia e la nazione, L’azione nelle fabbriche, solo per fare due esempi; e sinceramente sono proprio questi i passi che sentono di più i dieci lustri passati sopra alle nostre teste», mentre a Cino Moscatelli si deve «la seconda anima […] squisitamente narrativa», in cui «la prosa flui­sce rapida come un fiume di montagna, spumeggia sulle rocce – rocce affliggenti, quelle valsesiane – che rilasciano il benefico sale dei minerali. Laddove non pesa l’ipoteca degli inserti politico-dottrinari, leggere quel dettato ha lo stesso sapore di quando s’affondano le labbra nelle acque fresche raccolte a giumella da una fontana montanina. Poco manca a che si possa credere di aver sulle ginocchia il commentario d’un antico condottiero o, in certi tratti, un poema epico, oppure ancora un bel libro d’avventura».

“Il Monte Rosa è sceso a Milano” continua a essere un riferimento importante per qualsiasi storico della Resistenza nell’alto Piemonte, ma non può essere considerata una fonte scientifica, troppe essendo le imprecisioni, le approssimazioni, le interpretazioni soggettive e, soprattutto, troppo viva e unilaterale la passione che pervade la narrazione. Negare che il libro conservi, comunque, un grande fascino, non solo popolare, sarebbe ingiusto. Ho pensato che valesse la pena, a sessant’anni dalla pubblicazione, ricostruire una storia che coinvolge figure importanti della storia culturale e politica, approfittando anche di una coincidenza involontaria ma suggestiva, l’uscita del numero 100 de “l’impegno”, la rivista che l’Istituto varò nel 1981 sotto la presidenza di Cino Moscatelli, nell’anno in cui ci avrebbe lasciato.

I primi passi del progetto editoriale

Già all’inizio di luglio 1945 Secchia scriveva a Moscatelli: «Hai tu incaricato qualcuno di scrivere la storia delle vostre divisioni garibaldine e delle vostre battaglie? Penso che è un lavoro che si dovrebbe fare, perlomeno dovresti incaricare qualcuno di raccogliere il materiale, ordinarlo, ecc… A parte la storia credo che non sarebbe male pubblicare un libro che si legga facilmente e di larga diffusione. Non dovrebbe essere un grosso malloppo. Penso a qualche cosa del tipo di quello di Nullo[4], ma con maggior copia di episodi di battaglie e con le fotografie tue e dei tuoi più noti comandanti e commissari. So che per scrivere un libro bisogna innanzi tutto trovare chi lo scrive. Ma credo non sarà difficile, intanto tu stesso potresti incaricare qualcuno, come ti dicevo, di raccogliere il materiale, se poi hai intorno a te qualcuno che sa scrivere, gli potresti dare l’incarico non solo di raccogliere il materiale per la storia, ma di buttare giù in un centinaio di pagine o anche 200, i racconti delle vostre gesta ed alcune biografie. Troveremo certamente la casa editrice che lo pubblica e credo che la pubblicazione renderà certamente. Si venderà non solo in Valsesia ma in ogni parte d’Italia»[5].

Moscatelli e lo stesso Secchia continuarono a lavorare intorno all’idea di una pubblicazione sulla storia della Resistenza locale, ampliando la prospettiva territoriale che in prima battuta sembrava ridotta alla dimensione valsesiana fino a includere la Resistenza nel Biellese e nella Valdossola. Il progetto, nella prima proposta di Secchia, era molto meno ambizioso di quanto non sarebbe risultato nella realtà. Il taglio divulgativo, sostanzialmente mantenuto nello stile letterario del volume finale, dovette combinarsi con l’accumulo di pagine, passate nella realtà dalle 100 o 200 auspicate a una dimensione che ne ha fatto, senza discussioni, quel «grosso malloppo» che il dirigente comunista biellese voleva evitare: 655 pagine!

La ricerca di una casa editrice, partita dalla convinzione che non sarebbe stato difficile trovarne una sul mercato, portò gli autori a sottoscrivere un contratto con un gigante dell’editoria quale era la casa editrice Einaudi negli anni cinquanta, il massimo cui si poteva ambire al tempo. La previsione della possibilità di conferire una dimensione nazionale alle vendite, superando i limiti dell’angusto mercato locale, fu centrata: pur non disponendo di dati sulla diffusione commerciale, la fortuna editoriale del prodotto può evincersi dalle tre ristampe, sia pure scandite nel tempo, che seguirono la prima edizione.

Nell’archivio personale di Moscatelli non ci sono altre tracce del progetto fino al 1 agosto 1952, data scritta a mano in calce a una lettera dattiloscritta[6] che Pietro Secchia inviò al comandante partigiano valsesiano, all’epoca senatore, in cui gli comunicava di «avere cominciato a lavorare seriamente al libro», auspicando che questo fosse avvenuto anche per il suo corrispondente. Rimarcando la provvisorietà di impianto generale del volume, Secchia insisteva in particolare sul tema che l’opera avrebbe dovuto privilegiare, quello militare. Scriveva, infatti, in proposito: «Ti avevo detto che a questa storia o racconto della guerra partigiana combattuto nella Valsesia, Ossola, Cusio, eccetera, eccetera, e nel Biellese intenderei dare un carattere soprattutto militare. Naturalmente non potremo evitare di trattare anche dei temi politici, sarebbe un errore non farlo, ma la caratteristica del nostro libro dovrà essere la trattazione del punto di vista militare. Perché tutti i libri usciti sinora in Italia sulla guerra partigiana la esaminano solo dal punto di vista politico e se noi ci limitassimo a fare la stessa cosa e cioè a trattare i soliti temi: il 25 luglio, la caduta del fascismo, l’unità nazionale, i comitati di liberazione, eccetera, eccetera non faremo nulla di originale».

Secchia attribuiva all’opera una finalità ambiziosa, quella di dimostrare che, a differenza di quanto comunemente per­ce­pito, la Resistenza, pur essendo sta­ta un fenomeno caratterizzato dalla spontaneità, aveva avuto nell’organizzazione il fattore determinante per la sua efficacia e sopravvivenza: «È invalsa l’opinione­ che i partigiani erano delle bande di uomini coraggiosi, ma con scarse ca­pa­cità militari e che le loro azioni erano improvvisate, non studiate, condotte­ senza un piano, senza criteri, senza un’organizzazione. Che tutto era abbandonato alla spontaneità, all’improvvisazione e all’audacia. In realtà non è stato così. Che ci sia stata molta inesperienza e molta improvvisazione è vero. Che l’audacia abbia sopperito in molti casi alla preparazione militare è anche vero. Però ci si è sforzati in ogni formazione di preparare le azioni sulla base di uno studio del terreno, degli uomini, degli obiettivi e le azioni meglio riuscite sono state quelle preparate e organizzate con criteri militari».

La rivalutazione militare del movimento partigiano passava attraverso un filtro dimostrativo piuttosto impegnativo, che riguardava i comportamenti di comandanti attenti a salvaguardare le vite dei propri uomini, all’interno di una guerra in cui l’arte militare ebbe un peso importante.

«Col nostro lavoro dovremmo porci di dimostrare questo, che i partigiani non erano degli asini coraggiosi, ma erano degli uomini coraggiosi che studiavano e conoscevano l’arte militare, erano comandanti che non mandavano i loro uomini allo sbaraglio, ma studiavano attentamente le cose possibili da farsi. Noi sappiamo che il coraggio e il valore da soli non bastano a battere il nemico. Bi­sogna saperlo battere il nemico e per saperlo battere occorre conoscere l’arte­ militare. Senza dubbio l’arte militare non è in guerra (e tanto meno nella guerra­ partigiana) l’unico fattore della vittoria­ ma sarebbe altrettanto sbagliato negare la funzione di prim’ordine dell’arte militare e giungere alla conclusione che le vittorie partigiane sono state solo il risultato del coraggio e di fattori politici e morali».

Secchia elencava due serie distinte di temi politici e militari da trattare. Specificando che non si trattava di una suddivisione per capitoli, ma di temi che potevano essere trattati anche trasversalmente, proponeva questo elenco «da inserire nel racconto di fatti di guerra»:

«1) Significato del 25 luglio e dell’8 settembre

2) Perché il nostro esercito era stato sconfitto e si era sfasciato

3) Il fallimento della classe dirigente

4) L’atteggiamento del grande capitale dopo l’8 settembre. La collaborazione col tedesco invasore – I profittatori, i doppiogiochisti

5) Perché era necessario agire subito – La lotta contro l’attendismo

6) Il popolo italiano sa battersi

7) L’unità nazionale

8) La classe operaia nella lotta di liberazione nazionale collegamento della lotta dei partigiani con la lotta dei lavoratori

9) I contadini nella guerra di liberazione (il tema dev’essere trattato tanto più che gran parte delle popolazioni della Valsesia, del Biellese, dell’Ossola sono contadini e montanari)

10) I giovani e la guerra di liberazione

11) Le donne nelle formazioni garibaldine

12) Nascita di una nuova democrazia – La repubblica dell’Ossola

13) Gli Alleati e le loro manovre sabotatrici

14) Rapporti col Comando generale

15) L’Unione sovietica e la nostra lotta

16) L’insurrezione nazionale».

L’attenzione alla parte militare invece si sofferma su un altrettanto e ancora più dettagliato elenco, in cui sono compresi:

«1) Caratteristica della guerra partigiana […]

2) La guerra in montagna e la guerra in pianura

3) Piccole unità o grandi unità?

4) Come si crea una formazione partigiana, come la si organizza

5) Struttura dei comandi, funzione dei singoli. La organizzazione dei diversi servizi (Operazioni, Intendenza, Sanità, Vigilanza eccetera eccetera)

6) I commissari politici e la loro funzione­

7) Come si assolvono i servizi di guardia, di pattuglia, di avvicinamento al nemico, marce ecc.

8) Come si fabbricano le armi, come si conquistavano. I lanci – I rifornimenti

9) Come si organizzava il sabotaggio delle strade, ponti, ferrovie, macchine

10) L’addestramento degli uomini al combattimento

11) La preparazione dei piani di battaglia (esempio: l’attacco al presidio di Borgomanero)

12) Elementi di tattica

13) Come sfuggire ai rastrellamenti

14) La via da seguire – salire in montagna o scendere in pianura?

15) Era possibile liberare l’intera regione? Differenza con la guerra partigiana jugoslava

16) La proposta di unificazione con le formazioni biellesi

17) Come difendersi dai tanks e dalle autoblinde

18) La difesa dei partigiani e delle popolazioni dal terrorismo. Con l’azione si spezza l’arma del terrorismo

19) La ricerca e lo studio degli obbiettivi

20) Lo spirito garibaldino

21) Disciplina militare disciplina partigiana – La pena di morte».

La chiusura del libro, secondo Secchia, avrebbe dovuto comprendere un’appendice con elenco dei morti decorati ed, eventualmente, dei feriti. I riferimenti ai caduti e ai partigiani distintisi nelle azioni avrebbero dovuto essere compresi nella narrazione, senza spazi appositi. La raccomandazione rivolta a Cino era quella di inserire il massimo numero possibile di nomi, «sia di comandanti che di partigiani semplici», aggiungendo che «questo interesserà perché ogni partigiano sarà portato ad acquistare il libro non foss’altro per trovarvi il suo nome».

Secchia proseguiva affidando a Moscatelli l’impegno di sviluppare il racconto cronologico delle azioni di guerra e delle battaglie più importanti sostenute dalle formazioni della Zona Valsesia dall’8 settembre sino al 25 aprile, oltre che di redigere un testo descrittivo della regione valsesiana dal punto di vista geo­grafico e della struttura economico-sociale. Assicurava al suo corrispondente che «tutti gli altri capitoli di carattere politico e militare mi impegno di farli io, naturalmente li vedremo assieme» e continuava scrivendo: «Come vedi io mi accollo la maggior parte del lavoro. Però se tu non cominci col mandarmi al più presto la cronaca almeno delle prime azioni e cioè come hai iniziato a costruire le prime formazioni, le prime azioni fatte, il racconto della tua liberazione, eccetera eccetera io non potrò andare avanti molto». Erano le premesse per imporre una scadenza molto ravvicinata: «Io attendo che tra un mese tu mi abbia mandato il racconto da te elaborato delle azioni che comprendono almeno i primi mesi dal settembre alla fine del 1943. Potresti per stendere racconti farti aiutare da Ciro, da Rastelli, da Bruno e da altri. Se ognuno dei tuoi protagonisti scrivesse le azioni principali a cui ha partecipato, il lavoro procederebbe alla svelta. Attendo che cominci ad arrivare roba». La lettera non lascia spazio a equivoci: Secchia aveva assunto il controllo dell’operazione, dettando tempi e ritmi a Moscatelli, i cui margini di elaborazione in autonomia apparivano limitati; ma quello che testimonia la corrispondenza intercorsa fra i due, come vedremo, non fu colto da tutti i commentatori.

Il libro prende corpo, ma Secchia en­­tra in crisi

Il lavoro di scrittura proseguì per almeno un triennio, durante il quale fu individuato l’editore. Torniamo ad avere notizia del libro indirettamente in una lettera che Leo Valiani inviò a Franco Venturi in data 29 ottobre 1955. Nel testo a un certo punto si legge: «Avrai presente Vincenzo Moscatelli, deputato, comandante dei garibaldini della Valsesia. Mi ha narrato di aver scritto, con l’aiuto di Secchia, la storia della guerra partigiana in Valsesia (che comprende la liberazione dell’Ossola). Gli è venuto però un libro enorme,­ perché il materiale documentario che possiede è immenso. (Ha conservato 12.000 pezzi d’archivio). Mi domandava se e quanto doveva ridurre il manoscritto. Siccome lo pubblicherà presso Einaudi, gli ho detto di parlarTene, la prima volta che si reca a Torino. Io sarei per ridurre nulla, quanto meno non nella parte documentaria. Oggi ci vogliono dati archivistici, nel maggior numero possibile. Il resto, sulla Resistenza, è stato già detto. Ma gli studiosi futuri saranno grati a chi avrà messo a loro disposizione gli atti»[7].

La risposta non si fece attendere: il 1 novembre Venturi scriveva: «Naturalmente sarò molto contento di conoscere Moscatelli e di parlare con lui del suo libro. Son sicuro che Einaudi non avrà nulla in contrario che si abbondi nella documentazione, quando è così preziosa come quella che ha Moscatelli»[8].

Lo scambio epistolare ci rivela un Moscatelli che si è presentato a Venturi come autore principale e non in veste di autore ausiliario, come testimonierebbe la lettera del 1952. Difficile immaginare che il comandante partigiano avesse ribaltato i ruoli assumendo la leadership dell’operazione, né che volesse millantare presso intellettuali del calibro di Venturi capacità letterarie superiori a quelle di Secchia. Molto probabilmente privilegiare l’apporto di Moscatelli appariva più funzionale al percorso editoriale del volume, in un momento in cui la figura di Secchia subiva le pesanti ripercussioni politiche dovute alla fuga del suo più stretto collaboratore, Giulio Seniga, che lo abbandonò il 25 luglio 1954 portando con sé un’ingente somma prelevata dai fondi di riserva del Partito comunista. La vicenda, come scrive Marco Albeltaro, sgretolò il mondo sapientemente costruito dal rivoluzionario di professione e lo seppellì sotto i propri calcinacci[9]. Le conseguenze politiche furono gravi, diluite nel tempo e durevoli: la direzione del partito esaminò il caso soltanto a ottobre, ribadendo a Secchia una fiducia formale, accompagnata dall’invito a prendersi un periodo di riposo e a scrivere una lettera autocritica. Al termine del percorso, nel gennaio 1955, Secchia non fu confermato alla carica di vicesegretario del partito e, oltre all’uscita dalla segreteria, nel dicembre 1956 gli fu tolto anche l’incarico nella direzione, un arretramento che ne segnava inesorabilmente la fine politica, indotta da ragioni che riguardavano la linea politica del Pci e il rapporto con l’Urss e lo stalinismo, ben più profonde della vicenda Seniga, che era stata comunque molto pesante. Moscatelli fu molto vicino a Secchia in quei frangenti con il suo sostegno e conforto, ma anche con una fraterna assistenza che si spinse a gesti precauzionali come quello di «nascondergli la pistola, onde evitare gesti estremi»[10].

Le riunioni in via Biancamano

La storia de “Il Monte Rosa è sceso a Milano” ha una tappa significativa agli inizi di febbraio del 1957: è lo stesso Giulio Einaudi ad aprire la prospettiva della pubblicazione in una lettera in cui scrive: «Caro Secchia, ti ringrazio per la tua lettera. Per affrettare le cose, ti consiglierei di spedirmi subito il manoscritto senza attendere che Moscatelli o tu stesso possiate venire a Torino. Nel caso, come vivamente mi auguro, di una nostra decisione positiva, il libro potrebbe uscire entro tre o quattro mesi dalla stipulazione del contratto. Noi non abbiamo una collana della Resistenza, e quindi il libro uscirebbe nei “Saggi”, dove sono apparse le altre opere sulla Resistenza che abbiamo pubblicato in questi ultimi anni. Se tu venissi a Torino, sarò ben lieto di rivederti. Se non ci fossi io, potrai chiedere di Bollati o di Calvino[11].

Qualche informazione sul dibattito che si tenne in via Biancamano a proposito del volume ci viene dal diario di Daniele Ponchiroli, recentemente pubblicato, in cui, a proposito di una riunione che si tenne il 26 febbraio, si legge: «[…] discussione su un libro di Secchia e Moscatelli sulla resistenza in Borgosesia (sic). Venturi vuol sapere la posizione degli autori, la quale – spiega Bollati – è implicitamente polemica nei confronti dell’impostazione originaria data dal Pci nella lotta della Resistenza. Il Pci, sostiene Venturi, non voleva dare un’impronta rivoluzionaria alla Resistenza (Pajetta diceva allora che le bande comuniste erano i veri soldati del re), né – a Liberazione avvenuta – voleva la rivoluzione sociale. È comunque sintomatico il fatto che Secchia – che ora è direttore degli Editori Riuniti – abbia scelto Einaudi come editore»[12].

La riserva sulla pubblicazione è sciolta il 1 marzo successivo, quando l’editore scrive: «Caro Secchia, ho preso con piacere visione del libro tuo e di Moscatelli. Mi pare uno studio di grande interesse, condotto con una precisione e una serietà veramente ammirevoli. Siamo ben lieti di pubblicarlo. Vi sarò preciso sulla data e vi farò avere tra breve il contratto»[13].

L’editore torinese mantenne la parola: il 4 aprile, in una breve lettera di risposta a una missiva di Secchia risalente al 25 marzo, di cui abbiamo solo notizia, comunicò che il libro sarebbe stato in vendita dai primi di settembre e che era imminente l’invio del contratto. Il 5 aprile, infatti, fu stilato un accordo di durata ventennale che prevedeva, tra l’altro, la corresponsione di un anticipo di lire 150.000, una percentuale del 6 per cento sul prezzo di copertina di ogni esemplare venduto fino a tremila esemplari, dell’8 per cento oltre tale quota di venduto (il costo del volume nel 1958 era di 3.000 lire); inoltre, agli autori furono concesse venti copie gratuite del volume.

L’accordo editoriale lasciava aperta una questione destinata a una soluzione non facile: il titolo dell’opera indicato nel documento era infatti “La Resistenza nel Biellese, nella Valsesia e nell’Ossola”, mentre una clausola prevedeva esplicitamente che per il titolo definitivo sarebbe stato necessario il consenso di entrambe le parti[14]. La trasmissione del contratto avvenne, l’11 aprile successivo, all’indirizzo di Secchia, che provvide immediatamente a inoltrarne copia a Moscatelli invitandolo a firmarla e restituirla a Einaudi tramite posta raccomandata[15]. Nella lettera si comunicava la tempistica di uscita prevista e si faceva riferimento al desiderio di Cino di divulgare la notizia sulla stampa, che Secchia frenò: «Per ora però è troppo presto per parlarne sulla stampa e poi loro desiderano a suo tempo cercare di fare il lancio su quotidiani e su riviste di sinistra, democratiche, che tocchino un pubblico più largo del nostro. Se cominciassimo adesso sull’Unità o su Vie Nuove finiremmo di comprometterne in parte la diffusione, perché tanto valeva allora farlo pubblicare dalla nostra casa Editrice. Per ora dunque nessun annuncio sulla stampa nostra».

Quanto all’altro desiderio espresso dall’ex comandante partigiano di anticipare qualche pagina in occasione della prossima celebrazione dell’anniversario della Liberazione, Secchia era ancora più categorico: «Per il 25 Aprile arrangiati, non ti mancheranno argomenti per scrivere un articolo senza bisogno di riportare pagine del libro» e aggiungeva: «Restiamo anche intesi che quando sarà il momento di riportare delle pagine del libro, tutto quanto riporteremo porterà le nostre due firme». La scelta di rivolgersi a Einaudi per l’edizione, anziché intraprendere una più comoda soluzione interna, ebbe motivazioni legate alle migliori garanzie di diffusione presso un pubblico più ampio e non strettamente legato alla militanza comunista, ma non è da trascurare, nella particolare stagione vissuta da Secchia, la ricerca di un riconoscimento culturale al di fuori del partito e, probabilmente, la possibilità di esprimere un’interpretazione politica della Resistenza non costretta a improbabili mediazioni con l’ortodossia togliattiana.

Le questioni del titolo e della sovraccoperta

Sottoscritto il contratto, iniziò per gli autori, soprattutto per Secchia, un meticoloso lavoro di revisione, destinato ad aprire problemi di tempi e costi, mentre stentava a trovare soluzione la questione del titolo. Il 27 maggio Secchia comunicava a Moscatelli di avere completato la revisione delle bozze e di averne spedito copia all’editore, insieme alla richiesta di corredare il volume con cartine, fotografie di documenti o di persone, per la quale, chiosava, «Einaudi […] deve essere disposto a spendere un po’ più di soldi; nel libro di Battaglia ce ne sono»[16]. Aggiungeva rassicurazioni a proposito dell’omissione di alcune informazioni sull’attività di Moscatelli nei giorni successivi all’armistizio: «Quelle cose che tu dicevi avevo lasciato fuori che riguardavano la tua febbrile attività alla sera del 13 Settembre, meglio nella notte, la riunione del giorno dopo in casa tua, le poche righe dedicate – e ben meritate – alla Maria»[17], ecc., ecc. le metterò nella pre­fazione politica che preparerò, perché quelle cose raccontandole in prima persona non potevo inserirle in un capitolo». Alla lettera furono allegati sette fascicoletti con le note, l’ultimo capitolo del libro (“La vittoria. I garibaldini a Milano”) corretto, quattro pagine da sostituire e l’elenco della nuova numerazione delle note.

La comunicazione a Einaudi con cui Secchia spediva la copia delle bozze revisionate è accompagnata da una lettera di presentazione in cui si legge: «Caro Einaudi, credo di essere ancora in tempo ad inviarti alcune note per il libro mio e di Moscatelli. Non si tratta di aggiunte nel testo del libro, ma nelle note che vi sono in fondo ai capitoli. Tali note, come sai, sono forse una delle parti più interessanti perché si riferiscono a documenti non nostri e in parte ancora inediti. Ad esempio abbiamo pensato di pubblicare la lettera che il Conte di Torino aveva inviato a suo tempo a Moscatelli. Così pure siamo venuti in possesso di una serie di documenti della Questura e della Polizia repubblichina che si riferiscono ad azioni e situazioni di cui noi parliamo nel libro, ed è interessante poter documentare tali azioni anche con il rapporto e il giudizio dell’avversario. Non spaventarti al vedere tutti questi fogli, non si tratta di fogli in più, ma di sostituzioni. Ad evitare cioè di dover spiegare: inserite nelle note al cap. X, quest’altra nota, cambiate quel numero, spostate quell’altra, il che avrebbe potuto portare a delle complicazioni, ho ribattuto a macchina le note dei capitoli V-VI-VII-IX-X-XI-XII. Non c’è da fare altro che da sostituire le note dei capitoli corrispondenti con i fogli che ti mando. Scusami il disturbo, ma il libro con questi documenti ne guadagna. Comunque adesso è finito e non ci metteremo più mano, non sposteremo più nulla. Naturalmente quando ci manderai le bozze vi saranno qua e là delle correzioni, ma si tratta di parole. Con queste note, ti mando anche il testo dell’ultimo capitolo. Quando ti mandai tutto il materiale ti scrissi che l’ultimo capitolo non l’avevamo ancora corretto e che ti avrei poi mandato la copia corretta. Infine mi resterà soltanto da mandarti una introduzione di carattere politico e di considerazioni sulla Resistenza, che come ti dissi avrei preparata all’ultimo momento per poter eventualmente se fosse il caso accennare a questioni di attualità. Tu dovresti dirmi per quando questa ti occorre, se per ragioni tecniche ti occorresse subito, sono pronto a mandartela entro pochi giorni, altrimenti te la farò avere alla data che mi indicherai. Non so se tu pensi di inserire nel libro la riproduzione di qualche cartina topografica, basterebbero quattro o cinque. Se credi che possa servire noi potremmo preparare tali cartine. Così pure non so se pensi a inserire alcune fotografie di partigiani (non di singoli, ma di gruppi in azione, comandi, ecc.) anche per queste basterebbero alcune ben scelte. Se ritieni che questo debba farsi noi ti potremo mandare alcune di queste fotografie, scelte tra le tante che abbiamo»[18].

La rielaborazione del volume inviata all’editore ne produsse la reazione di cui Secchia informò Moscatelli da Rocca di Papa il 16 agosto 1957[19]. La risposta di Giulio Einaudi recitava: «Caro Secchia, ho ricevuto la tua del 27 Luglio. Mi è stato riferito che le correzioni da voi fatte sulle bozze sono numerosissime, tanto che si dovrà ricomporre gran parte del volume. A parte l’onere finanziario che ciò comporta – e su cui potremo sempre metterci d’accordo – la cosa è spiacevole perché avrà quasi certamente come effetto un ritardo nell’uscita del libro. Ad ogni modo malgrado che il periodo delle ferie sia poco propizio, tutto il possibile sarà fatto per mandare avanti il lavoro in fretta. Quanto al prezzo di copertina, vedrò di tener conto, nei limiti del possibile, delle tue raccomandazioni. L’interesse di assicurare al libro la massima diffusione è comune a entrambe le parti. Grazie per la promessa di farci avere un elenco dei comuni le cui amministrazioni possono essere interessate all’acquisto del volume. Non ho nulla in contrario a che tu faccia pubblicare fin d’ora su “Pae­se sera” e “Vie Nuove” qualche pagina del libro».

Nella stessa comunicazione Secchia riferiva di avere ricevuto in data 9 agosto una lettera di Ugo Traversa, responsabile dell’ufficio commerciale della casa editrice, in cui si parlava di ritardo della data di uscita a causa delle numerose variazioni apportate, si escludeva la possibilità che il libro fosse pronto per il 15 settembre e si accennava alla copertina, altra questione che avrebbe comportato nuove discussioni. In particolare, Traversa scriveva: «Ho visto la copertina proposta da Bruno Munari. È molto interessante e piacevole. In primo piano appare la fotografia di Moscatelli mentre parla ai partigiani sulla torre dell’autoblindo, sullo sfondo il Duomo. Il tutto costellato di volantini bianchi, rossi, verdi che paiono scendere dall’alto e danno un volto disinvolto e piacevole». La missiva rinviava la discussione sul titolo del libro al rientro di Italo Calvino, glissando sul fatto che la proposta avanzata dagli autori fosse già stata esaminata il 17 luglio, con gli esiti di cui riferisce Ponchiroli: «Calvino: Titolo proposto da Secchia e Moscatelli per il loro libro “…E il Rosa scese a Milano. La Resistenza nell’Ossola e nel Biellese”. Qualche ilarità fra gli astanti»[20].

Commentando le lettere di Einaudi e Traversa Secchia scriveva: «Come vedi, caro Cino, con le correzioni ce la siamo cavata bene, non strillano molto, certo Einaudi ne ha subito profittato per dirci che ciò importa un maggior onere e che dovremo metterci d’accordo. Ma dal momento che da lui è difficile prendere soldi, poco male. Certo che con un po’ di maggiore attenzione avremmo potuto evitare di fare e rifare molte pagine. Vi sono molte righe ad esempio che devono essere rifatte soltanto perché ci abbiamo messo dentro delle virgole, altre righe devono esser rifatte perché abbiamo cambiato un aggettivo o cose simili. Altre parti invece era necessario fossero corrette, non se ne poteva fare a meno. Comunque ormai la cosa è fatta, ci servirà di esperienza. È spiacevole ci sia questo ritardo perché il mese della stampa quando uscirà sarà quasi del tutto terminato e questo è un peccato. Comunque appena la tipografia avrà finito le ferie ti prego di andare a vedere a che punto sono e come procede il lavoro in modo che io possa stare tranquillo, dimmi se le correzioni fatte, specialmente nelle note, le aggiunte, ecc., se le capiscono bene e se fanno tutto per bene […] Desidererei venire a dare un’occhiata prima che comincino la tiratura, appena cioè avranno finito le correzioni e saranno pronte le nuove bozze […] Circa la copertina di cui parla Traversa, io non l’ho vista, si vede che queste cose le fanno loro non ci chiedono neppure se siamo d’accordo. Comunque io non ho nulla da obbiettare, vorrei soltanto proporgli l’idea che avevamo e cioè se come sfondo oltre al duomo potessero mettere la catena del Rosa».

La lettera di risposta[21] partì da Verbania il 21 agosto e riprese puntualmente le varie questioni, a partire dai tempi di stampa. Moscatelli informava Secchia che la tipografia avrebbe ripreso il lavoro lunedì 26 agosto, si impegnava a seguire personalmente e sollecitare il lavoro, avvertendo però che fino alla chiusura per ferie le bozze corrette non erano ancora pervenute. L’urgenza di avere a disposizione copie stampate del volume era dettata dalla possibilità di concorrere al premio letterario istituito dalla amministrazione comunale di Prato, che fissava il 31 agosto come termine improrogabile per la presentazione di dodici esemplari dell’opera. Moscatelli era dubbioso sul fatto di riuscire a rispettare la scadenza, soprattutto per la mancata trasmissione delle bozze in tipografia, ma si impegnava a ottenere il risultato «anche a costo di farli lavorare giorno e notte». Nella seconda parte della missiva l’attenzione era incentrata sulla diffusione e distribuzione del libro. Furono individuati come possibili acquirenti i comuni citati nel vo­lume, che Moscatelli si impegnava a visitare personalmente «approfittando del mio solito giro per lavoro di partito». Lamentando l’incertezza sul titolo definitivo, che impediva il lancio pubblicitario, il senatore, pur consapevole che la pubblicazione era destinata a ritardare, riteneva possibile abbinarne la vendita alla campagna di sottoscrizione per “L’Unità” e lanciava l’idea di premiare in ogni sezione il compagno che avesse raccolto la maggiore somma regalandogli, «a spese della sezione, s’intende», una copia del libro. Concludeva infine con una nota sulla distribuzione: «Parleremo anche di altre iniziative che si potranno prendere, intanto se è possibile vorrei che la vendita nelle due provincie di Vc e No, oltre alla normale organizzazione di vendita libraria che ha Einaudi, fosse anche affidata a dei produttori locali che mi impegnerei di trovare. Naturalmente dovrei sapere se sei d’accordo; se è d’accordo Einaudi, quale percentuale quest’ultimo è disposto a riconoscere ai produttori sul prezzo di copertina. Questi produttori avrebbero il compito di visitare privati, enti, associazioni, ecc. muniti di referenze nostre, dell’Anpi nazionale ed eventualmente altre che potrebbero aiutare la diffusione».

Le informazioni ricevute furono per Secchia motivo di scoramento, come si desume dalla replica da Roma del 30 agosto[22]: «Caro Cino, ieri son tornato a Roma ed ho avuto la tua lettera con la spiacevole notizia che le bozze non sono ancora giunte in tipografia e che ci sarà un ritardo addirittura di due mesi. D’altronde non so che farci. Quelli ci hanno fatto lavorare come dei dannati e poi se ne sono andati in ferie. Se lo avessimo saputo avremmo potuto prendercela con maggiore calma. Ma che vuoi farci? Speriamo non accadano altri guai prima di questo parto veramente difficile […] Scriverò a Calvino dicendogli che si sbrighi a decidere per il titolo».

E Calvino rispose, il 5 settembre: «Caro Secchia, ricevo la tua lettera e capisco la tua impazienza. Il libro è sempre in bozze dato il lavoro inaspettato causato dal gran numero di correzioni che vi avete apportato. Gran parte della composizione andrebbe rifatta di sana pianta e il lavoro dei nostri correttori è stato di cercare di salvare il più possibile delle righe già composte. Per questo il libro non è andato avanti in questo periodo (che era anche quello delle ferie, con meno personale). Forse ve ne sono di non indispensabili, tra le vostre correzioni formali: per esempio, il cambiare i tempi dei verbi, mettendo tutto al presente, impone di rifare un gran numero di pagine; ne valeva la pena? Per il titolo, io personalmente sono favorevole, ma non posso ancora comunicarti una decisione definitiva della Casa editrice, perché non abbiamo avuto ancora sedute collegiali. Pensiamo però che sul “Paese” e su “Vie Nuove” puoi già annunciare questo titolo e così avresti una prima impressione di come il pubblico accoglie il titolo, sentiresti dei commenti ecc… Se poi si decidesse di cambiarlo, poco male: non ci sarebbero certo confusioni possibili. Ora il libro dovrebbe procedere speditamente»[23].

La seduta collegiale si tenne il 25 settembre. A riferircene è il diario di Ponchiroli, che ne riporta un gustoso quadretto: «Si discute sul titolo del libro di Moscatelli e Secchia. Moscatelli è venuto lunedì (23) in Casa editrice: voleva il volume per il 20 ottobre, data in cui vi sarà un grande raduno partigiano a Roma (mi pare). Essendogli stato dimostrato con logiche deduzioni che per tale data il libro non potrà uscire, ha proposto di fare una cedolina di sottoscrizione che egli farà firmare dai “suoi” uomini. Di qui la necessità di sapere subito il titolo del libro anche se ormai non potrà uscire che al principio del prossimo anno. Il Consiglio, dopo più di mezz’ora di tentativi […] fissa la sua attenzione su questi due titoli: 1) I Partigiani della stella alpina (il fiore che gli uomini di Moscatelli portavano sulle mostrine) – 2) Vento delle Alpi (contaminazione del famoso “vento del Nord”). Subito Calvino scriverà per avere l’approvazione degli autori. (A proposito dei quali stamani Bollati mi contava che Moscatelli, saputo che eravamo contrari alla prefazione e in fondo anche alle prime 50 pagine che sono una descrizione tipo guida turistica dei luoghi dell’azione, ha esclama­to: “Anche voi! Lo sapevo: anch’io so­no d’accordo. Gliel’avevo detto, a Secchia, di lasciarlo stare, ma lui ci ha voluto mettere le mani! Dal che Bollati sospetta che il libro sia stato scritto da Mo­scatelli – uomo interessante e vivo, pieno di slanci e di idee, una delle quali è quella di voler scrivere un Cuore partigiano, per es. – e sia poi stato riveduto e ideologizzato dal Secchia, naturalmente peggiorandolo»)[24].

Il giorno dopo Calvino informava gli autori dell’esito della riunione tramite posta espresso: «Caro Secchia e caro Moscatelli, abbiamo discusso a lungo del titolo. Il Monte Rosa è sceso a Milano solleva molte critiche. Tra l’altro si osserva che ricorda “la Monte Rosa” di famigerata memoria, la divisione alpina repubblichina. Abbiamo cercato altri titoli» e riferisce le due proposte concordate, sollecitando un’immediata comunicazione della decisione «in modo che possiamo fare le cartoline per il raduno del 20 ottobre, come abbiamo combinato con Moscatelli»[25].

Secchia inviò una vibrata protesta, insistendo per “Il Monte Rosa è sceso a Milano”[26]. L’11 ottobre, in una nuova missiva a Moscatelli, senza fare riferimenti alla discussione sul titolo, scriveva: «Caro Cino, come avrai già saputo, e come si era del resto previsto, il libro non potrà uscire per quest’anno. Stando così le cose ho discusso con Bollati sull’opportunità del volantino e della cedola di prenotazione e abbiamo pensato di rinviare l’iniziativa perché è troppo distante dall’uscita del volume e rischieremmo di fare aspettare troppo tempo e del resto la impossibilità di fare segnare il prezzo è un altro aspetto negativo. L’iniziativa è buona e da farsi, ma rinviandola ad epoca più prossima all’uscita del libro»[27].

La situazione d’impasse su tempi di pubblicazione e titolo spinse Moscatelli a contattare Giulio Einaudi, scrivendogli, con toni concilianti, il 16 ottobre[28]: «Caro Einaudi, sono stato lunedì mattina a Torino per parlarti in merito al libro, ma l’asiatica che ti ha colpito non mi ha concesso il piacere di incontrarti. Desideravo conferire con te per due cose: la prima – circa l’uscita del volume – per pregarti di voler dire una tua autorevole parola allo scopo di sollecitarne la pubblicazione per arrivare in tempo col raduno della Resistenza già fissato per il 20 ottobre, ma ora rinviato a data da destinarsi e che sarà molto probabilmente per fine novembre a Milano. Infatti il governo ha posto il divieto, ma stiamo ancora trattando insistendo per Roma, senza di che ripiegheremo su Milano come già ci è stato suggerito in via ufficiosa. Personalmente preferisco questo ripiego, perché il libro troverebbe così la sua piazza più naturale. La seconda – circa il titolo del libro – per dirti che Secchia ed io gradiremmo vedere confermato il titolo originario, cioè “Il Monte Rosa è sceso a Milano”. Non escludiamo però anche altro titolo, purché non siano quelli che ci hanno suggerito “I partigiani della Stella Alpina” (nel racconto si parla anche di altre formazioni che non avevano tale simbolo) o “Il vento delle Alpi” (tra quello del Nord e quello del Sud, ci manca solo la rosa dei venti). D’altra parte il titolo originario mi pare che esprima bene il contenuto; ti assicuro che è piaciuto a molti che ho interpellato e, seppure un po’ fantasioso, mi pare che sia facilmente orecchiabile. Comunque, ripeto, anche altro titolo, perché, pur non sottovalutandone l’importanza, ciò che più mi preme è di arrivare ancora una volta in tempo a Milano, questa volta col libro».

Erano giorni decisivi per la definizione delle questioni controverse. Nella riunione del 16 ottobre della casa editrice echeggiarono ancora le proteste e le pretese di Secchia, che «vuole il suo libro per il 17 novembre (data in cui è stata rimandata la manifestazione partigiana nazionale). Non accetta i titoli proposti da noi, ma insiste sdegnato per il suo (Il Monterosa è sceso a Milano»), mentre si riferisce di una comunicazione di Moscatelli in cui avanza la richiesta di pubblicazione di una sua fotografia in sovraccoperta. Nella riunione Giulio Bollati riferisce che «Moscatelli è stato da Valiani per convincerlo a intervenire presso Venturi, ritenuto da Moscatelli uno dei più accaniti oppositori al titolo originale del libro»[29]. In questo contesto maturò, finalmente, la decisione di assecondare la volontà partigiana e di comunicare che le bozze corrette erano state trasmesse alla tipografia a Novara, demandando agli autori il compito di sorvegliare e sollecitare il lavoro della tipografia. Laconica la chiosa finale della discussione intervenuta sui tempi di pubblicazione: «Se esce in tempo, esce».

La battaglia per il titolo era vinta. Ancora una volta toccò a Calvino, il giorno dopo, comunicare la decisione con queste parole: «Caro Secchia, buone notizie: per il raduno del 17 Novembre Einaudi crede che sia possibile avere il libro. Ora la tipografia “Stella Alpina” di Novara ha le prime 400 pagine da mandare avanti; tra una settimana avrà il resto. Sarebbe bene che Moscatelli stesse dietro alla tipografia (gestita da suoi ex partigiani) per affrettare col suo slancio garibaldino il ritmo del lavoro. Le ultime obiezioni sul titolo sono state superate. D’accordo dunque: Il Monte Rosa è sceso a Milano»[30].

Appena ricevuta la lettera, Secchia scriveva al compagno: «Caro Cino, in questo momento ricevo da Calvino la lettera che qui sotto ti trascrivo. Sono contento come lo sarai certo anche tu. Speriamo sia finalmente la volta buona e che tutti gli ostacoli siano superati. Se avessimo previsto che le cose sarebbero andate in porto così rapidamente anche per il titolo, avremmo potuto fare a meno di scrivere a Valiani, ma ad ogni modo credo non guasterà». L’entusiasmo per la battaglia vinta non impedì a Secchia di rivolgere a Moscatelli, insieme ad informazioni su alcuni accordi assunti personalmente, qualche raccomandazione: «[…] ti prego di stare dietro al libro come dice Calvino, non soltanto per sollecitare il lavoro, ma anche per curare che non ci saltino nulla, che ci siano tutte le note. Per la prefazione restiamo intesi che la prima mandata quella lunga di 30 pagine resta annullata; quella buona è l’ultima fatta cioè quella ridotta a undici pagine della quale hai preso copia l’ultima volta. Non ricordo se ti avevo detto che con lettera del 25 Settembre Calvino mi aveva scritto proponendo di dividere il primo capitolo in due parti. La prima parte comprendente la parte storica (25 luglio) e la descrizione delle tre regioni (il terreno), la seconda parte nella quale si inizierebbe la narrazione vera e propria col titolo Sorge il movimento parti­giano e sottotitolo l’organizzazione de­gli sbandati. Insomma il libro avrebbe nell’ordine: la Prefazione, l’Introduzione (parte storica e descrizione delle regioni) e il Capitolo primo. Avevo risposto che noi accettavamo la divisione da loro proposta. Anche perché nella lettera dicono che te ne avevano parlato. Difatti tu a qualche cosa mi avevi accennato e cioè che essi facevano delle osservazioni a quella parte storica 25 Luglio, e alla descrizione delle regioni. Essi hanno risolto la questione chiamando questa parte storico-regionale: introduzione (in modo che chi non vuole leggerla la può saltare) e il primo capitolo comincia subito con l’organizzazione degli sbandati. Ho acconsentito perché credo vada bene lo stesso in quanto si pubblica tutto, ma la parte che potrebbe esser un po’ pesante viene considerata come introduzione»[31].

Nel carteggio Secchia-Moscatelli si rinviene una lettera di contenuto pressoché analogo, datata 19 ottobre, ma con qualche variante significativa. Nella parte iniziale del testo si trovano le ragioni della replica dell’invio, motivate dall’insicurezza sull’indirizzo privato di Moscatelli, in quel di Intra. Secchia, ancora sotto l’effetto dell’entusiasmo susseguente alla comunicazione di Calvino, definiva “monumentale” l’opera di prossima pubblicazione. Riferiva nuovamente della sistemazione della parte iniziale con la suddivisione del primo capitolo in due parti, concordata con l’editore, riconoscendo le buone ragioni della proposta: «[…] essi cioè, tu lo sai, ritenevano un poco pesante quella parte storica introduttiva sul 25 Luglio (tu stesso riferendomi quanto dicevano osservavi, si tratta di cose già trattate da molti) ed anche i saggi sulle tre regioni. Hanno risolto mi sembra le cose per il meglio: senza togliere nulla, questa parte la considerano Introduzione così chi vuole può anche leggerla come in genere si fa di ogni introduzione». Successivamente invitava Mo­­scatelli a controllare la disposizione delle note, la corrispondenza numerica, la sostituzione del testo di alcune di esse, in particolare la nota 29, che dopo la nuova suddivisione divenne la nota 1 del primo capitolo, cui Secchia dimostrava di tenere in particolare, come si evince dalle sue parole: «Lo so che è lunga, è la nota più lunga di tutto il libro, sono 5 pagine, ma io ci tengo sia perché praticamente è il solo posto in cui si parla di me nel libro, e non è per la vanità, ma ci tengo che risulti che cosa ho fatto nei giorni dall’8 al 14 Settembre, che anche se eravamo appena usciti dal carcere in quei giorni a Roma noi c’eravamo, ci siamo dati da fare, ecc., ecc. Inoltre in questa nota spiego perché abbiamo fatto il libro assieme, come ci siamo conosciuti e riferisco anche giudizi positivi ed anche di avversari sulle tue capacità, in terzo luogo nella nota trovo modo di parlare di Maria e di dire su di lei poche parole buone che se le merita. Per tutti questi motivi ci tengo che questa nota, anche se l’abbiamo mandata dopo, sia in­serita. Ci tengo che siano inserite tutte quelle che abbiamo mandate e controlla sia stato fatto, ma in modo particolare ci tengo a questa. D’altronde col carattere così minuscolo col quale stampano le no­te, non verrà più di due paginette»[32].

Assicurata l’integrità di una nota ritenuta tanto importante, e possiamo comprenderne il motivo umano e politico se pensiamo alle vicissitudini di Secchia, l’attenzione si spostò su alcuni errori individuati nel testo, la cui responsabilità fu attribuita, con qualche espressione poco elegante, ad altri. Proseguiva, infatti, la lettera: «Ed ora attenzione ad un grande svarione che io ho trovato nel libro. Non so come sia successo, senza dubbio per colpa nostra, quasi certamente di quella sventata di dattilografa che pensa a tutto, alle farfalle e agli uccelli in volo, salvo che al lavoro. Mi ha copiato una citazione di Mao Tse Dun che per tre righe non sono di Mao Tse, e poi mi ha saltato l’ultima riga cambiando così tutto il significato. A pag. 16 delle loro bozze troverai in fondo pagina questa citazione. La trascrivo: la tattica di guerra del nostro esercito popolare deve assolutamente venire combinata con la tattica partigiana seguita fin qui. Ciò vuol dire che noi dobbiamo evitare fronti rigidi, che dobbiamo evitare che il nemico con la sua tattica ci imponga la difesa sui fronti lunghi e diradati, ci imponga di tappare le falle… Noi siamo contrari ad operazioni di lunga durata ed alla strategia delle soluzioni fulminee, mentre crediamo alla strategia della guerra lunga e alle operazioni e soluzioni fulminee. Siamo contrari ai fronti operativi immobili e alla guerra di posizione e crediamo nei fronti operativi mobili e nella guerra di manovra… La nostra strategia è di “uno contro dieci” mentre la nostra tattica è di dieci contro uno – questa unione di contrasti è una delle leggi con cui vinciamo il nemico. Come vedi, confrontando con la bozza, nella bozza è scritto mobili invece di immobili, ed hanno saltato quasi una riga, manca cioè la frase: e crediamo nei fronti operativi mobili e nella guerra di manovra. Le prime cinque righe della citazione devono essere cancellate perché non sono di Mao Tse Dun, precedevano quelle perché sostenevano lo stesso concetto, ma a copiare la dattilografa doveva cominciare più in basso. Alle righe da cancellare sulle bozze ho tirato i segni con la matita. Nel caso che non si potesse più togliere senza rovinare tutta la pagina, non è un gran male se rimangono, tanto il concetto è uguale, però la correzione che si deve assolutamente fare è inserire alla fine della citazione quella riga mancante, che io ho sottolineato; senza quella riga, il senso manca completamente».

Dopo essersi raccomandato di cancellare una citazione erroneamente attribuita a Engels e a controllare l’effettiva esecuzione delle correzioni ritenute assolutamente indispensabili, Secchia si scusava per non poter dare una mano al compagno nella fase finale dell’avventura editoriale.

Il 21 ottobre Giulio Einaudi comunicò anche a Moscatelli il buon esito della vicenda, facendo riferimento all’intreccio di corrispondenza avvenuto: «Caro Moscatelli, la tua lettera del 16 ottobre si è incrociata con la nostra a Secchia del 17. Confermo comunque anche a te che il titolo sarà, secondo il vostro desiderio, Il Monte Rosa è sceso a Milano. Per la pubblicazione tutto dipende ormai dalla tipografia, che ha già più di metà del libro riveduto e riceverà a giorni il resto. Si tratta di ricomporre in gran parte, se non tutto; correggere le bozze e stampare. Se ne potranno avere delle prime copie entro qualche settimana, per fare conoscere e presentare. Ai prenotatori penso si possa far giungere per Capodanno, ed in libreria è bene che giunga subito dopo l’ondata delle strenne (periodo in cui il libraio non ama ricevere novità non adatte al pubblico generico natalizio). Ma per rispettare questo calendario è indispensabile che anche tu, se hai modo, prema sulla tipografia»[33].

“L’Unità” del 1 dicembre pubblicava in anteprima un articolo intitolato “Un garibaldino scampato alla fucilazione rie­voca il martirio dei 43 di Fondotoce”, avvertendo che si trattava di un brano a descrizione del martirio dei garibaldini di Fondo Toce (sic), tratto dal libro di Pietro Secchia e Cino Moscatelli “Il Monte Rosa è sceso a Milano”, di prossima pubblicazione, per gentile concessione dell’editore Giulio Einaudi. L’articolo, rispetto all’originale, presentava degli adattamenti editoriali, con qualche taglio. Si rispettava in questo modo il disegno di anticipare l’uscita del volume con la pubblicazione di qualche capitolo, o paragrafo, sulla stampa del partito[34].

Il progetto editoriale, embrionalmente ipotizzato già nel dopoguerra, e strutturato dal 1952, si avviò così a conclusione negli ultimi mesi del 1957, non senza un piccolo colpo di coda legato alla sovraccoperta. Come si è visto, Bruno Munari ave­va elaborato una proposta grafica che prevedeva l’immagine di Moscatelli in piazza del Duomo a Milano corredata di volantini tricolori. Nel corso dei mesi tuttavia erano intervenute altre scelte, tanto che, sempre dal diario di Ponchiro­li, apprendiamo che sabato 18 gennaio 1958 la questione fu affrontata in questi termini: «Durante l’assenza di Bollati, è andata avanti la sovraccoperta di Secchia-Moscatelli, per la quale Einaudi, con­tro il parere di Bollati, aveva scelto una fotografia di Moscatelli a braccetto con un prete. Stamani Bollati ha visto la copertina, quando i volumi stavano per uscire dal magazzino. Si è arrabbiato e ha fatto telefonare da Calvino a Einaudi la ribellione di tutta la redazione. Einaudi ha fatto fermare la spedizione in attesa di una decisione. In un successivo colloquio telefonico, Einaudi ha chiesto il parere anche di Giolitti e Panzieri. “Mi pare – ha detto Giolitti – una fotografia franchista: l’esercito e il clero a braccetto. Secondo me non va”. L’idea che aveva guidato Einaudi nella scelta di tale fotografia è quella del colloquio coi cattolici: una piccola astuzia machiavellica che (penso, fortunatamente) è stata sventata in tempo»[35].

Nella prima edizione la sovraccoperta presentava a sinistra un’immagine delle origini della Resistenza in Valsesia, virata in rosso, raffigurante un gruppo di partigiani all’alpe Sacchi con Moscatelli al centro; a destra un’immagine del 28 aprile 1945, il giorno in cui Moscatelli e i partigiani della Zona Valsesia entrarono in Milano, con un autocarro gremito di partigiani della 118a brigata “Servadei” in piazza del Duomo e le inconfondibili guglie sullo sfondo; sul retro compariva un’immagine, non contestualizzata, che richiamava la ritirata nemica. Nelle edizioni successive furono conservate soltanto le due immagini frontali, ingrandite: quella dell’autocarro della brigata “Servadei”, centrata e contornata da due colonne in arancione sul davanti, l’immagine delle origini sul retro, in cui compariva come sintetica presentazione del volume la dicitura: «Un quadro nitido e particolareggiato della genesi e dello sviluppo del movimento partigiano».

L’accoglienza

Già dalla fine di gennaio del 1958 intanto gli organi di stampa incominciavano a parlare dell’opera. “Il Giorno”, quotidiano milanese di proprietà dell’Eni di Mattei, il 29 gennaio dava notizia dell’imminente pubblicazione: «Sta per uscire da Einaudi un altro libro di documenti e memorie sulla Resistenza “Il Monte Rosa è sceso a Milano”. È scritto da Secchia e Moscatelli. Limitando la propria narrazione nell’ambito della regione in cui operarono direttamente, i due autori fanno un quadro nitido e particolareggiato dello sviluppo del movimento partigiano, quadro che trae valore anche dal ricchissimo materiale documentario consultato e dalle testimonianze raccolte dalla viva voce degli ex-partigiani. È stato dato risalto inoltre all’aspetto militare della lotta partigiana»[36].

A livello locale il 31 gennaio anche il “Corriere Valsesiano”, settimanale di orientamento liberale uscito fra la Liberazione e la fine del 1945 come giornale del Cln con il titolo “Valsesia libera”, ospitava una presentazione redatta da Eliso Scabbia, attivo nella Resistenza e collaboratore di Moscatelli nella produzione del giornale partigiano “La Stella Alpina”[37]. L’edizione nazionale de “L’Unità” del 18 febbraio, nella rubrica “Ultime in libreria” presentava il volume­ rimarcando come l’originalità del li­­bro consistesse «nell’aver dato un parti­colare rilievo agli aspetti propriamente militari della guerra di liberazione» e attribuendogli il merito di aver «saputo dire una parola nuova che può essere util­mente aggiunta ai vecchi e nuovi trattati di storia militare»[38].

I temi della ricchissima documentazione consultata e dell’attenzione per l’organizzazione militare furono ripresi da tutti coloro che produssero recensioni e commenti al volume. Furono molti gli esperti che scrissero de “Il Monte Rosa è sceso a Milano”: tra loro Angelo del Boca, che al libro mosse l’appunto di «essere in qualche parte meno vivo e autentico per la costante preoccupazione (evidentemente di Secchia) di voler fare precisazioni di carattere politico e ideologico, che non condividiamo», riconoscendo peraltro il merito di mettere in luce, «per la prima volta, non l’attività degli alti comandi, ma le azioni dei più umili interpreti del dramma chiamato Resistenza» e soprattutto quello di confutare l’opinione corrente «secondo la quale le azioni dei partigiani sarebbero state essenzialmente frutto di iniziative personali e dell’improvvisazione», rivalutandone la capacità di presentarsi come operazioni condotte in base a criteri rigidamente militari[39]. Scrissero anche Tommaso Chiaretti in “Vie Nuove”, Davide Lajolo ne “L’Unità”, Saverio Tutino in “Rinascita”, Arrigo Boldrini e Fausto Vighi in “Patria Indipendente”, Ruggero Zangrandi in “Paese Sera”.

Roberto Battaglia, autore della “Storia della Resistenza italiana” pubblicata da Einaudi nel 1953, salutava l’uscita dell’opera di Secchia e Moscatelli dalle colonne de “L’Unità” del 21 febbraio con questo esordio[40]: «Credo che nessuna regione dell’Italia partigiana abbia avuto sinora una illustrazione così scrupolosa, così ricca, così esauriente». Riconosciuta agli autori la capacità di trasformarsi «da dirigenti partigiani di primo piano… in attenti ricercatori», sottolineate la correttezza metodologica­ e la capacità di sottrarsi a qualsiasi tentazione autocelebrativa, Battaglia rimarcava tuttavia che «pochi saggi come questo rivelano in forma così esplicita, così prepotente […] la personalità di chi scrive», interpretando l’opera come il prolungamento della lotta condotta fra il 1943 e il 1945, «lotta che, per essere efficace dev’essere condotta rigorosamente, senza indulgere a tentazioni». Il libro, secondo lo storico romano, aveva il carattere del «pieno impegno politico e ideologico» e risultava il primo tentativo di «sistemare su un vero e proprio piano concettuale la strategia e la tattica militare della lotta di liberazione, ricorrendo ad esempi e a definizioni ormai classici […] ma basandosi soprattutto sull’esperienza partigiana in Italia». Battaglia pro­seguiva ponendosi l’interrogativo se il vaglio critico cui era stato sottoposto ogni episodio narrato non avesse finito per raffreddarne il calore umano e per irrigidire la storia entro schemi teorici, ma giudicava «quasi sempre» evitato tale pericolo, grazie al ricorso alla dialettica marxista «per cui non possono sussistere problemi teorici allo stato puro anche nel campo della scienza militare». Accanto alla dimensione militare, Battaglia sottolineava l’importanza dell’aspetto politico-sociale, insistendo­ in particolare sull’accentuazione del carattere di lotta di classe che gli autori attribuivano alla Resistenza ed elogiando la ruvidezza e la durezza che caratterizzarono la guerra combattuta nelle zone interessate dalla narrazione, ma che furono necessarie «in una lotta che non ammette congedi» e che si trasferirono anche al libro che ne dava conto.

Intanto la manifestazione partigiana di cui parlavano spesso Secchia e Moscatelli nella loro corrispondenza, che avrebbe dovuto svolgersi a settembre e poi fu rinviata a novembre, si tenne infine domenica 23 febbraio 1958. Indetta in un primo tempo da ambienti partigiani, avvenne sotto il patrocinio della Presidenza del Consiglio: il governo, infatti, temendo possibili disordini ed essendo, a ragione come vedremo, preoccupato dalle possibili reazioni dell’estrema destra, aveva frapposto una serie di limitazioni al suo svolgimento che avevano indotto gli organizzatori a desistere, suscitando una certa reazione dell’opinione pubblica. Alla luce delle forti proteste diffuse nel Paese, la questione fu riesaminata e si decise di ricondurre la manifestazione sotto la piena responsabilità istituzionale, dandole valore di celebrazione del de­cennale della Costituzione italiana. Il sabato precedente partigiani giunti da tutto il paese, guidati da Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Umberto Terracini, Domenico Chiaramello e Riccardo Lombardi, sfilarono in via Tasso, a Porta San Paolo e alle Fosse Ardeatine deponendo corone di fiori; in serata la delegazione fu ricevuta dal presidente della Repubblica Gronchi. L’indomani, partito dal punto di ritrovo presso il Colosseo, il corteo delle rappresentanze militari e civili raggiunse piazza Venezia, dove, presso l’Altare della Patria, il presidente del Consiglio, Zoli, lesse il messaggio del capo dello Stato e pronunciò in seguito il proprio discorso in rappresentanza del governo[41]. La cerimonia prevedeva come atto finale la consegna della medaglia d’oro alla bandiera del Cvl, ma fu turbata dall’iniziativa di un deputato del Msi, Giovanni De Totto che, slanciatosi sulle scale del Vittoriano insieme a un gruppetto di attivisti fascisti, cominciò a inneggiare alla Repubblica sociale. La reazione del pubblico non si fece attendere e il parlamentare fascista fu sommerso da una gragnuola di colpi che gli causarono una contusione all’occhio destro e la frattura dell’osso nasale, danni limitati dal pronto intervento del questore della Camera, l’onorevole Chiaramello. Anche gli altri attivisti neofascisti, tutti molto giovani, furono sottratti alla collera della folla da un gruppo di donne partigiane che li consegnarono alla protezione dei carabinieri. I disordini non finirono all’Altare della Patria, perché un centinaio di aderenti al movimento giovanile del Msi, ritiratisi nella sede provinciale del partito in corso Vittorio, esposero uno striscione provocatorio in cui si attaccavano Dc e Pci e si qualificava il decennale della Costituzione come la celebrazione di “10 anni di prostituzione”, mentre il segretario politico provinciale del partito neofascista, Caradonna, servendosi di un amplificatore, teneva un discorso antipartigiano. I destinatari della provocazione erano coloro che tornavano dalla cerimonia; verso le 12 un gruppo di giovani neofascisti tentò di uscire dalla sede per scontrarsi con i passanti, ma fu bloccato dalle forze dell’ordine[42].

Questo era il clima rovente della fine degli anni cinquanta, in cui il Msi ebbe una centralità politica molto forte, giocata nelle aule parlamentari ma anche nelle occasioni pubbliche con evidenti obiettivi provocatori nei confronti delle istituzioni democratiche. Del resto il governo Zoli, il 20 maggio 1957, aveva ottenuto la maggioranza al Senato e successivamente, in giugno, alla Camera con l’appoggio dei parlamentari democristiani, monarchici e missini, decisivi questi ultimi per raggiungere il quorum necessario nell’assemblea di Montecitorio. Il presidente del Consiglio, pur avendo presentato al presidente Gronchi le proprie dimissioni ritenendo inaccettabile il sostegno fascista al proprio governo, finì per restare in carica, dal momento che il capo dello Stato, esperiti un paio di infruttuosi tentativi di formare un nuovo esecutivo, respinse l’iniziativa di Zoli.

Tornando alla storia de “Il Monte Rosa è sceso a Milano”, occorre prendere atto che l’obiettivo di avere pronta la pubblicazione in occasione della manifestazione fu raggiunto, nonostante la trasformazione dell’evento in una cerimonia uf­ficiale e non solo di ambienti partigia­ni, come era stata ideata in un primo tempo.

La stessa domenica ne “l’Espresso” usciva una recensione di Leo Valiani, annunciata il 12 febbraio in una missiva a Franco Venturi[43], con il titolo “Con Moscatelli in Valsesia. Leggenda e realtà dei garibaldini”[44]. Valiani, che, come abbiamo visto, aveva avuto qualche parte nel progetto editoriale e aveva condiviso con Moscatelli e Secchia l’esperienza della detenzione nel carcere fascista di Civitavecchia, partiva ricordando che la leggenda dei garibaldini, «quella di formazioni la cui direttiva costante è di lanciarsi all’assalto», apparteneva in realtà più alla concezione mazziniana, riconoscendo invece nella pratica a Garibaldi, accanto alla fantasia creatrice, una capacità militare che non si limitava solo alla fase offensiva, ma anche all’abilità di dirigere una guerra di movimento in cui, all’occorrenza, bisognava ritirarsi, ma­novrare, se necessario imboscarsi. Tale secondo Valiani fu il percorso della Resistenza, ispirata nella prima fase dall’emulazione della leggenda garibal­dina e via via convertitasi a una gestione più realistica a attenta a «incidere sulla realtà, agendo al momento buono, nel modo giusto, con forze non disperatamente inadeguate», passando cioè, come scrive, «dalla poesia alla prosa». Seguiva un ampio riferimento alla figura del capitano Beltrami e alla sua fine che, «nonostante le sue innate attitudini al comando, provato in audaci imprese», avvenne in un episodio in cui, insieme a Gaspare Pajetta, «cadde in un tranello dei nazifascisti». Una morte evitabile, lascia intendere Valiani, se avesse agito con maggiore prudenza, da cui «le formazioni garibaldine trassero le debite lezioni». Esposta questa teoria, storicizzata­ con il riferimento a Beltrami, Valiani presentò l’opera di Moscatelli e Secchia come «la storia militare più ampia e minu­ziosa del movimento italiano di liberazione», precisando: «[…] che i giudizi politici del libro siano conformi alla fede politica degli autori, è naturale. Alcuni di essi non possono essere condivisi da chi non sia comunista. Altri, riguardanti il programma sociale della Resistenza, maturato nella precedente lun­ga lotta antifascista, il nesso fra gli scioperi generali del 1943-’44 e la battaglia contro i tedeschi, il dovere morale politico di chiudere il tragico capitolo del nazifascismo con l’insurrezione popolare, possono dirsi patrimonio comune dei partiti repubblicani del Cln, indipendentemente dai loro successivi inevitabili dissensi»[45].

La pubblicazione della recensione di Valiani suscitò la reazione polemica di Mario Bonfantini e di Ercole Ferrario[46]. A determinare tale reazione fu il passaggio in cui Valiani scriveva: «Sotto la guida del loro valoroso animatore, Cino Moscatelli, e d’alcuni ufficiali effettivi che vi si erano affiancati, precisamente perché quest’operaio comunista aveva il senso dell’organizzazione militare […] le brigate garibaldine nella Valsesia raggiunsero un’efficienza imponente», aggiungendo che la loro storia, comprendeva «le battaglie dell’Ossolano nel settembre ’44, culminate nella sfortunata, ma non per questo meno significativa vicenda della libera repubblica di Domodossola, e la trionfale avanzata su Milano nell’aprile successivo».

Si riapriva un’antica polemica, che indusse Bonfantini, ministro nel governo della repubblica dell’Ossola a scrivere: «Non so (non avendo ancora visto il volume) che cosa abbia trovato l’amico Valiani nel libro di Moscatelli e Secchia da lui recensito, per dedurne tale erronea affermazione. La verità sulla repubblica dell’Ossola, già ampiamente documentata nello studio di Anita Azzari “L’Ossola nella resistenza italiana” è diversa. L’Ossola fu liberata nell’agosto settembre 1944 dalle brigate partigiane Valtoce e Valdossola, secondo un piano concordato col commissario generale delle brigate Matteotti Alta Italia. La prima di queste formazioni passò poi sotto il patronato della Dc. La seconda restò indipendente pur mantenendo stretti rapporti col partito socialista. Furono soltanto queste due brigate ad ingaggiare e vincere l’8 settembre la battaglia di Piedimulera, la quale aprì loro le porte di Domodossola, dove entrarono il 10 settembre. Furono appoggiati in questa loro azione dalle formazioni autonome “Piave”, “Battisti” e “Perotti”, a nord, e dalla formazione matteottiana “Filippo Beltrami”, a sud. In quanto alla formazione del governo dell’Ossola, toccò a me stesso, la mattina di quel 10 settembre, occupare il palazzo del municipio di Domodossola assumendo i poteri civili», aggiungendo inoltre che «Moscatelli fece una visita a Domodossola solo parecchi giorni dopo e fu in tale occasione che favorì l’incremento delle formazioni garibaldine dell’Ossolano, collegandole con le formazioni garibaldine della Valsesia. Queste formazioni, in verità, restarono a rappresentare quasi da sole la Resistenza nella valle nell’ultimo periodo, dal febbraio all’aprile 1945, ma a quell’epoca la repubblica dell’Ossola era ormai scomparsa da un pezzo». A supporto della tesi di Bonfantini interveniva anche Ercole Ferrario, comandante della divisione “Valdossola”[47], che confermava: «Le brigate garibaldine, comandate da Moscatelli, non parteciparono che indirettamente alle operazioni che portarono all’occupazione della Valdossola. Infatti la Valdossola fu liberata dalle formazioni partigiane “Valdossola”, guidate dai comandanti Dionigi Superti e Marco di Dio, morto nell’ottobre del ’44 a Finero combattendo contro i fascisti. Contemporaneamente in Valvigezzo e lungo la costa del Lago Maggiore le formazioni autonome “Piave”, “Battisti” e “Perotti” scacciarono dalla Valcannobina e dalla Valvigezzo i presidi fascisti. Il piano operativo era stato preparato in comune accordo dai comandanti delle formazioni citate, e dal commissario generale delle brigate “Matteotti”. Mario Bonfantini, reduce da una romanzesca fuga dal convoglio che da Fossoli avrebbe dovuto trasportarlo in un campo di concentramento tedesco, raggiunse la formazione “Valdossola” verso la fine d’agosto del 1944, con l’incarico di proclamare a Domodossola il primo governo democratico dell’Alta Italia. Bonfantini partecipò, ai miei ordini, all’ultimo decisivo combattimento di Piedimulera». La replica degli autori giunse puntuale sul numero successivo, in forma di lettera intitolata “Valdossola” ed ebbe toni risentiti, ma urbani: «Abbiamo letto sul numero 9 dell’Espresso una lettera del dottor Mario Bonfantini che, pur affermando di non averlo ancora letto, entra in polemica col nostro libro “Il Monte Ro­sa è sceso a Milano”, circa la libera­zione di Domodossola nel settembre 1944. È verissimo che sulla repubblica dell’Ossola vi sono già altri studi e non soltanto quello di Anita Azzari, ma quelli di Marchetti, di Valiani, di Viglio, di Malvestiti, di Gian Carlo Pajetta, del colonnello Curreno, di Maddalena, oltre ai saggi e documenti pubblicati sulla rivista “Il movimento di liberazione in Italia”. Tutti li abbiamo doverosamente citati e ne abbiamo tenuto gran conto a testimonianza della nostra narrazione, tanto più che in essi non è ignorato il grande contributo delle formazioni garibaldine nella liberazione dell’Ossola. Non vediamo perché agli studi già pubblicati non poteva aggiungersi anche il nostro. La repubblica di Domodossola non era feudo di nessuno. Il suo governo è stato un governo unitario. Nel nostro libro mettiamo nel dovuto rilievo i meriti delle divisioni “Valtoce”, “Valdossola”, “Piave”, “Beltrami” e dei loro valorosi comandanti; ma la liberazione di Domodossola non fu il risultato d’una sola battaglia, ma di molteplici combattimenti ai quali contribuirono molte altre formazioni. Senza la liberazione delle valli Anzasca, Antrona, Bognanco, Divedro, Devero, Antigorio, Formazza, Cannobina e Vigezzo non si potrebbe comprendere la battaglia di Piedimulera, l’accerchiamento e la liberazione di Domodossola».

Anche Paolo Spriano dedicò le sue attenzioni all’opera di Secchia e Moscatelli, con rilievi critici agrodolci[48]. La sua recensione esordiva attribuendo il carattere di straordinarietà al libro, ma subito dopo ne metteva in evidenza limiti e difetti, dalla «sciattezza della forma» allo «scrivere ora troppo secco ora sovrabbondante di pause didascaliche», alla precisione spinta «sino all’ossessione cronachistica nella narrazione dei fatti, troppo preoccupato di spiegare tutto, e trarne ogni insegnamento possibile». Esaurita in breve la parte critica negativa, Spriano per rappresentare la natura complessa dell’opera citava “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino e la “Storia della Resistenza italiana” di Battaglia: «Del primo, io ricordo l’amarezza che suscitò in un vecchio dirigente comunista, che aveva dovuto trascorrere in un lontano esilio, in America, il periodo partigiano e che, tornato in patria, cercò in quel romanzo la testimonianza dell’epopea che aveva immaginato. Ma come, erano quelli i partigiani? Quella masnada di “irregolari”, quella gente stramba e un po’ matta? No, non ci voleva credere. Della Storia di Battaglia io rammento invece quello che si diceva con un amico partigiano: che era sì una storia ricca e completa, ma che a noi lo sembrava anche troppo: tutto vi appariva tanto logico e consequenziale, tanto rifinito quanto a noi, dal piccolissimo angolo visuale di un distaccamento e di una vallata, era sembrato caotico, spesso illogico, casuale». Nel libro di Secchia e Moscatelli, sosteneva Spriano, «c’è un po’ dell’una materia e un po’ dell’altra, ma non perché sia una specie di impossibile giusto mezzo», quanto per il fatto che la realtà rappresentata era «di giorno in giorno soggetta a mutamenti improvvisi, creata da uomini diversissimi uno dall’altro, eppure dominata da uno spirito comune, da un’organizzazione, da una somma crescente di esperienza, dal fatto, soprattutto, che si è in una guerra spietata e tremenda». Anche Spriano si soffermò sugli elementi di carattere militare, a proposito dei quali il libro riusciva a dimostrare «che capolavoro fu la guerra partigiana dal punto di vista della tecnica, della tattica e della strategia dei combattenti per bande», auspicandone l’adozione nelle accademie militari, soprattutto per l’attenzione minuziosa nel vaglio critico e nel giudizio crudo a proposito del comportamento di alcuni comandanti, come Attilio Musati[49]. Nella seconda parte della recensione Spriano rilevava «l’estrema varietà delle forme di lotta, l’adattabilità ad essa dei partigiani, la ricchezza di iniziative». Il giudizio non riguardava più il libro ma si era trasformato in un elogio della Resistenza locale, a proposito della quale parlava di «organizzazione perfetta». Concludeva Spriano: «Saggiamente, i due autori hanno creduto opportuno, perché ciò non sia davvero dimenticato, darci questa straord­inaria testimonianza; amaramente e fieramente “in questi tristi tempi” hanno concluso la loro fatica scrivendo che i partigiani si sono battuti per un’Italia del popolo, lontana dall’essere realtà».

“Il Monte Rosa è sceso a Milano” fu oggetto di un’approfondita e ampia recensione di Raimondo Luraghi, pubblicata ne “Il movimento di liberazione in Italia”, la rassegna dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, che iniziò le pubblicazioni nel 1948[50]. In apertura Luraghi mise in evidenza le figure del capitano Beltrami e di Cino Moscatelli quali iniziatori della Resistenza, sottolineando che i loro nomi furono i primi a superare per fama i confini regionali. Il lavoro era presentato in prima battuta come l’elaborazione delle «memorie partigiane di Moscatelli», mentre il contributo di Secchia veniva giudicato «non delimitabile, pur essendo cospicuo», ma di valore documentario «minore, non trattandosi, salvo forse qualche eccezione, di testimonianza di prima mano». Seguiva una sintetica esposizione dei contenuti, che rispettava lo schema cronologico. Terminata questa parte, Luraghi esaltava l’importanza del libro per «la copia straordinaria di notizie», per il valore di testimonianza diretta di Moscatelli «animatore e capo indiscusso del garibaldinismo novarese e valsesiano», per la consultazione minuziosa e paziente di «capi e gregari del garibaldinismo biellese e valsesiano», anche se «manca una indicazione sistematica del numero, della qualità e dei limiti di tempo e di spazio delle varie testimonianze», fattore che «ostacola un rigoroso vaglio critico» e «occulta le fonti». Luraghi proseguiva sottolineando la pigrizia di capi e gregari del movimento partigiano piemontese nello scrivere le proprie memorie, che era all’origine del «problema di una documentazione del grandioso contributo garibaldino alla Resistenza piemontese» e auspicando che l’esempio del volume di Secchia e Moscatelli potesse essere seguito.

Il recensore affrontava successivamente alcune questioni delicate e controverse, in termini che non avrebbero mancato di suscitare la reazione di Secchia: Luraghi, infatti, affermava che l’origine della Resistenza «sorse eminentemente dal basso, per iniziativa di uomini oscuri, i quali entravano allora nella milizia antifascista, o avevano in essa ricoperto negli anni precedenti funzioni assai modeste», come lo stesso Moscatelli; i trascorsi antifascisti non furono determinanti quanto «la prontezza, l’energia nel comprendere la volontà di lotta armata del popolo». L’esercito partigiano, proseguiva Luraghi, «non sorse in base ad un nuovo piano prestabilito, ma spontaneamente, per iniziativa rivoluzionaria del popolo», così come «la prima impalcatura» di tale esercito fu data «essenzialmente da una falange di ufficiali dell’esercito accorsi spontaneamente alla lotta partigiana» e citava Eraldo Gastone, Arrigo Gruppi, Domenico Marchisio, Pietro Germano, Alberto e Carlo Buratti, Gino Grassi, Colombo, Alessandro Cavalchini Garofalo, Morelli, Caracciolo, Ortona, Bruno Salza, Gil­berto Bertozzi, Mario Muneghina, il «leggendario Musati tenente di aviazione» (confondendo probabilmente Attilio e Clemente Musati), Giovanni Crestani, Ettore Cesa, Maffei, Gianni Gastaldi. Un’altra questione rilevante per Luraghi era il contributo che il libro di Secchia e Moscatelli forniva per la liquidazione della tesi secondo cui l’insurrezione del 25 aprile non avrebbe avuto parte determinante nel provocare la resa delle Forze armate germaniche, dal momento che «il formidabile esercito tedesco d’Italia stava ormai piegando sotto i colpi certamente delle armate angloamericane che avanzavano vittoriose, ma anche dell’insurrezione italiana».

Nell’ultima parte della recensione Luraghi si soffermava su alcuni difetti del li­bro, così individuati: «[…] la mancanza di cartine e carte topografiche che rende fa­ticosissimo seguire le operazioni e le vicende», «le disquisizioni di carattere “teorico” spesso ovvie, talora francamente fuori luogo, che potevano essere evitate con vantaggio generale dell’ope­ra», «l’affer­mazione secondo cui al sorgere della guerriglia italiana avrebbe contribuito es­senzialmente l’esempio dell’Unione So­vietica». Per Luraghi citare Clausewitz­ o Mao-Tse Tung, «di cui i partigiani ignoravano perfino l’esistenza», frenava la spigliatezza e la vivacità del libro, mentre i reali esempi di guerriglia cui potevano riferirsi i partigiani italiani erano quelli della Resistenza jugoslava e francese.

Vi erano, come detto, elementi suffi­cienti per indurre Secchia a inviare una lettera che fu pubblicata parecchio tempo dopo ma con ampio risalto, in cui confutava passo per passo le affermazioni di Luraghi[51] e chiariva di non avere mai risposto d’abitudine alle recensioni, «né alle molte elogiative, né a quelle critiche»; l’eccezione, nel caso della recensione di Luraghi, derivava dalla convinzione «che nessun attivista della Resistenza e nessuno dei partiti che la organizzarono e diressero possa accettare l’impostazione e l’interpretazione che R. Luraghi dà alla Resistenza stessa». Secchia contestava a Luraghi la presentazione della Resistenza «come fenomeno spontaneo, la contrapposizione tra popolo e partiti, la massa agli apparati», lo accusava di «svalutare o sminuire l’opera e la funzione assolta dai partiti antifascisti nell’organizzare e dirigere la Resistenza» e sosteneva che «prescindere dalle istanze politiche e sociali che hanno mosso le masse popolari significa fare la storia non dei fatti, ma delle proprie concezioni, delle proprie idee, anzi dei propri pregiudizi». A Luraghi, che nella recensione aveva giudicato il ruolo di Secchia di minore valore storiografico rispetto a quello di Moscatelli, il dirigente comunista biellese non le mandava certo a dire, ma sarebbe fuorviante classificare la reazione di Secchia come una questione personale.

La nota, molto prolissa come nello stile del politico, conteneva importanti af­fermazioni, che sarebbero a lungo rimaste argomenti di confronto, scontro e discussione fra gli storici antifascisti, a par­tire dall’interpretazione «della Guerra di Liberazione come una guerra che durò venticinque anni, dal 1920 al 1945», in cui «la sfida lanciata dagli squadristi del 1920 fu raccolta e definitivamente stroncata dai partigiani nel 1945». Il tasto su cui batteva Secchia riguardava in parti­colare «la leggenda che la Resistenza sia stata un grande fenomeno spontaneo e che il movimento partigiano non fu organizzato da nessuno». Per Secchia «sono gli uomini, sono le masse che fanno­ la storia, e la fanno nelle fabbriche, nelle città, nei villaggi, in ogni luogo di lavoro e di lotta, la fanno anche sui campi di battaglia. Ma senza i partiti di avanguardia, senza le organizzazioni diri­genti, senza la parte più cosciente, la spinta e l’energia delle masse andrebbe spesso dispersa o non avrebbe modo di esprimersi in un movimento organico». In questo modo riconduceva l’ampiezza e lo sviluppo della Resistenza fra il 1943 e il 1945 alla lotta antifascista e anche alla guerra di Spagna, cui parteciparono «uomini degli apparati», socialisti, comu­ni­sti, repubblicani e tanti dirigenti antifascisti. Dopo l’8 settembre, affermava Secchia, «dovunque vi fu una resistenza di rilievo o delle iniziative immediate là, si può essere certi, esisteva un’organizzazione di partiti antifascisti». Quanto all’affermazione di Luraghi secondo cui la Resistenza sorse dal basso e fu guidata­ da uomini oscuri, Secchia ribatteva che «un partito non sarebbe tale se fosse composto soltanto da un gruppo di dirigenti» e chiede: «Cosa mai dirigerebbero se non avessero seguaci e organizzazioni periferiche, capaci di agire, muoversi­ tempestivamente, dotate di iniziativa propria?».

Le affermazioni di Secchia erano seguite da riferimenti storici a quanto accadde nelle varie aree del Piemonte e anche fuori dai confini regionali, mirati a ribaltare l’interpretazione del primato dello spontaneismo sull’organizzazione: «La guerra partigiana, abbiamo spesso scritto e ripetuto, è fatta di mille episodi, è ricca di iniziativa individuale, è guerra di popolo, ma anche l’eroismo del singolo, se lo vogliamo comprendere e spiegare, lo dobbiamo inquadrare in quella situazione e in quell’organizzazione di cui il singolo si trovò a far parte. Se si vuol fare della storia e non del puro verbalismo, non si può parlare come fa R. Luraghi, di “un esercito sorto spontanea­mente”, di un movimento che “andava avanti impetuoso formandosi i suoi quadri al di fuori di qualsiasi apparato”. Non si può affermare che “inizialmente mancavano del tutto gli uomini all’altezza di inquadrare e di comandare”. Certo sono stati molti i quadri emersi e forgiatisi durante la guerra partigiana, ma i più, la grande maggioranza, erano quadri politici e militari».

Secchia concluse la nota, dopo avere a lungo trattato della formazione che ebbero gli antifascisti in carcere, a Civitavecchia e Ventotene, scrivendo: «Nessuno più di noi ha messo in rilievo l’apporto, il contributo alla Resistenza di civili e militari, di ogni classe e ceto sociale, il moltiplicarsi degli episodi di eroismo di tanti uomini semplici e oscuri, la ricchezza e la forza dell’iniziativa popolare, l’azione decisiva delle masse. Ma tutto questo non cambia per nulla la realtà, e la realtà è che senza una chiara coscienza ed una profonda spinta ideale, senza l’iniziativa, l’azione e l’esempio delle forze d’avanguardia dell’antifascismo e dei lavoratori, i primi nuclei partigiani non sarebbero mai sorti, né si sarebbero mai trasformati in esercito di popolo. La Resistenza è stata grandiosa e non c’è alcun bisogno di deformarla con rappresentazioni fantastiche e irreali».

Il Premio Prato con Primo Levi

Nel frattempo il libro aveva concorso all’edizione 1958 del Premio letterario Prato[52], aggiudicandosi la vittoria ex aequo con “L’entusiasta” di Giovanni Pirelli, dopo «un’ampia vivace serena discussione» in cui la giuria, presieduta da Piero Jahier, con Lemmo Vannini segretario, e composta da Sibilla Aleramo, Roberto Battaglia, Ugo Cantini, Armando Meoni, Silvio Micheli, Arturo Carlo Jemolo, Raffaello Ramat, Diego Valeri, deliberò di suddividere il premio in due quote di 500.000 lire ciascuna, essendosi profilate due posizioni inconciliabili tra i sostenitori della narrativa e quelli della saggistica, impasse risolta salomonicamente.

La relazione della giuria, constatando che «sempre più vivo, meditato e potente è andato facendosi nella decima annata l’apporto che studiosi, scrittori e critici italiani hanno dato alla letteratura della Resistenza, deve esprimere il proprio rammarico per essere stata costretta, in rigido ossequio alle norme sancite dal bando del Comune di Prato, a non prendere in considerazione agli effetti del Premio opere di alto valore artistico e storico apparse durante l’annata, ad una delle quali, per unanime consenso, il Premio sarebbe stato attribuito. Tali opere sono di seguito elencate: si trattava de “La partigiana nuda”, raccolta di poesie in vernacolo veneto di Egidio Meneghetti, “Ricorda cosa ti ha fatto Amalek”, di Alberto Nirenstajn, dedicato alla rivolta degli ebrei polacchi del ghetto di Varsavia e “Se questo è un uomo”, di Primo Levi, a proposito del quale la commissione espresse il desiderio al Comune di Prato che fosse segnalato in modo speciale, con la concessione di una medaglia. Si legge nel verbale: «È questo un documento di inesprimibile angoscia macerata in un’anima grande fino ad estrarne un motivo di catarsi e di espiazione per tutta una generazione: la nostra». L’opera veniva accostata a “Dal sepolcro dei vivi” di Dostoevskij, meglio nota oggi con il titolo “Memorie dalla casa dei morti”.

La giuria aveva selezionato, per l’ultima rosa delle opere candidate al premio, nella sezione della saggistica “Il movimento operaio torinese durante la resistenza” di Raimondo Luraghi e “Storia dell’Avanti!” di Gaetano Arfè, oltre al libro di Secchia e Moscatelli; nella sezione della narrativa concorrevano, oltre all’opera di Pirelli, “Viaggio col padre” di Carlo Castellaneta e “Le rose del ventennio” di Giancarlo Fusco.

La sera del 7 settembre 1958 i tre vincitori furono festeggiati nella sala del Consiglio del palazzo comunale di Prato. L’attribuzione del premio all’opera di Pietro Secchia e Cino Moscatelli fu motivata in quanto «fornisce un quadro di efficacissima completezza, sotto l’aspetto sia militare sia politico-sociale e psicologico, della Resistenza in una delle Regioni più importanti del movimento di liberazione, risalendo fino alle più remote e illustri origini della “guerra per bande”. La particolareggiata cronaca degli avvenimenti partigiani non solo viene amorosamente e pazientemente­ ricostrui­ta, ma diventa oggetto d’un pe­netrante esame critico che ne estrae i prin­cipi teorici essenziali, mai disgiungendoli dalla realtà in sviluppo, e la fa assurgere a disegno esemplare della Resistenza italiana».

Qualche anno dopo

L’eco della pubblicazione era ancora vivo nel 1965, ma la sua intensità si era molto attenuata, anche in considerazione del fatto che Secchia aveva lavorato con Filippo Frassati a una “Storia della Resistenza” pubblicata da Editori Riuniti, che vide la luce nel 1965, lo stesso anno in cui Franco Antonicelli, rileggendo le caratteristiche de “Il Monte Rosa è sceso a Milano”, lo qualificava come «il primo esame storico di grosso impegno di parte comunista, per quel che riguarda il Piemonte» e vi individuava «due tesi politiche sostanzialmente giuste, anche se possono apparire un po’ troppo generalizzanti, e certamente non nuove, ma come controllate sulla realtà, e cioè che alla Resistenza la classe operaia diede un contributo decisivo ponendosi alla testa della lotta» e «che la Resistenza non fu una guerra senza programma, senza bandiera, ma anzi un programma l’ebbe e fu quello della creazione di un regime politico e sociale che realizzasse profonde riforme sociali»[53].

Le polemiche tuttavia non erano del tutto sopite. Qualcuno osservò che gli autori non avevano ringraziato quanti avevano collaborato alla stesura del volume: Secchia e Moscatelli aggiunsero perciò nella riedizione del 1972 un testo in coda alla prefazione in cui precisavano che il rilievo non era esatto, avendo accomunato tutti nel ringraziamento collettivo che si trovava a pagina 14 della prima edizione del volume. L’occasione di una seconda edizione dava modo di esplicitare i nominativi di tutti i collaboratori distinti per territorio biellese, vercellese, valdostano, valsesiano e ossolano e di colmare una lacuna che, presumibilmente, aveva suscitato qualche risentimento. Fra tutti i collaboratori una particolare citazione riguardò Anello Poma, che, si scrive, «ci aveva fornito molte informazioni e le sue note sulla Resistenza biellese», note che poi il dirigente partigiano biellese avrebbe dovuto rielaborare linguisticamente per farle confluire, senza rischi di plagio, nella storia della Resistenza biellese scritta con Gianni Perona[54].

Conclusioni

Siamo giunti al termine della ricostruzione della storia de “Il Monte Rosa è sceso a Milano”. Forse le notizie riferite meriterebbero una migliore sistemazione, una rielaborazione critica più profonda e soprattutto una più robusta contestualizzazione nella storia repubblicana della seconda metà degli anni cinquanta, il cui quadro politico appare molto tormentato e segnato dal ritorno del fascismo, sia pure nella versione parlamentare del partito di Almirante, a sostegno del governo. La stagione dei processi al­la Resistenza, culminata nell’affaire Moranino con la conferma della condanna all’ergastolo nel processo in Corte d’Assise chiuso nel 1957, aveva lasciato conseguenze importanti e altre ne avrebbe ancora avute; i voti dei parlamentari del Msi divennero decisivi per garantire l’appoggio esterno al governo monocolore democristiano guidato da Tambroni dal 26 marzo al 27 luglio 1960.

Ma sarebbe necessaria anche una più significativa contestualizzazione nel pa­­norama culturale straordinariamente vivo di quel tempo, in cui poteva accadere che la parte del mondo partigiano e comunista rappresentata da Secchia e Moscatelli trovasse porte aperte presso un editore come Einaudi proprio nel momento in cui la loro parabola politica era in fase discendente e in netto contrasto con la linea del partito.

Sul piano della ricerca, i limiti tempo­rali e le urgenze che quasi sempre affliggono gli studiosi mi hanno indotto a restringere il campo d’indagine alla pur copiosa documentazione raccolta da Cino Moscatelli e alla pubblicazione in forma diaristica delle discussioni che animavano lo straordinario ambiente del­la casa editrice Einaudi in quegli anni che videro eventi epocali e laceranti, come i fatti di Ungheria del 1956.

Affido ai lettori della rivista questo lavoro, sperando di destare qualche nuova riflessione intorno a un’opera che, grazie alla testarda tenacia dei suoi autori e nonostante l’ilarità fra alcuni membri del più autorevole summit intellettuale che agisse al tempo, ha mantenuto un titolo che ormai è nel pantheon della memoria resistenziale italiana.


Note

[1] Giacomo Verri (Borgosesia, 1978) è autore di libri a tema resistenziale come Partigiano Inverno, finalista al Premio Calvino nel 2011, e Racconti partigiani del 2015. Ha collaborato a diverse riviste letterarie, tra cui “L’Indice”, e alle pagine culturali di quotidiani come “L’Unità”. Il testo da cui sono tratte le citazioni presenti nel paragrafo si trova all’indirizzo http://librisenzacarta.it/2011/11/22/vecchi-libri-il-monte-rosa-e-sceso-a-milano-di-secchia-e-moscatelli/.

[2] La stampa del volume terminò il 2 gennaio 1958 presso lo Stabilimento Grafico La Stella Alpina in Novara, che faceva parte del sistema dell’Unione cooperative Garibaldi.

[3] L’editore PGreco, specializzato nella ristampa di classici introvabili, ha pubblicato un’edizione anastatica in cui utilizza per la copertina e la controcopertina, senza autorizzazione, un’immagine prodotta da Giorgio e Luca Perrone per la Storia della Resistenza in Valsesia a fumetti, edita dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia nel 2012.

[4] Con lo pseudonimo “Marra”, Giancarlo Pajetta “Nullo” aveva pubblicato Con i garibaldini in Valsesia, Roma, Società editrice L’Unità, 1965. Si tratta di un piccolo volume di 36 pagine, in formato 18×12 cm; Il Monte Rosa è sceso a Milano, nella prima edizione del 1958, consta invece di 655 pagine, in formato 22×16 cm.

[5] Archivio dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia (d’ora in poi Isrsc Bi-Vc), fondo Moscatelli, b. 36, fasc. 1. La lettera è su carta intestata della Direzione del Pci e a firma “Pietro”. Nella prima parte Secchia comunica a Moscatelli che ha proposto il suo nome per la carica di sottosegretario all’Assistenza postbellica nel governo Parri, che fu in carica dal 21 giugno 1945 al 10 dicembre 1945 (il ministro titolare del dicastero era Emilio Lussu), senza risultato perché la direzione del partito si è espressa per la prosecuzione del mandato di sindaco di Novara nominato dal Cln. Moscatelli fu successivamente nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega all’assistenza ai reduci di guerra nel III governo De Gasperi, che durò dal 2 febbraio al 1 giugno 1947.

[6] Isrsc Bi-Vc, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, fasc. Corrispondenza Secchia-Moscatelli-Einaudi. La lettera presenta una data apposta a mano, 1 agosto 1952, e la sigla “S” maiuscola puntata.

[7] Leo Valiani – Franco Venturi, Lettere 1943-1979, a cura di Edoardo Tortarolo, Firenze, La Nuova Italia, 1999, p. 186.

[8] Idem, p. 188.

[9] Libera citazione da Marco Albeltaro, Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte, Roma-Bari, Laterza, 2014, incipit del cap. VII: Il caso “S”, p. 160.

[10] Idem, p. 163.

[11] Isrsc Bi-Vc, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit. La lettera ha la data del 7 febbraio 1957.

[12] Daniele Ponchiroli, La parabola dello Sputnik. Diario 1956-1958, a cura di Tommaso Munari, Pisa, Edizioni della Normale, 2017, p. 70. Ponchiroli (Viadana, 14 giugno 1924 – Parma, 29 maggio 1979) fece parte della casa editrice Einaudi dal 1951.

[13] Isrsc Bi-Vc, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit., lettera di Giulio Einaudi a Pietro Secchia del 1 marzo 1957.

[14] Idem, copia del contratto del 5 aprile 1957.

[15] Idem, lettera di Pietro Secchia a Cino Moscatelli del 16 aprile 1957.

[16] Idem, lettera di Pietro Secchia a Cino Moscatelli del 27 maggio 1957.

[17] Maria Leoni, moglie di Cino Moscatelli, sposata il 13 febbraio 1938; dal matrimonio nacquero le figlie Carla e Nadia, che nella corrispondenza Secchia chiama “pite”, piccole.

[18] Isrsc Bi-Vc, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit., lettera di Pietro Secchia a Giulio Einaudi del 27 maggio 1957.

[19] Idem, lettera di Pietro Secchia a Cino Moscatelli del 16 agosto 1957.

[20] D. Ponchiroli, op. cit., p. 126.

[21] Isrsc Bi-Vc, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit., lettera di Cino Moscatelli a Pietro Secchia del 21 agosto 1957.

[22] Idem, lettera di Pietro Secchia a Cino Moscatelli del 30 agosto 1957.

[23] Idem, lettera di Italo Calvino a Pietro Secchia del 5 settembre 1957.

[24] D. Ponchiroli, op. cit., p. 145.

[25] Isrsc Bi-Vc, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit., lettera di Italo Calvino a Cino Moscatelli.

[26] D. Ponchiroli, op. cit., p. 159. La riunione in cui se ne dà notizia è del 9 ottobre 1957.

[27] Isrsc Bi-Vc, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit., lettera di Pietro Secchia a Cino Moscatelli dell’11 ottobre 1957.

[28] Idem, lettera di Cino Moscatelli a Giulio Einaudi del 16 ottobre 1957.

[29] D. Ponchiroli, op. cit., pp. 165-166.

[30] Isrsc Bi-Vc, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit., lettera di Pietro Secchia a Cino Moscatelli del 18 ottobre 1957, in cui si trascrive la comunicazione di Italo Calvino del 17 ottobre 1957.

[31] Ibidem.

[32] In realtà, pur con la riduzione del carattere, il testo della nota andava da pagina 65 a pagina 70.

[33] Idem, lettera di Giulio Einaudi a Cino Moscatelli del 21 ottobre 1957.

[34] Un garibaldino scampato alla fucilazione rievoca il martirio dei 43 di Fondotoce, articolo a firma Pietro Secchia e Cino Moscatelli, in “L’Unità”, 1 dicembre 1957, p. 3.

[35] D. Ponchiroli, op. cit., p. 258.

[36] “Il Giorno”, Il Monte Rosa è sceso a Milano, 29 gennaio 1958.

[37] Il Monte Rosa è sceso a Milano. Pagine di storia valsesiana, in “Corriere Valsesiano”, 31 gennaio 1958. Il testo dell’articolo è il seguente: «Una folata di vento patriottico, proprio come quindici anni fa, torna ad invadere la feconda pianura: è il vento del Monte Rosa, delle nostre montagne, dei nostri abeti, delle nostre chiare acque, che Moscatelli e Secchia hanno con vena facile, piana, generosa diffuso in un arduo lavoro di narrativa partigiana: Il Monte Rosa è sceso a Milano […] Le indagini che nell’opera di Moscatelli e Secchia sono svolte, colla prefissa intenzione di mettere in evidenza la natura dei fatti d’arme partigiani – coraggio, iniziativa singola, errori ed eroismi nei primi tempi, e poi via via tattica chiara nelle azioni, scuola e successo di ideali – queste indagini che Einaudi, in veste splendida, ha pubblicato, erano veramente attese e necessarie. Ritorna la vita degli “sbandati”, dei primi volontari, dei primi comitati di assistenza e di raccolta, dei primi incontri politici, delle prime conoscenze, del primo sangue, e avanti nella grande avventura, colle sue tragedie immortali, coi suoi eroi e colle sue stragi. Tutti noi siamo in quelle pagine. Ci rivediamo paurosi e coraggiosi, spavaldi e idealisti, ad osare cose più grandi di noi. Rivediamo i nostri ragazzi trascinati come banditi, in catene e portati a morte, le madri piangenti, gli uomini pieni di orgoglio. Nelle pagine di Moscatelli sfilano, coi giornali nei corpetti, le staffette, giovani ragazze senza paura come Maria Luisa Minardi, o minorenni come il piccolo Canova che accetta di morire da uomo. Ci rivediamo tutti nelle pagine di Moscatelli e di Secchia, la Stella Alpina, che si prepara sotto gli occhi dei ribaldi e scivola nelle fabbriche e negli uffici recando l’eco di una lotta dura e implacabile. Passano nomi di amici, nomi di ignoti, nomi che non hanno lettere. Ci siamo tutti. Si rivive la tragedia del nostro popolo, ma colla divisa, lieta, ottimistica, forte del partigiano. Si direbbe che le sue canzoni ci entrino nuovamente nel cuore. Le avevamo quasi dimenticate. La bufera politica aveva turbato molte coscienze. Leggiamoci allora questo Monte Rosa che scende a Milano. Leggiamolo subito. È un racconto piano, facile, ricco di documentazioni – qui è la sua potenza – ed entusiasmante. Non spaventatevi della sua mole: si legge tutto d’un fiato. Proprio come una folata di vento primaverile».

[38] “L’Unità”, 18 febbraio 1958. Il testo integrale dell’articolo è il seguente: «Nella zona dell’arco alpino tra il Piemonte e la Lombardia il movimento partigiano assunse una particolare ampiezza e le brigate garibaldine costituirono un eccezionale modello di organizzazione, di efficienza e di spirito combattivo. Della storia del movimento partigiano in questo settore ci parlano ne II Monte Rosa è sceso a Milano due tra i maggiori dirigenti della guerra di Liberazione, Pietro Secchia e Cino Moscatelli. Nel libro si parla esclusivamente del movimento partigiano di quella zona, ma, proprio per aver ristretto i limiti della loro narrazione, Secchia e Moscatelli hanno potuto dare un quadro particolareggiato della genesi e dello sviluppo del movimento, offrire un materiale ricchissimo di documentazione. L’originalità del libro rispetto ad altre storie del movimento partigiano sta nell’aver dato un particolare rilievo agli aspetti propriamente militari della guerra di liberazione. Risulta evidente dalla narrazione delle varie azioni di guerra come il movimento partigiano abbia saputo elaborare una sua propria strategia, abbia saputo dire una parola nuova che può essere utilmente aggiunta ai vecchi e nuovi trattati di storia militare. Documentario storico, di storia locale e di storia militare in generale, documento politico per la valutazione della Resistenza, per lo studio che gli autori fanno della struttura e dei legami del Movimento partigiano, documento umano per la partecipazione che gli autori dimostrano agli avvenimenti che narrano, questo denso volume merita senz’altro un discorso più lungo di quanto si possa fare in poche righe, che vogliono semplicemente servire di indicazione ai lettori e come annuncio della pubblicazione di una opera che si stima di generale interesse».

[39] Angelo Del Boca, Il tallone su Venezia e la Valsesia in armi. Tre libri sulla Resistenza, in “La Gazzetta del Popolo”, 16 febbraio 1958, p. 3.

[40] Roberto Battaglia, Il Monterosa è sceso a Milano. Un libro sulla Resistenza, in “L’Unità”, 21 febbraio 1958, p. 3.

[41] Il governo presieduto da Adone Zoli rimase in carica dal 20 maggio 1957 al 2 luglio 1958. Zoli, politico democristiano di famiglia originaria di Predappio, aveva aderito alla Resistenza fiorentina nel 1943 ed era sfuggito a una condanna a morte emessa dai tedeschi nei suoi confronti.

[42] Archivio storico de “La Stampa”, informazioni tratte dall’edizione di “Stampa Sera” di lunedì 24 febbraio 1958.

[43] L. Valiani – F. Venturi, op. cit., p. 250.

[44] L. Valiani, Leggenda e realtà dei garibaldini, in “L’Espresso”, 23 febbraio 1958.

[45] Si riporta il testo integrale pubblicato nell’occasione: «La leggenda dei garibaldini è quella di formazioni la cui direttiva costante e di lanciarsi all’assalto, sprezzanti del nemico superiore per numero. In realtà, questa era, se mai, la concezione dei mazziniani, che l’Apostolo incitava a forzare le situazioni, con l’audacia propria di chi è votato al sacrificio. Garibaldi, per quanto avventurosa fosse stata la sua gioventù, era invece, per senno e arte, un genuino comandante militare, che dirigeva i volontari delle battaglie rivoluzionarie, così come un grande generale, dotato di fantasia creatrice, dirige una guerra di movimento, con effetti che devono essere capaci di attaccare, ma anche di ritirarsi, di manovrare, occorrendo di imboscarsi. A voler schematizzare la guerra partigiana contro gli hitleriani, si potrebbe dire che i patrioti cercarono di emulare dapprima, a costo di spaventose perdite, la leggenda di Garibaldi, per apprendere via via la necessità delle virtù pratiche, che avevano permesso a suo tempo a Garibaldi di incidere sulla realtà, agendo al momento buono, nel modo giusto, con forze non disperatamente inadeguate. Fra i primi ad effettuare il passaggio dalla poesia alla prosa furono coloro che, nella Valsesia, in una zona di notevole importanza strategica, costituirono le bande che avevano adottato il nome di “Garibaldi”. La prima leggendaria figura della Resistenza nelle vicine zone di Omegna e della Valdossola, fu Filippo Beltrami, un architetto milanese, che nel momento della massima umiliazione nazionale aveva lanciato la parola, rigorosamente mantenuta, di “la vita per l’Italia”, ed era diventato “il capitano”. Nonostante le sue innate attitudini al comando, provate in audaci imprese, il capitano Beltrami cadde in un tranello dei nazifascisti. Piuttosto che arrendersi, o tentare la fuga, che forse non sarebbe stato impossibile, preferì perire in combattimento contro il nemico soverchiante. Qualche settimana prima della sua gloriosa fine, Beltrami aveva stabilito un accordo di collaborazione con le vicine unità garibaldine. Un esponente di quest’ultime, Gaspare Pajetta, il giovane fratello degli attuali deputati comunisti, partigiani anch’essi, fu incaricato di tenere i collegamenti con Beltrami e trovò la morte accanto a lui. Le formazioni garibaldine trassero le debite lezioni da questa e altrettali esperienze. Sotto la guida del loro valoroso animatore, Cino Moscatelli, e d’alcuni ufficiali effettivi che gli s’erano affiancati, precisamente perché quest’operaio comunista aveva il senso dell’organizzazione militare (al punto che la sua leggenda personale era che non si trattasse di Moscatelli militante politico, ex carcerato, ma d’un suo sosia, ufficiale di carriera, col quale una missione militare inglese l’avrebbe sostituito) le brigate garibaldine nella Valsesia raggiunsero un’efficienza imponente. La loro storia, che comprende le battaglie dell’Ossolano nel settembre ’44, culminate nella sfortunata, ma non per questo meno significativa vicenda della libera repubblica di Domodossola, e la trionfale avanzata su Milano nell’aprile successivo, è ora narrata da Moscatelli stesso, e da Pietro Secchia, il principale organizzatore della lotta clandestina, in un grosso volume, intitolato “Il Monte Rosa è sceso a Milano” (Einaudi editore) che i due autori hanno redatto sulla base di migliaia di documenti. Accanto a “Guerra partigiana” di Livio Bianco, apparsa qualche anno fa, e che documenta le battaglie sostenute nel Cuneese, questa di Secchia e Moscatelli è la storia militare più ampia e minuziosa del movimento italiano di Liberazione. Che i giudizi politici del libro siano conformi alla fede politica degli autori, è naturale. Alcuni di essi non possono essere condivisi da chi non sia comunista. Altri, riguardanti il programma sociale della Resistenza, maturato nella precedente lunga lotta antifascista, il nesso fra gli scioperi generali del 1943-’44 e la battaglia contro i tedeschi, il dovere morale politico di chiudere il tragico capitolo del nazifascismo con l’insurrezione popolare, possono dirsi patrimonio comune dei partiti repubblicani del Cln, indipendentemente dai loro successivi inevitabili dissensi. Se Moscatelli fece il suo tirocinio, nella clandestinità, con Secchia, questi entrò nella cospirazione quando, nell’agosto del 1922, fu licenziato dalla fabbrica di Biella, dove era impiegato, per la sua partecipazione allo sciopero “legalitario”, che la Confederazione del Lavoro e il gruppo parlamentare socialista avevano proclamato, per il ristabilimento delle libertà democratiche, manomesse dai fascisti. “Non c’è classe dirigente” disse il capitano Beltrami, nel ’43, riferendosi al ceto sociale elevato dal quale egli stesso, e alcuni altri, uscivano. Non c’era stata neppure 21 anni prima. Questo spiega molte cose».

[46]  Lettere al direttore, Partigiani in Valdossola, a firma Mario Bonfantini, Napoli, in “L’Espresso”, 2 marzo 1958.

[47] Isrsc Bi-Vc, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit.

[48] Ibidem. Non sono riuscito a risalire alla rivista in cui Spriano pubblicò la recensione, dal momento che non ci sono riferimenti nella copia conservata nel fondo. Unico indizio: compare, a fianco della recensione, la conclusione di un articolo di Dino Buzzati..

[49] Si riporta integralmente il passo dedicato a Musati: «Lo scrupolo arriva fino all’impietosa, seppure nobile, recriminazione su alcuni gesti temerari di comandanti o di interi distaccamenti che costarono la vita ai loro protagonisti; come quella storia, tristissima, del comandante Musati, che, andato ad incontrare la madre vicino a Varallo seppe da lei esservi all’imbocco del paese una postazione tedesca con una “Breda pesante”, e volle, nella notte, con un colpo audacissimo, “calzando pantofole per non fare rumore”, impadronirsi della mitragliatrice, ma cadde ucciso dai mitra dei fascisti. “Musati si era esposto eccessivamente – vogliono commentare Secchia e Moscatelli – in un’azione che comunque non avrebbe dovuto compiere da solo e la cui improvvisazione non offriva alcun margine di sicurezza. Era inammissibile che un comandante abbandonasse i suoi uomini a loro insaputa, sia pure per cimentarsi in un’impresa audace, il cui risultato però non sarebbe mai stato pari al rischio cui si esponeva”. Letti nel contesto del libro questi crudi rilievi si capiscono benissimo. È assurdo fare paragoni, però non si sbaglia di certo dicendo che raramente, e così a lungo, la guerra partigiana si è rivelata altrettanto dura, spietata, guerreggiata in ogni stagione in ogni punto, senza remissione di colpi delle due parti, con perdite di uomini così rilevanti, come quella condotta in queste valli».

[50] “Il movimento di liberazione in Italia”, n. 51, aprile-giugno 1958, fasc. II, pp. 77-84.

[51] La Resistenza: organizzazione o spontaneità?, in “Il movimento di liberazione in Italia”, n. 55, aprile-giugno 1959, fasc. II, pp. 58-81.

[52] Il Premio letterario Prato fu istituito nel 1948 e sopravvisse fino al 1991. Nel 1979 fu pubblicato “I trent’anni del Premio Letterario Prato”, a cura di Armando Meoni.

[53] Il giudizio di Franco Antonicelli si trova in Profilo degli studi sulla Resistenza in Piemonte (1945-1965), 31 agosto 1965 ed è riportato in Giampaolo Pansa, La Resistenza in Piemonte. Guida bibliografica 1943-1963, Torino, Giappichelli-Istituto storico della Resistenza in Piemonte, 1965, pp. XXII-XXIII.

[54] L’aggiunta si trova in coda alla prefazione, a p. 22 dell’edizione stampata in San Giovanni Persiceto il 30 settembre 1972. Il volume scritto da Anello Poma e Gianni Perona aveva per titolo La Resistenza nel Biellese e uscì nel 1972 per i tipi della casa editrice Guanda di Parma.

 

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