Appendice al saggio “E le chiamavano rappresaglie”

Marilena Vittone

Realizzata in occasione dell’80° anniversario dell’eccidio (8 settembre 2024) con l’aggiunta al testo di ulteriori informazioni

L’eccidio dei Nove Martiri fu compiuto dai nazifascisti di Vercelli sul piazzale della stazione venerdì, alle ore 8.45. Le vittime erano legate perlopiù alla resistenza partigiana.

Nei venti mesi di guerra civile Crescentino fu toccata dalle violenze degli occupanti, che ne contrassegnarono la memoria individuale e collettiva. Le regole del diritto internazionale erano saltate e le autorità militari e politiche non distinguevano tra armati e persone comuni, accusate di essere conniventi con i “ribelli”.

La loro scelta non fu casuale; certamente ci furono spie locali che li segnalarono alla Brigata nera (Bn) e poi al colonnello Ludwig Buch, comandante della polizia militare della zona di protezione 23, o ad Hartmann, suo vice. Alla notizia della fucilazione i concittadini, sfidando le ordinanze di guerra, si mostrarono compassionevoli ed espressero forti sentimenti per i “martiri”: Giuseppe Arena, Edoardo Castagnone, Ettore Graziano, Eugenio Lento, Enrico Marsili, Giacomo Petazzi, Giovanni Pigino, Domenico Mario Rondano, Michele Schiavello. Anche il saccheggio e la retata di più di duecento civili, il 19 settembre, rientrarono in una precisa strategia militare di vendetta, come dal 2016 ha documentato l’“Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia”. Nella banca dati sono stati censiti stragi e omicidi al di fuori dello scontro armato, compiuti dall’esercito tedesco e “repubblicano”[1]. Le vittime lungo la penisola occupata furono 23.669 (altre 65.000 sotto i bombardamenti). Fu un capitolo di storia del Novecento deliberatamente ignorato dalle istituzioni preposte.

Comunque, quelle lontane vicende ci offrono strumenti sia per capire il passato che per contribuire a migliorare il presente. Soprattutto, consentono un confronto con l’attualità; fanno riflettere sulla situazione internazionale di guerra, in cui sotto attacco sono migliaia di civili inermi.

Il fascicolo “2153, violenza con omicidio”, relativo ai nove fucilati, riemerse dall’“Armadio della vergogna”a metà degli anni novanta. Allora, a distanza di cinquant’anni, si riprese a investigare. I carabinieri interrogarono l’unico testimone ancora vivente, Remo Ravarino, che confermò quanto aveva dichiarato nel 1946; il dossier crescentinese fu definitivamente archiviato il 1 marzo 1996[2]. Conteneva le testimonianze raccolte dall’ufficiale inglese P. Bainbridge della Commissione alleata di indagine sui crimini di guerra, il 17 aprile 1946. Vennero indicati nomi e caratteristiche fisiche di ben quattordici militi della polizia di Buch e fu segnalata la presenza notturna dei fascisti vercellesi, che portò a catture mirate. Gli arrestati non erano armati e non avevano violato nessuna legge, per loro dovevano valere le Convenzioni dell’Aja del 1907 e di Ginevra del 1929. Le voci dei crescentinesi, nascoste per decenni, tornarono alla luce: le loro dichiarazioni dovevano servire per un’inchiesta giudiziaria, che non ebbe seguito[3].

Un contributo fu dato da due tecnici tedeschi impiegati nella sede del SS Polizei Regiment 15, in piazza Cesare Battisti, a Vercelli. Furono loro, con Joseph Steiner, a descrivere Buch. Nel documento, ecco la descrizione: età 50 anni, altezza 170 cm, corporatura media, capelli biondi, senza barba, colorito rosso, viso tondo. Vestiva uniforme verde, portava la croce di ferro di prima classe, aveva andatura leggermente claudicante. Portava il distintivo delle SS in filigrana d’argento sull’uniforme e anche le sue truppe indossavano l’uniforme verde, che aveva sulla manica sinistra il distintivo ovale a forma di alloro verde con al centro un’aquila ad ali spiegate e recante tra gli artigli la croce tedesca.

Giuseppe Borgondo, che aveva perso l’uso di una mano nella campagna del Nord Africa, nel 1941, era destinato a diventare la decima vittima; fu arrestato alle 5.30 dell’8 settembre da militi della Gnr o Bn “Ponzecchi”. Riferì che era stato fermato, condotto alla scuola elementare dove erano stati radunati circa venti civili, senza armi, sorvegliati a vista da soldati italiani e tedeschi. Aggiunse: «Gli ostaggi vennero divisi in due gruppi; da una parte, gli uomini al di sopra dei 40 anni, con famiglia; dall’altra, i giovani ma anche Arena, Castagnone e Rondano. Fui inserito lì, ma venni salvato grazie alla mediazione di Steiner».

Otto uomini vennero caricati su un camion con il geometra Ravarino, rappresentante delle autorità municipali. Quest’ultimo affermò: «Il nono uomo [Marsili] fu catturato mentre i tedeschi si recavano alla stazione. Solo dopo l’eccidio, riuscii a ritornare a scuola; annunciai ai rastrellati che sarebbero stati finalmente liberi». E proseguì asserendo che di notte era stato svegliato da una pattuglia di “repubblicani”; con loro stavano il bidello Pietro Clerici ed Ernesto Zanero, operaio del Comune. Più volte chiesero se conoscessero partigiani e antifascisti. «A fine mattinata arrivarono da Vercelli due autocarri tedeschi, uno con i soldati, l’altro con venti ostaggi crescentinesi, per lo scambio concordato dagli intermediari».

Il parroco don Alessandro Casetti fu avvisato della rappresaglia mentre celebrava la messa: «Mi recai alla piazza e sul lato destro giacevano i corpi insanguinati, tutti con ferite da proiettile al capo e al petto. Amministrai l’estrema unzione e poi visitai le vedove Arena e Rondano. Il giorno seguente, alle 16, i “martiri” vennero portati al cimitero, accompagnati da una folla di persone, e fui io a condurre il servizio funebre». Non parlò del nipote Marsili[4].

Drammatica la confessione di Efisia, figlia di Castagnone: «Alle 20.30 due soldati entrarono nel caffè, mio padre servì loro un bicchiere di marsala». Pochi istanti dopo, mentre la ragazza era uscita con la madre, sentì uno sparo e grida in tedesco. I partigiani, appostati intorno al caffè, corsero via. «Rientrando nella sala vidi uno che pareva morto e l’altro ferito che cercava di alzarsi in piedi. Mio padre lo medicò e, poi, si recò al municipio. Al ritorno, accompagnò il ferito all’ospedale. Alle tre giunsero circa venti soldati tedeschi e italiani, che chiesero a mio padre di caricare il morto su una barella e di condurlo fuori. Dopo quella notte non lo rividi più». Al mattino dell’8 settembre giunsero i civili destinati all’esecuzione. Poi, mentre controllavano le carte, un uomo (Schiavello) cercò di fuggire disperatamente. «Il capostazione portò mia madre e me in una stanza per impedirci di assistere oltre. Mio padre non era un partigiano. Il comandante ordinò di non rimuovere i corpi per quarantotto ore».

Joseph Steiner dichiarò: «Sono nato in Germania, cittadino italiano dal 1928; poiché parlo il tedesco mi è stato spesso chiesto dalla gente di qui di agire da interprete tra i partigiani e i tedeschi. Nella tarda serata stavo tornando a casa, quando mi fu detto dal signor Giuseppe Matta, messo del municipio, che due soldati tedeschi erano stati feriti alla stazione e mi chiese di telefonare al Comando di Vercelli. A quel tempo vi erano due sedi principali, una della Bn, guidata da Gaspare Bertozzi, il quale si trova ora in carcere a Torino [fu amnistiato]; l’altra, della polizia di sicurezza, comandata da Hartmann. Rifiutai e suggerii di cercare le autorità locali. Dopo alcune ore, vidi dei militari in uniforme mimetica che sostavano davanti alle scuole. Mi avvicinai e mi presentai. Mi dissero di aver ricevuto ordine di mettersi in contatto con me in vista di uno scambio fra alcuni prigionieri detenuti a Vercelli e un tenente colonnello catturato dai partigiani. Cercai di ottenere il rilascio delle persone ma senza successo. In seguito, udii colpi di arma da fuoco provenire dalla stazione. Dopo aver ordinato di lasciare i corpi sul piazzale, i soldati se ne andarono. Allora, pensai di telefonare al comandante tedesco che accordò il permesso di rimuovere in giornata i cadaveri».

Matta spiegò all’investigatore che Castagnone si era recato in municipio per informarlo che sconosciuti avevano sparato a due tedeschi nel suo locale. «Alle 22 telefonai alla questura, al quartier generale della Bn e delle SS. Alle ore 5, alcuni nazifascisti vennero al municipio; mi condussero alle scuole. Al mattino, chiesi di poter ritornare in comune. In seguito, mi ordinarono di recarmi alla stazione per raccogliere gli effetti personali degli uccisi. Li etichettai e conservai in un locale per consegnarli ai parenti. Non so chi fosse responsabile della morte di questi uomini. Per quanto a mia conoscenza, i nove non erano partigiani».

Tra i testi anche il dottor Valerio Musso che disse di essere stato chiamato alla stazione per esaminare i due militi; il morto venne lasciato dove si trovava, il secondo fu portato all’ospedale di Santo Spirito e fu curato personalmente. «Al mattino, fu trasportato a Vercelli».

Erminia Ferri, vedova Arena, aveva visto il marito per l’ultima volta molto presto, poi era andata a messa: «Al ritorno, fui informata che alcuni uomini erano stati fucilati alla stazione tra cui mio marito. Il suo corpo fu portato alla chiesa di San Bernardino da persone del luogo. Mio marito non era un partigiano».

Felicita Rondano raccontò che tre“brigatisti neri” erano giunti a casa e avevano chiesto del figlio disertore, ma lui se ne era andato all’alba. «Allora, presero mio marito Domenico che non era un partigiano e faceva il carrettiere».

Il bidello Clerici affermò: «Venerdì, alle 2 di notte, mia moglie ed io fummo svegliati da qualcuno che bussava alla porta. Erano i fascisti di Vercelli. Con il fucile puntato un sergente e quattro soldati presero possesso della scuola. Poi, mi ordinarono di accompagnarli al municipio. Al rientro, trovammo sette tedeschi; uno dei quali sergente maggiore in uniforme mimetica. Su un autoveicolo era stato deposto il corpo del militare ucciso. Intanto il capo aveva ordinato ai fascisti di andare alla cattura di partigiani, ma la gente aveva paura e non apriva la porta; comunque, cinque vennero arrestati e portati nel corridoio della scuola sotto la minaccia delle armi (tra cui Pigino e Petazzi). I destinati alla fucilazione salirono sul camion, altri ostaggi rimasero lì».


Note

[1] https://www.straginazifasciste.it/?lang=it. I risultati dell’indagine storica hanno permesso di censire oltre cinquemila episodi accaduti dall’armistizio al maggio del 1945. Per ognuno è stata ricostruita la dinamica degli eventi, inserita nello specifico contesto territoriale e nelle diverse fasi di guerra, e accertata l’identità delle vittime e degli esecutori (quando possibile). La strage è un fatto doloroso, che colpisce la civiltà e l’umanità in modo irreparabile, quale che sia l’origine. Pretendere giustizia e verità non è soltanto lecito, ma è addirittura doveroso per tutti. Cfr. Marco De Paolis – Paolo Pezzino, La difficile giustizia. I processi per i crimini tedeschi in Italia, 1943 -2013, Roma, Viella, 2016.

È notizia recente il caso dei mancati rimborsi alle famiglie vittime dei crimini del nazifascismo, nonostante sentenze di primo grado favorevoli. L’Avvocatura dello Stato si è costituita come parte civile e ha appellato le sentenze favorevoli alle vittime, aggrappandosi a cavilli pur di contestare il risarcimento. E così il ministero dell’Economia non può erogare le somme; tutto bloccato su input di Palazzo Chigi, fino a sentenza definitiva («Il silenzio del governo sulle stragi nazifasciste. Muro sui risarcimenti, nonostante il fondo istituito da Draghi, ora Palazzo Chigi, attraverso l’Avvocatura dello Stato, pone obiezioni contro i diritti di chi ha subito quei crimini. È una vicenda deplorevole, vera e propria vergogna di Stato, subita in prima persona dai parenti delle vittime di stragi nazifasciste ma oltraggiosa per tutti i cittadini, anche perché a cercare di negare i risarcimenti stabiliti da alcune sentenze emesse nelle scorse settimane è proprio lo Stato italiano» (articolo di Stefano Cappellini in “La Repubblica”, 11 gennaio 2024).

[2] Curiosa la sintesi dei carabinieri del 26 aprile 1996, incaricati delle indagini dopo l’apertura dell’“armadio della vergogna”. «Crescentino 8 settembre 1944, in paese la vicenda viene ricordata più come fatto politico che come vicenda giudiziaria: le persone del luogo anche quelle che all’epoca erano adulte, non hanno fornito notizie utili neppure a livello confidenziale, al fine di addivenire all’identificazione dei responsabili». Due colpevoli di crimini di guerra furono giudicati dal tribunale militare: Priebke, condannato all’ergastolo nel 1997 per la strage della Fosse Ardeatine, e Seifert. Il “boia” del lager di Bolzano, Michael Seifert, fuggito in Canada dopo la guerra, fu accusato di violenze gratuite contro i prigionieri del campo. Sulla base delle testimonianze, fu processato in contumacia dalla Procura militare di Verona. Venne condannato all’ergastolo, estradato e morì nel 2010 durante la detenzione a Santa Maria Capua Vetere. Il partigiano crescentinese Mario Vecchia, deportato a Bolzano, andò a testimoniare a Verona contro il criminale di guerra e membro delle SS.

[3]   Cfr. M. Vittone, Il tempo della memoria, in “l’impegno”, a. XXV, n. s., n. 1, giugno 2005.

[4] Enrico Marsili (11 febbraio 1926-8 settembre 1944; nome di battaglia “Dandolo”, informatore della divisione“Matteotti”). Aveva 18 anni, studente del V anno di ragioneria al collegio La Salle di Torino, sfollato dallo zio parroco, aveva la tessera dell’Azione cattolica. Ragazzo sensibile, di grandi valori e ideali, faceva parte della rete di resistenza legata all’arcivescovo Maurilio Fossati. Il suo testamento spirituale, inedito, è datato 30 aprile 1944: «Carissimo papà, carissima mamma, quando voi leggerete questa mia ultima io non sarò più. Il dolore che già fin da ora sento in me per questa mia dolorosa partenza Voi potete immaginarlo. Voi forse non avreste mai pensato che il vostro Enrico vi sarebbe stato rapito così presto. Forse vi parrà di vedermi, anzi sentirmi aggrappato al Vostro collo e balbettare quelle mie parole che ero uso pronunciare per tener sollevati un po’ dalle mille amarezze che questi pochi giorni di vita danno in questa terra. Con le lagrime agli occhi e con il pentimento nel cuore eccomi ora a impetrare il Vostro perdono per i gravissimi miei falli che nel breve soggiorno accanto a Voi ho commesso. Non piangete sulla mia morte, il Signore ha voluto così. Lui solo è il padrone dell’anima mia. Lui può tutto perciò sperate, prendete con rassegnazione questo dolore che Vi manda per provare la Vostra fede, io sono vivo, sono là ed attendo il momento per riunirmi quando Iddio lo vorrà con Voi, in quel regno dove non si soffre, in quel luogo dove tutto è bello in quel Paradiso dove si gode di una visione che santifica le nostre anime e le rende pure e belle per l’eternità. Non voglio dilungarmi di più sicuro di aver ottenuto da Dio il perdono delle mie colpe. Vi prego di salutare tanto i miei Professori, compagni, parenti, amici, non dimenticate il teologo Quaglia, il Canonico Bosso [Giovanni Battista Bosso fu assistente diocesano della Giac torinese, collegio La Salle] e tutti gli amici di Azione Cattolica e dite che lassù nel cielo dove spero Iddio voglia accogliermi, mi ricorderò e pregherò per loro. A voi cari genitori e alla cara Ida Vi sia di conforto il sapermi felice. Bacioni vostro affezionatissimo figlio Enrico».

In sua memoria, a Torino, lapidi partigiane in via Tarino 11 e in largo Montebello. Al proposito, scrive Franzinelli: «La Resistenza ha prodotto numerosi testamenti spirituali, nei quali trovano ampia trattazione i presupposti ideali del ribellismo. La situazione più diffusa è quella di giovani che giustificano a futura memoria l’abbandono della famiglia per l’ingresso nella banda partigiana; le loro lettere – scritte nel momento del cambiamento di vita oppure alla vigilia dei fatti d’arme nei quali si prevede l’incontro con la morte – sono spesso affidate al parroco. Che le inoltrerà ai familiari in caso di morte del congiunto». M. Franzinelli, Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza.1943-1945, Milano, Mondadori, 2005, p. 68.

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