Fontanetto Po, 27 maggio 2017
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXVIII, n. s., n. 1, giugno 2018
Nell’occasione del 70o anniversario dei lavori dell’Assemblea costituente, l’Istituto ha collaborato con la sezione Anpi di Crescentino-Fontanetto Po-Lamporo e con il Comune di Fontanetto Po all’organizzazione di un convegno, dal titolo “Settant’anni fa: la Costituente. Storie e idee delle donne per la nuova Italia. 1947-2017”, svoltosi a Fontanetto Po il 27 maggio 2017, che ha messo in risalto il significativo contributo dato dalle donne alla vita produttiva e politica del Paese, pur nelle persistenti resistenze della società a riconoscerne i diritti e le libertà.
Claudia Demarchi, sindaca di Fontanetto Po, nel portare i saluti dell’amministrazione comunale ha ricordato «il ruolo attivo che le donne hanno avuto nella Resistenza, il contributo che molte hanno dato alla ricostruzione di un Paese distrutto e sofferente, la consapevolezza di dover partecipare a scrivere la nuova storia dello Stato repubblicano», e ha aggiunto: «Per molto, troppo tempo, l’impegno femminile nella lotta di liberazione era rimasto un po’ sullo sfondo; per fortuna testimonianze e analisi più approfondite di quel periodo hanno permesso di riconoscere i pericoli che molte donne avevano affrontato, al pari dei compagni maschi, nelle file partigiane, nel tenere i collegamenti, nel nascondere, a rischio della propria vita, militari sbandati e persone perseguitate, ebrei e politici.
Alla fine della guerra tante sono tornate alla loro quotidianità, altre hanno scelto l’impegno politico, trovandosi ancora una volta a doversi misurare con lo strapotere maschile.
Il mondo nuovo per il quale avevano sofferto e lottato ha purtroppo per molte riservato amarezza e delusione, ma ancora una volta le donne sono state in prima fila nel difendere i principi scritti nella Carta costituzionale e nel continuare a lottare per conquistare quei diritti civili che ancora oggi qualcuno osa mettere in discussione. Per questo il nostro impegno, non solo come donne, ma come cittadine e cittadini, non può mai venire meno».
Le relatrici presenti alla giornata di riflessione, la scrittrice vercellese Lina Besate e le ricercatrici storiche e collaboratrici dell’Istituto Elisa Malvestito e Marta Nicolo, sono state introdotte da Carla Nespolo, ora presidente nazionale dell’Anpi, già presidente dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria, che, ricordando la sua esperienza parlamentare per il Partito comunista italiano, in qualità di deputata dal 1976 al 1983 e in qualità di senatrice dal 1983 al 1992, ha anticipato alcuni dei temi poi approfonditi dalle relazioni successive, in particolare soffermandosi sulle difficoltà che dal dopoguerra a oggi le donne hanno incontrato nell’accedere a ruoli politici e istituzionali in un Paese che, pur riconoscendone esplicitamente i diritti nella Carta costituzionale, fatica a superare pregiudizi culturali radicati.
Carla Nespolo ha poi lasciato la parola a Lina Besate e al suo racconto della fatica delle mondine nelle risaie vercellesi e delle loro lotte per il miglioramento delle condizioni di lavoro; a Elisa Malvestito, che ha declinato a livello locale il tema della partecipazione femminile alla vita politica, riportando i primi risultati di una ricerca volta a individuare i ruoli amministrativi ricoperti dalle donne nella provincia di Vercelli, e a Marta Nicolo, che ha analizzato, attraverso la lente della storia di genere, il percorso femminile nelle istituzioni e nella società.
Donne in risaia: fatica del lavoro, conquiste sociali e solidarietà
di Lina Besate
Quando penso alle donne in risaia mi vengono in mente due immagini: quella di mia madre mondariso quando, nei pomeriggi estivi, rientrava dal lavoro con il viso stravolto dal caldo, posava la bicicletta, si precipitava alla surbia, termine con cui in dialetto si indica la pompa che prende l’acqua dal pozzo, e si sciacquava sommariamente per togliersi di dosso la fatica mentre io, bambina, “pompavo” con tutte le mie forze quasi per aiutarla, col forte getto, a ritemprarsi più velocemente. Non ricordo di avere mai visto mia madre in risaia, ma la risaia entrava direttamente nel cortile di casa insieme a lei, che portava sulla pelle un odore acre di acqua stagnante; insieme al sudore che le appiccicava i capelli sotto la lobbia, il grande cappello di paglia; insieme ai ponfi dovuti alle punture delle zanzare; insieme alle mani gonfie e arrossate: mani che, oggi, deformate dall’artrite, non le consentono nemmeno più l’autosufficienza per nutrirsi.
La seconda immagine, che risale sempre alla mia infanzia, riguarda le mondariso dei Cappuccini che, nella festa del lavoro del Primo maggio, si abbracciavano saldamente l’una con l’altra disponendosi in un semicerchio, quasi a formare una catena umana, e intonavano i canti del lavoro in risaia.
Due lampi della memoria a delineare rispettivamente la dura fatica della monda e l’orgoglio di appartenere a una classe sociale che ha spinto in avanti la linea sempre precaria dei diritti del lavoro.
Son la mondina, son la sfruttata, son la proletaria che giammai tremò, recita uno di quei canti.
Mi chiedo spesso: erano forse quei tempi meno duri rispetto a quelli odierni? Com’è possibile che oggi, in questo mondo dominato dalla globalizzazione, si faccia così tanta fatica a creare quella catena di solidarietà umana e sociale che ha contraddistinto la vita delle generazioni che ci hanno preceduto?
Quali immagini di riscatto siamo in grado di trasmettere a chi ci seguirà nel percorso della vita, per rispettare il primo precetto della Costituzione che oggi intendiamo celebrare?
Affermare che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, significa che la dignità di ciascuno di noi, in quanto italiani, non passa attraverso titoli nobiliari, ricchezze, proprietà, ascendenze familiari, bensì attraverso la possibilità di lavorare in modo dignitoso. Tuttavia, ancora oggi, questo bellissimo art. 1 è disatteso se Paola Clemente, bracciante agricola di quarantanove anni, è morta di fatica ad Andria, il 13 luglio del 2015, mentre lavorava all’acinellatura dell’uva, sotto un tendone arroventato dal sole. L’acinellatura consiste nel separare gli acini più piccoli, meno belli, dagli altri, per creare grappoli esteticamente migliori. Essendo un’operazione delicata, viene affidata preferibilmente a mani femminili. Così le donne in cerca di lavoro, ancora una volta, sono in balia di caporali senza scrupoli, come avveniva in passato per le mondariso. L’immagine del viso sorridente di Paola, ritratta in una foto con il marito, si mescola a quella dei visi di mia madre e di tante mondine che ho avuto l’onore di conoscere, braccianti agricole del passato come Paola lo è stata, purtroppo in modo tragico, nel presente.
Torno al tema centrale del mio intervento. C’è un territorio: quello della pianura padana. C’è un tempo: quello che va dagli ultimi anni del XIX secolo fino agli inizi degli anni settanta del Novecento. Ci sono migrazioni stagionali di massa, dovute alla progressiva scomparsa dell’agricoltura familiare, che si intrecciano al lavoro stabile nelle grandi cascine condotte con sistemi sempre più coerenti con il capitalismo agrario. Ci sono vicende personali di speranza e di riscatto che si legano al progetto politico e sindacale di costruzione di una società più democratica e più giusta e ai molteplici tentativi per contrastarla. In sintesi: ci sono, per le masse, nuove modalità di ingresso nella modernità e nella politica.
Lo scenario che dobbiamo pensare è la campagna coltivata a riso, una campagna che produce ricchezza, ma che non è sempre disponibile a restituirla in modo equo, sfamando sul serio la moltitudine di mondariso e braccianti che la lavorano.
Dobbiamo partire dalla creazione del canale Cavour, nel 1866, e dalla sua importanza per il sistema irriguo, che potenzia l’evoluzione dell’assetto fondiario in senso capitalistico e origina la nascita di un proletariato agricolo composto da braccianti fissi e lavoratori stagionali. La risaia diventa un sistema capitale anche grazie a misure protezionistiche finalizzate a favorire la produzione nazionale.
Del 1903 è la prima inchiesta dettagliata sul mondo della risaia condotta da Giovanni Lorenzoni per conto dell’Ufficio del lavoro della Società umanitaria milanese. Ma anche la Camera del lavoro di Reggio Emilia se ne occupa, con la pubblicazione di un intervento del deputato socialista Angiolo Cabrini, che definisce le mondine «povere lavoratrici che attraverso l’odissea delle dure fatiche corrompono e uccidono la loro gioventù».
“Odissea” è termine che evoca il viaggio verso una meta per poi ritornare a casa. Nelle risaie della Lomellina, del Novarese, del Vercellese arrivano donne e braccianti provenienti dalle colline del Monferrato, dal Canavese, dal Lodigiano, dalla provincia di Piacenza, da Reggio Emilia, da Modena, da Bologna, da Ferrara. Pare che non ci sia una logica razionale a dirigere i flussi migratori: si va dove l’intermediario (il caporale) le porta. Un’inchiesta del Maic (Ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio) del 1904 dice che, nel periodo della monda, sebbene in modo disomogeneo, la popolazione delle zone interessate aumenta del 9,2 per cento.
A caratterizzare il lavoro della monda è la fatica fisica. I piedi e le gambe nell’acqua stagnante, spesso senza protezione; la schiena curva, il sole a picco, il riverbero, gli insetti, le zanzare, le ore di lavoro, nove, dieci, ma anche dodici e tredici, con brevissime pause. Inoltre, al rientro in cascina, per le immigrate: giacigli di paglia, in cameroni poco aerati, spesso vicini ai canali di scolo; mancanza di retine alle finestre; penuria d’acqua; per lavarsi si va spesso nei fossi; dieta insufficiente, vitto monotono, disciplina quasi militare.
Le carenze igienico-sanitarie alimentano il proliferare di malattie come la malaria, per la presenza di zanzare anofeli, ma anche febbri reumatiche, disturbi gastroenterici, malattie infettive dovute alla promiscuità, per l’impossibilità di separare sani e malati; eritemi, lesioni oculari, alterazioni cutanee di vario tipo, giradito che si formano nel momento della presa e dell’estirpazione delle erbe; assenza di ciclo mestruale.
Questi dati compaiono in un’indagine di Giovanni Canova del 1913 nel territorio della Lomellina, che conclude con la proposta di misure di prevenzione che vadano dalla distribuzione gratuita di chinino a gambali di tela cotonata agli arti inferiori, alla pausa nelle ore più canicolari, all’assistenza sanitaria gratuita per le malattie professionali.
Ci sono poi dei passaggi dedicati alla moralità, tema che ritorna anche negli anni successivi. Si sottolinea la presenza di donne lontane da casa che vivono spesso per la prima volta l’allentamento dei legami familiari e di esperienze di nubilato collettivo. Non rari sono i procurati aborti.
Si diffondono le “Leghe di miglioramento contadino”: costituiscono un tessuto di solidarietà che rivendica miglioramenti salariali e di lavoro; organizzano forme efficaci di lotta, come gli scioperi, soprattutto sul tema della riduzione dell’orario di lavoro. A Vercelli l’avvocato Modesto Cugnolio, borghese illuminato, presidente dell’Associazione delle Cooperative vercellesi, consulente legale della Camera del lavoro e fondatore del giornale “La Risaia”, pone la questione dell’applicazione del Regolamento Cantelli, in base al quale l’orario di lavoro non può iniziarsi se non un’ora dopo il levare del sole e deve cessare un’ora prima del suo tramonto. Il rispetto di tale regolamento, per i lavoratori agricoli, diventa centrale nelle rivendicazioni nazionali, ma sarà a Vercelli che il 1 giugno 1906 le mondariso otterranno le agognate otto ore di lavoro.
Gli anni del fascismo contengono una parola d’ordine: ruralizzazione e alcuni fiori all’occhiello come le bonifiche e la battaglia del grano, cui si lega l’attenzione alla produzione di riso. L’obiettivo politico è il consenso: la donna contadina viene rappresentata come figura femminile emblematica, capace di fertilità, fedeltà, spirito di sacrificio. In effetti, di sacrifici, al mondo dei braccianti, se ne chiedono in abbondanza: coerentemente con la crisi mondiale si attuano scelte deflattive che portano alla riduzione della paga delle mondine al 50 per cento tra il 1927 e il 1933. Tuttavia, a partire dagli anni trenta, si cerca di sopperire attraverso la creazione di una più efficiente organizzazione del lavoro e di uno stato sociale di supporto. Nasce l’Ufficio Monda, col compito di gestire le operazioni relative agli spostamenti delle mondine migranti; si afferma lo strumento della contrattazione collettiva per sottrarre il lavoro alla figura del caporale o dell’intermediario.
Anche attraverso l’Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia), istituito con una legge del 1925, si moltiplicano gli asili nido per i figli delle mondine, si predispongono assegni alle famiglie delle mondine morte sul lavoro, e poi: disposizioni sull’orario di lavoro che non deve superare le otto ore, regolazione degli straordinari, vitto per le forestiere, rispetto delle norme igienico-sanitarie, assicurazione sulla invalidità, la vecchiaia e gli infortuni, assicurazione di maternità, medicine gratuite. Inoltre, la creazione di diverse figure di supporto: l’assistente e la cuciniera e, nel ’33, la visitatrice fascista, che avrebbe dovuto fare sentire la vicinanza del regime alle lavoratrici. Del ’37 è un nuovo contratto che migliora del 12 per cento la paga oraria della monda, regola l’età tra i quattordici e i sessant’anni, provvede a un sussidio di malattia, alla possibilità di usufruire di farmaci gratuiti e prevede l’assicurazione di maternità.
Si distribuiscono chinino, occhiali, cappelli, pomate per le dermatiti e nel tempo libero si proiettano film con gli autocinema, si organizzano balli e feste. Negli anni della guerra, il primo significativo ridimensionamento della manodopera avviene nel 1941 e si ritorna alla giornata lavorativa di dieci ore. Nel ’44 si avrà il 45 per cento in meno di manodopera rispetto al fabbisogno. I lavoratori vengono precettati: o si lavora in risaia o si parte per la Germania.
Nell’immediato dopoguerra è il Vercellese l’area di maggiore estensione della risaia, con una tendenza costante all’aumento della superficie interessata. È l’epoca della ricostruzione, che si avvantaggia di favorevoli condizioni del mercato internazionale. Nella seconda metà degli anni cinquanta inizia poi una fase depressiva cui segue una graduale contrazione della superficie coltivata e della produzione. Nei primi anni sessanta si rileva una progressiva meccanizzazione delle fasi di lavoro in risaia e la crescente diffusione dei nuovi diserbanti chimici usciti dalla fase sperimentale. Sono questi a consentire agli imprenditori un notevole risparmio sulle operazioni della monda.
Ma facciamo un passo indietro. Il 17 maggio 1951 la senatrice socialista Giuseppina Palumbo tiene un accorato discorso sulle condizioni delle mondariso. «Un lavoro veramente penoso», lo definisce, promuovendo un’indagine in loco per accertarsi di come queste donne lavorino e vengano trattate. I risultati confermano che nell’Italia del Nord lavorano centocinquantamila mondariso tra locali (centomila) e forestiere (cinquantamila) provenienti da: Emilia, Lombardia, Veneto, Toscana, Liguria. L’ingaggio avviene attraverso norme precise per evitare la diffusione del reclutamento clandestino. In ogni comune di residenza c’è un Ufficio di collocamento che rilascia il nulla osta senza il quale la mondina rischia di essere rimandata a casa.
Altri aspetti dell’indagine riguardano: il trasporto, l’assistenza, l’orario di lavoro, il tempo libero. La sottocommissione parlamentare auspica il potenziamento della rete di autobus che allevierebbe la fatica del viaggio, oppure la possibilità di viaggiare in carrozze di terza classe e non in carri bestiame, come era avvenuto fin lì. La rete assistenziale durante il trasporto, grazie a organizzazioni come l’Udi, l’Onmi, il Cif, sembra funzionare in modo accettabile, con l’allestimento di vari punti di ristoro destinati a fornire pasti caldi e dormitori.
Per quanto riguarda lo stato in cui versa l’accoglienza nelle cascine, i toni della senatrice Palumbo si fanno aspri e le parole non si discostano granché da quelle utilizzate qualche decennio prima da Giovanni Lorenzoni. I dormitori sono malsani, poco aerati, senza retine alle finestre; i servizi igienici sono indecorosi, spesso vicini a concimaie e scoli putridi. In questi termini si esprime anche l’ufficiale sanitario Luigi Pezzana (1949) nel descrivere le cascine del comune di Trino e nel fornire consigli igienici elementari che vanno dalla tinteggiatura delle pareti dei dormitori al lavaggio e alla disinfezione delle brande e del materiale lettereccio. Inoltre si lamenta che le cucine stiano in stretta vicinanza col porcile e con i pollai, rendendo impossibile difendersi dalle mosche.
Dieci anni dopo la situazione non sembra essere molto cambiata. Ispezioni della Federbraccianti o dell’Inam, condotte su una campionatura delle cascine, parlano di spazi esigui nei dormitori, di aerazione non certo ottimale, di scarse latrine non piastrellate e difficili da pulire, di mancanza di acqua calda, di presenza di mosche nelle cucine. Per quanto riguarda lo stato di salute, indagini condotte sugli ospedali della zona, in particolare all’Ospedale Maggiore di Vercelli, confrontate con i dati dell’Inam, parlano di disturbi gastrointestinali, febbri influenzali e reumatiche, emorragie, ascessi vari, coliche epatiche, fratture e lussazioni. Tra il ’47 e il ’48 inoltre sono censiti quarantasette casi di leptospirosi, causati dalle urine di topi, cani e suini. Insomma: il lavoro della monda continua a essere un’attività terribilmente pesante per la quale otto ore sono troppe. La Palumbo auspica sia portata a sette ore la giornata lavorativa, ma il ricorso allo straordinario è ancora molto consolidato e si può arrivare a una giornata lavorativa anche di dieci-dodici ore.
Intanto, lentamente, è in atto la grande trasformazione che porterà al cosiddetto “miracolo economico”, destinato a trasformare, con l’economia, anche i bisogni e i sogni degli italiani. Il boom si rivelerà ben presto fragile, basato sull’utilizzo selvaggio di manodopera a basso costo estromessa da campagne poverissime. Tuttavia il mutamento delle attività produttive modifica anche relazioni sociali e familiari, condizioni di vita, culture. Agli inizi degli anni cinquanta meno dell’8 per cento della popolazione possiede contemporaneamente luce, acqua, bagno e servizi interni. Pochi anni dopo sarà il 30 per cento; nel 1958 il frigorifero sta nelle case del 13 per cento delle famiglie. Più della metà nel 1965. Il televisore nel 1960 è posseduto dal 20 per cento, nel 1975 dall’89 per cento.
Siamo entrati nella post modernità.
Voglio concludere con una testimonianza della mondariso Sinalda Zavattaro Sassone: «Ho partecipato alle lotte sindacali e, durante lo sciopero del taglio del riso nel 1950, durato 17 giorni di seguito, sono stata arrestata dalla Celere di Scelba e portata a Vercelli insieme a mia mamma e altri lavoratori di Olcenengo. Siamo state rilasciate […] dopo una settimana di detenzione. […] Al processo ci assolsero […]. Lo sciopero si concluse con la conquista delle medicine gratuite come per gli operai, ma soltanto di una parte, perché la parità previdenziale è stata conquistata molto dopo. […] In seguito, coi diserbanti e le mietitrebbie, il lavoro in risaia si ridusse e raggiunsi l’età della pensione dopo 15 anni di commessa in un negozio di mobili.
Il lavoro della risaia era faticoso. Non sono d’accordo con il signore che ha parlato prima, dicendo che si cantava; è vero, si cantava, ed io avevo anche una bella voce, ma si cantava soprattutto per non sentire il male alla schiena che procurava, e anche per fare passare le otto ore. Male alla schiena che sento ancora adesso, mentre il riso è diventato meno amaro».
Elezioni in rosa: le donne sindaco nella provincia di Vercelli. Primi risultati della ricerca
di Elisa Malvestito
Vorrei iniziare il mio intervento illustrando alcuni dati significativi raccolti in occasione di una ricerca promossa dall’Anci nel marzo 2017 sulla rappresentanza di genere nelle amministrazioni comunali[1], che stabilisce che sono 1.100 su 7.987, pari cioè al 14 per cento circa, i comuni italiani retti da donne sindaco, così distribuiti: 30,6 per cento al Nord, 29,7 per cento nelle regioni centrali e 26,8 per cento nel Sud e nelle isole. Per lo più l’amministrazione femminile riguarda i comuni con una popolazione inferiore ai 2.000 abitanti (pari al 45 per cento circa). Solo due comuni con più di 250.000 abitanti sono amministrati da donne: Torino e Roma. Infine, tra i 1.100 comuni individuati, si trovano solamente sei capoluoghi di provincia (Torino, Roma, Ancona, Alessandria, Brindisi e Vercelli) e tre capoluoghi di regione (Torino, Roma, Ancona).
La ricerca ha inoltre evidenziato come, negli ultimi trent’anni, il numero di sindache sia cresciuto più di sette volte: nel 1986 erano 145 i comuni retti da donne, mentre nel 2017, come abbiamo visto, sono 1.100. In totale, in quest’ultimo trentennio, sono 2.752 i comuni amministrati almeno una volta da una donna, pari al 34,4 per cento. Le regioni che vantano il primato di donne alla guida dei comuni sono l’Emilia-Romagna, la Toscana e la Lombardia, mentre agli ultimi posti si trovano la Campania e la Basilicata.
È interessante sottolineare che la prima donna ad amministrare un comune la si trova nelle Marche: Ada Natali fu sindaca di Massa Fermana (provincia di Fermo) tra il 1946 e il 1959[2]. A seguire si incontrano, in ordine cronologico, altre tre donne alla guida di comuni del Sud Italia e delle isole: Ninetta Bartoli, sindaca di Borutta, provincia di Sassari, dal 1946 al 1958; Maria Chieco Bianchi, sindaca di Fasano, provincia di Brindisi, dal 1949 al 1954 e Vittoria Giunti, sindaca di Santa Elisabetta, provincia di Agrigento, dal 1956.
La ricerca dell’Anci ha stabilito che le donne che hanno ricoperto la carica di prima cittadina dal 1946 a oggi sono mediamente più giovani e più istruite dei colleghi: il 46,2 per cento possiede infatti una laurea o post laurea (a differenza degli uomini laureati che si aggirano intorno al 31,7 per cento) e il 26 per cento ha meno di trentacinque anni (gli uomini sono il 17 per cento).
Se concentriamo l’attenzione sulla nostra regione, emergono poi alcune riflessioni interessanti. Innanzitutto viene sottolineato come il Piemonte rappresenti oggi la terza regione italiana con il numero percentuale più alto di donne sindaco, dopo l’Emilia-Romagna e il Veneto[3]. I dati nazionali e regionali, soprattutto dopo le elezioni amministrative del 2016, hanno dunque aperto, o meglio riaperto, questioni delicate che riguardano in particolare il rapporto tra la questione di genere e la politica. Si pensi ad esempio allo spinoso problema linguistico e al dibattito che si è sviluppato intorno a esso: è corretto parlare di “sindaca” al femminile? Appena dopo le elezioni amministrative del giugno 2016, il quotidiano “la Repubblica” è stato tra i primi a utilizzare la parola “sindaca” nel titolo dell’articolo di apertura in prima pagina, salvo poi usare il termine declinato al maschile nel corpo del testo, testimonianza questa di un’abitudine ancora radicata. In realtà esiste una regola grammaticale relativamente alla declinazione di genere di ruoli e professioni, stabilita nel 2013 dall’Accademia della Crusca, la quale afferma che è corretto usare la parola “sindaca” accanto ad altre declinazioni femminili come “chirurga”, “avvocata”, “architetta”, “ministra”, ecc… e la stessa Accademia sottolinea come dietro alla questione linguistica si celi in realtà un dibattito di natura sociale e culturale più delicato: il nome del mestiere o dell’incarico politico declinato al femminile ci suona cacofonico perché non siamo culturalmente abituati a usarlo e questo appare tanto più evidente quanto più si avanza di livello nella scala professionale. Cecilia Robustelli, docente di linguistica e collaboratrice dell’Accademia della Crusca, ha dichiarato in un articolo pubblicato nel sito dell’ente: «[…] un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana»[4].
Oltre alla questione linguistica, è emerso negli ultimi tempi anche un vivace dibattito intorno a un tema di natura storica: quali fenomeni politici, sociali, culturali, economici hanno determinato questo notevole aumento quantitativo di sindache nel nostro Paese? Per rispondere a questa domanda storici e ricercatori hanno iniziato a pubblicare ricerche relative al rapporto tra la questione di genere e la politica, che però hanno riguardato soprattutto il tema della rappresentanza di genere nei partiti politici e degli incarichi a questi direttamente collegati. Si pensi, ad esempio, ai numerosi studi sulle donne deputate o senatrici o alle pubblicazioni relative alle donne della Costituente, edite soprattutto in occasione del 70o anniversario della conquista del voto femminile.
È necessario invece analizzare nel dettaglio il fenomeno della presenza di sindache nella storia della Repubblica italiana, interrogarsi sulle cause storiche che hanno portato lentamente le donne a occupare cariche amministrative oltre che politiche, perché l’elezione amministrativa, in particolare quella comunale, non risponde solo a logiche di partito ma alle necessità e alla sensibilità della comunità di un determinato territorio. Risulta essere quindi un segnale decisamente più interessante da esaminare per approfondire la questione del rapporto tra genere e politica e, più in generale, tra genere e società.
L’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, per contribuire a questa esigenza di natura scientifica, ha dato vita, a partire dal 2016, nell’occasione del 70o anniversario della conquista da parte delle donne del diritto di voto, al progetto di ricerca “Elezioni in rosa. Le donne sindaco della provincia di Vercelli”. L’obiettivo che il progetto si pone è quello di ricostruire le dinamiche sociali, politiche e culturali che hanno portato le donne a impegnarsi in prima persona nella vita politica e amministrativa delle nostre province dal secondo dopoguerra a oggi. Lo studio si divide in due fasi: la prima finalizzata all’individuazione e all’analisi quantitativa delle donne nominate/elette sindaco dal 1946 a oggi attraverso una ricerca d’archivio, la seconda relativa invece alla raccolta di videointerviste delle protagoniste di questo fenomeno.
La prima fase è ancora in atto. Da una attenta considerazione della bibliografia di riferimento, utile per orientarsi e confrontarsi con altri studi sul tema, sono emersi alcuni limiti importanti. Innanzitutto sono pochi i testi relativi all’argomento preso in esame e quelli esistenti si riferiscono soprattutto ai risultati delle elezioni amministrative del 1946 per analizzare il legame tra l’esperienza resistenziale e la partecipazione attiva delle donne alla vita politica del Paese appena liberato. In secondo luogo, i pochi testi consultati riguardano esperienze geografiche ben precise, che in particolare analizzano il fenomeno della presenza femminile nella pubblica amministrazione nelle regioni del Sud Italia, o riguardano figure storiche specifiche (ad es. Ada Natali, la prima donna sindaco; Ada Gobetti, prima donna vicesindaco di Torino). Manca dunque una bibliografia corposa di riferimento, aspetto che però non deve necessariamente essere percepito come uno svantaggio, dato che può essere considerato come stimolo allo studio e alla ricerca.
Il punto di partenza del mio percorso è rappresentato dal lavoro condotto da Enrico Pagano, direttore dell’Istituto, a metà degli anni novanta e pubblicato nel 1995 nel numero speciale della rivista “l’impegno”, che raccoglieva i contributi di un convegno svoltosi a Cossato nel dicembre 1994 dedicato alle donne vercellesi, biellesi e valsesiane nell’antifascismo, nella guerra e nella Resistenza. La ricerca di Pagano, dal titolo “Le antifasciste e le partigiane della provincia di Vercelli nelle prime elezioni del dopoguerra”, riguardava le donne elette nei consigli dei comuni della provincia di Vercelli nelle elezioni amministrative del 1946 e del 1951.
Prima di addentrarci nell’analisi dei dati è però fondamentale una premessa di natura storica. Il 31 gennaio del 1945, con il Paese ancora diviso, il Consiglio dei ministri dell’Italia libera presieduto da Bonomi emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne. Inoltre, il 10 marzo 1946, con il decreto n. 74, poche settimane prima delle elezioni di giugno, si completava per le donne il processo di riconoscimento politico con l’estensione del diritto elettorale passivo a quante avessero almeno venticinque anni: da questa data in poi le donne poterono dunque considerarsi cittadine a pieno titolo.
Nonostante l’importante conquista, l’Italia giungeva comunque abbastanza tardi a questo traguardo: il diritto di voto alle donne era già stato concesso in Finlandia (1906), Norvegia (1913), Danimarca (1915), Islanda (1915), Austria (1918), Irlanda (1918), Germania (1918), Regno Unito (1918), Lussemburgo (1919), Paesi Bassi (1919), Canada (1917), Stati Uniti (1920), Svezia (1919), Spagna (1931) e Francia (1944).
Inoltre la reazione delle donne a questo evento non fu così travolgente. Quelle che avevano partecipato attivamente all’antifascismo e alla lotta resistenziale, e dunque avevano già maturato una profonda coscienza politica, percepivano questo traguardo come una conquista dovuta e ovvia. Quelle che, invece, non avevano ancora sviluppato una piena consapevolezza della propria identità civica accolsero questo risultato come una novità, certo, ma senza coglierne il profondo significato: molte di loro erano cresciute sotto vent’anni di dittatura fascista che proponeva una visione del femminile strettamente legata ai doveri della casa e della patria, ovvero generare e accudire i figli del fascismo.
Per i partiti politici, soprattutto per i due partiti di massa che dopo la guerra si erano scontrati nel tentativo di conquistare il consenso politico della maggioranza del Paese, questa estensione di diritti venne percepita come una vera e propria incognita: «[…] l’incognita risiedeva proprio nell’impossibilità di prevedere se nei comportamenti elettorali femminili sarebbero prevalsi i suggerimenti dei padri o dei mariti o al contrario se il voto sarebbe stato utilizzato come una ribellione all’autorità maschile. Non c’era spazio comunque per la considerazione che le scelte delle elettrici potessero scaturire da convinzioni autonome»[5].
La ricerca cui si è accennato, che non ha riguardato soltanto la nostra provincia, ma tutto il Piemonte[6], sembra confermare l’iniziale percezione di una emancipazione politica formale e non ancora sostanziale. Nel 1946 si possono contare 124 candidate in 57 comuni della provincia vercellese sui 167 totali; tra queste si trovano 54 elette nei consigli di 43 comuni. Nel 1951 sono state individuate 63 candidate in 27 comuni, tra cui 21 elette in 19 comuni.
Significativa è la riflessione che si può condurre a partire da questi elementi. Innanzitutto nelle elezioni del 1946 e del 1951 non si trova alcuna donna nominata sindaco. Inoltre emerge chiaramente come il numero di consigliere si dimezzi nel giro di un solo mandato e si assista quindi a un forte ricambio tra i due turni elettorali, sintomo di una difficoltà di consolidamento di una classe politica femminile. La partecipazione delle donne ai consigli comunali è concentrata soprattutto nel Biellese, territorio caratterizzato da una forte componente operaia femminile e da una tradizione antica di scioperi e lotte sindacali, oltre a un grande coinvolgimento civile, anche femminile, alla lotta di liberazione.
Dai dati raccolti si può notare inoltre una certa prevalenza dei partiti di sinistra, soprattutto del Partito comunista. La conclusione a cui giunge Pagano nel 1995 è dunque la seguente: «[…] tra il 1946 e il 1951 si inaugura una tendenza alla riduzione progressiva dell’attività femminile nelle amministrazioni locali, un trend che per quanto riguarda le elette al Parlamento dura fino alla metà degli anni settanta».
Questa conclusione rappresenta il punto di partenza della ricerca che sto portando avanti in questi mesi per l’Istituto di Varallo e che si sta concentrando su tre tipologie di fonti archivistiche: il fondo della Prefettura di Gabinetto di Vercelli, la stampa locale (“La Sesia”, “Corriere Valsesiano”, “Il Biellese”) e l’Archivio storico delle elezioni del Ministero degli Interni[7]. Come anticipato precedentemente, la ricerca è ancora in corso. Al momento sono stati raccolti i dati fino alle prime elezioni degli anni sessanta e poi da metà anni ottanta fino al 2016.
Da un primo esame dei numeri sono emerse considerazioni abbastanza significative, che ovviamente dovranno essere poi confermate a conclusione della ricerca. Innanzitutto, nelle elezioni del 1985 ho individuato le prime cinque donne nominate sindaco dai rispettivi consigli comunali. Due di queste vengono riconfermate nel loro ruolo, mentre le altre tre ricoprono l’incarico per la prima volta: ciò significa che a partire dagli anni ottanta, ma probabilmente già a metà degli anni settanta, si iniziano a trovare le prime sindache anche nella provincia di Vercelli, fenomeno del tutto assente fino sicuramente a metà degli anni sessanta. Ovviamente a metà degli anni ottanta le donne sindaco sono ancora poche unità, ma da metà anni novanta il fenomeno inizia ad acquisire una certa sistematicità: nel 1993 si possono contare 6 donne sindaco su 86 comuni della provincia di Vercelli, che nel 1992 si separa da quella di Biella. Tra queste dobbiamo sottolineare la nomina della prima sindaca del capoluogo di provincia, Mietta Baracchi. Tra il 1993 e il 2016 sono in tutto 35 i comuni, sugli 86 dell’intera provincia, quindi più del 40 per cento, che hanno avuto almeno una volta una donna alla guida, per un totale di 39 donne coinvolte. Si può notare inoltre una certa sistematicità nelle elezioni amministrative se le si guarda con la lente dell’appartenenza di genere: tra le 39 donne coinvolte, 14 sono state rielette o comunque hanno ricoperto più mandati anche a distanza di anni. Per quanto riguarda l’appartenenza politica, solo 4 su 39 sono legate direttamente a un partito (due di centrodestra, una di centro e una di centrosinistra). Le altre si presentano con liste civiche.
La ricerca, oltre a essere completata con gli anni rimanenti, può essere ulteriormente raffinata tenendo conto della dimensione anagrafica dei comuni, della loro collocazione geografica (pianura o montagna) e dell’orientamento politico delle protagoniste, anche se quest’ultimo è un dato difficile da ricostruire, considerando che la maggior parte delle donne, come abbiamo visto, si presentava con liste civiche.
A partire da questi primi dati raccolti mi sento però di fare alcune osservazioni di carattere generale. Innanzitutto, come ho già sottolineato, fino ai primi anni sessanta nessuna donna ha ricoperto l’incarico di sindaca, ma non bisogna stupirsi di questa assenza. Il diritto elettorale femminile rappresenta una conquista formale e non sostanziale, almeno fino alla fine degli anni sessanta. A conferma riporto un brano tratto da una lettera che i carabinieri di Vercelli scrissero alla Prefettura l’8 giugno 1951. Dopo aver raccontato di alcune polemiche da parte dei comunisti del territorio durante un’orazione tenuta da Giulio Pastore in piazza Mazzini a Borgosesia, la lettera si chiude così: «Per quanto riguarda, poi, l’accusa che un presidente di seggio della Scuola Magni abbia impedito di far votare le donne, è risultato che il fatto, in un certo modo, risponde al vero, nel senso, però, che il detto presidente invitò un gruppo di donne a munirsi di carta d’identità prima di esercitare il diritto di voto e che subito dopo, in seguito ad intervento del sindaco, geom. Alfredo Pignatta, desistette dalla richiesta, ritenendo sufficiente l’identificazione anche attraverso il riconoscimento di testimoni»[8].
Un’ulteriore considerazione riguarda il fatto che dagli anni ottanta iniziano a esserci le prime sindache anche nella provincia di Vercelli. Sicuramente il fenomeno che più di altri ha inciso in questo processo è stato il consolidarsi del movimento femminista degli anni settanta e le relative battaglie per il diritto di famiglia e i diritti delle donne che hanno portato a conquiste importanti. Una piccola conferma di questa ipotesi arriva da un articolo apparso ne “La Sesia” del 2 novembre 1982, nel quale viene intervistata una delle quattro consigliere di Vercelli. Nel tracciarne il profilo psicologico e sociologico, la giornalista riporta alcune informazioni importanti relative alla formazione politica di questa giovane consigliera legandola strettamente alle battaglie degli anni settanta: «È considerato il consigliere comunale più carino di Palazzo di Città, ha 26 anni, laurea in lettere, occhi limpidi e attenti, la fronte alta degli intellettuali. È indubbiamente una donna decisa, che ha idee ben chiare, carattere e volontà di ferro, virtù che per chi decide di far politica sono quantomeno indispensabili, se no ti schiacciano come una formica. […] Ragazza d’azione più che di parole, già giovanissima si dedica ad iniziative sociali ma senza particolare interesse per la politica; questo le nasce in seguito al referendum sul divorzio del ’74 tanto che nel ’75 decide di iscriversi alla Federazione giovanile comunista e nel ’76 al Partito comunista. Nel giugno dell’80 viene eletta in Consiglio comunale»[9].
Questo processo di maturazione di una consapevolezza politica da parte del genere femminile e di trasformazione del diritto formale in diritto sostanziale ha avuto in seguito un’accelerata agli inizi degli anni novanta, probabilmente grazie anche alla riforma elettorale del 25 marzo 1993[10] che ha introdotto l’elezione diretta del sindaco e la nomina dei componenti della giunta da parte dello stesso. A conclusione della ricerca quantitativa ci si aspetta quindi di confermare l’ipotesi già individuata nello studio di qualche anno fa: «Le donne che contribuirono a liberare l’Italia e a instaurare la democrazia avrebbero dovuto lottare ancora a lungo per essere riconosciute come soggetti politici totali»[11], almeno fino a metà degli anni novanta, aggiungo io.
La seconda fase del progetto, come già anticipato, consiste nella raccolta di videointerviste, che confluiranno poi in un documentario, alle donne che dal 1946 a oggi hanno ricoperto l’incarico di sindaco nei comuni della provincia vercellese. Delle 39 individuate a partire dagli anni novanta, sono state ascoltate le prime 8. Si tratta di un lavoro lungo, ma nel progetto ci si è prefissati di intervistarne almeno la metà. Alle protagoniste sono state poste le stesse domande, perché lo scopo di questa fase, oltre alla raccolta di testimonianze da conservare nell’archivio dell’Istituto, consiste nel fare emergere il contesto storico, sociale, politico, economico e culturale che ha permesso a queste donne di avvicinarsi alla realtà politica, soprattutto amministrativa, del territorio di appartenenza; il loro profilo biografico e sociologico è un aspetto significativo che ci permetterà di mettere a confronto la consapevolezza del proprio ruolo nella società che le donne hanno acquisito e l’impatto di questo mutamento sull’opinione pubblica.
In conclusione riporto un brano tratto da un articolo apparso ne “La Sesia” del 2 luglio 1985, appena dopo le elezioni di Vercelli. Dopo aver sottolineato l’aumento del numero di donne consigliere da 4 a 5, la giornalista Ombretta Piantavigna traccia un profilo sociologico della donna in politica: «Le donne in politica (vercellesi comprese) quelle che han cavato le unghie per arrivarci bucando “il muro”, sono dei veri mastini e dimostrano una preparazione ineccepibile; quando riescono, si esprimono con sensibilità alle questioni, ma pur sempre con l’autorevolezza che fuga i dubbi di colleghi un poco diffidenti. Sono anche più tenaci ed istintive, le donne, nel loro modo di vedere la politica, almeno finché in loro brillerà la convinzione dell’utilità di quel ruolo: quando le direttive di partito offuscheranno l’entusiasmo dei primordiali buoni propositi, inevitabilmente anche le consigliere finiranno con l’adagiarsi in atteggiamenti sonnacchiosi tipici di vari colleghi»[12].
Oltre la parità: donne, politica e istituzioni
di Marta Nicolo
Nel corso degli ultimi decenni la storia di genere ha conosciuto un significativo fermento. Gli scambi interdisciplinari e le comparazioni internazionali hanno fornito un quadro storiografico più ampio entro cui muoversi.
Ma se è indubbio lo sviluppo dell’interesse verso la storia di genere, resta da domandarsi qual è l’uso che ne fanno concretamente, e più in generale, gli storici della contemporaneità. Questa è una domanda che impone una riflessione più ampia, a cui non è possibile rispondere ora, ma analizzare la storia delle donne all’interno dei partiti politici e delle istituzioni pone inevitabilmente di fronte all’urgenza di intraprendere questa sfida. Che in sé è anche la vera grande sfida della storia di genere oggi.
La storiografia dei più grandi partiti politici italiani, ad esempio, non tiene conto, se non in minima parte, del contributo della storia di genere e, seppur alcuni studi abbiano recentemente applicato la prospettiva di genere all’analisi dei partiti, la principale letteratura di riferimento tende a concentrarsi sui leader maschili di quei movimenti. Viceversa, anche la storia di genere poco si è occupata del binomio donna e politica, concentrandosi più sui femminismi e post femminismi in un’ottica globale.
Il binomio donna-politica pertanto è ancora in gran parte da analizzare, ma nel farlo occorre ragionare in un’ottica che non può essere solo di genere ma della contemporaneità. Se analizziamo il percorso femminile all’interno delle nostre istituzioni e della nostra società, abbandonando l’approccio femminista che tende a ripercorrerlo dal punto di vista delle conquiste ottenute, il quadro appare fin da subito complesso e poco analizzato in profondità.
In Italia le donne arrivano in politica dopo venti anni di battaglie e con grande ritardo rispetto alle donne di altri paesi europei. L’ingresso ufficiale in politica della componente femminile della società è presentato come un riconoscimento formale di un dato che era già realtà. Le donne erano ormai un’importante presenza in termini di numeri nell’attività lavorativa e durante la guerra di liberazione avevano avuto un ruolo determinante. Ma il riconoscimento formale non è né facile né scontato. L’emancipazione femminile e la guerra avevano rotto la separatezza in cui il fascismo aveva contribuito a relegare le donne, chiudendole nel cerchio di ruoli specifici e subalterni, e accettare questa conquista voleva dire obbligatoriamente ridefinire i contorni del maschile.
Il presidente del Consiglio Ferruccio Parri il 20 ottobre 1945, commentando il diritto di voto ottenuto dalle donne dichiara: «Per sbagliare bastiamo noi. E sarebbe eccessivo che vi aggiungeste anche voialtre». E il quotidiano “L’Unità”, organo del Partito comunista italiano, dopo aver definito il suffragio universale «una grande democrazia», invitava le donne a impegnarsi sulla scena locale e non su quella nazionale[13].
Le italiane dopo la guerra acquisiscono quindi il diritto alla politica, che però è fin da subito circoscritto e amputato. Amputato anche nei contenuti, poiché viene ritenuto indispensabile stilare una lista di argomenti idonei a discapito di altri, appannaggio solo ed esclusivamente della componente maschile. Durante la campagna elettorale delle prime amministrative del dopoguerra le donne sono candidate e possono per la prima volta dedicarsi alla propaganda attiva. Alle candidate è però concesso di occuparsi esclusivamente di temi legati alla povertà, alla sanità, all’assistenza, alla disoccupazione, alla famiglia, alla maternità, all’infanzia e ad altre rare questioni ritenute di genere. È loro, se non proibito, comunque sconsigliato, intervenire durante dibattiti di politica estera o in discussioni vertenti su temi di politica economica, urbanistica o militare.
Nei quasi seimila comuni dove si va al voto, le elette sono poco più di duemila. Contemporaneamente inizia anche la campagna elettorale per la Costituente e anche in questa occasione i contorni vengono subito ben definiti, a partire dai numeri: ad esempio la Dc decide di seguire la regola di non candidare più di una donna per ogni collegio elettorale. Le donne elette all’Assemblea costituente il 2 giugno 1946, composta da 556 membri, sono solo 21, poco meno del 4 per cento.
L’ingresso delle donne in politica è quindi circoscritto nei numeri, amputato dei contenuti e, non ultimo, ancorato a vecchi stereotipi. Durante tutta la campagna l’immagine della donna candidata resta inchiodata a stretti canoni estetici, ispirati a un rassicurante cliché mediterraneo. Di Ada Gobetti, una delle figure di spicco della Resistenza, si scrive in “Noi donne”, rivista mensile e organo dell’Udi (Unione donne italiane): «[…] un viso fine, uno sguardo un po’ timido, molto dolce»[14]. La situazione non cambia dopo la loro elezione. Teresa Mattei ricorda così la prima reazione dei deputati all’ingresso in aula suo e delle sue venti colleghe: «[…] interesse per le più carine, tutto un chiedere con chi erano state a letto per essersi potute guadagnare quel posto»[15]. E la giornalista Anna Garofalo, che ha raccontato del primo intervento di una deputata della prima legislatura su un tema non femminile, ha scritto: «Per la prima volta una deputata, Marisa Cinciari Rodano, del Pci, ha preso parola nel dibattito di politica estera […] tra i giornalisti ci fu un moto che si potrebbe chiamare di sfiducia preventiva. Non era una reazione politica […] ma ci si difendeva dal fatto che parlasse una donna. Fu così che […] molti vennero presi dall’impellente desiderio di bersi un caffè e altri andarono a fumare in corridoio, riaffacciandosi di tanto in tanto per scambiarsi sottovoce frasi non troppo nuove sulle pentole che l’oratrice avrebbe trascurato di far bollire e sulle calzette che, certo, non aveva potuto rammendare»[16]. A lasciare l’aula anche decine di suoi colleghi.
Questo interesse settoriale in cui si vogliono relegare le donne inciderà molto poi anche sulla reale partecipazione femminile alla politica, tanto che già dopo la prima legislatura il numero delle parlamentari inizia a calare; si parla di una “ribellione interiore manifesta” a quella che risulta essere un’assurda classificazione e che di fatto scoraggia la partecipazione femminile.
Il confinare le donne in un’area circoscritta della società non si limita alla sfera politica, poiché restano escluse anche da molte professioni fino al 1960, anno in cui la Corte costituzionale dichiara illegittima, in seguito al ricorso di Rosa Oliva, la norma, contenuta in una legge del 1919, che le escludeva dagli impieghi «che comportassero poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato»[17].
Solo nel 1963 le donne ottengono nei fatti la concessione dell’accesso a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici, compresa la magistratura, senza limiti di carriera o di mansioni. Allo stesso tempo però la Corte ribadisce il primato della donna-madre finalizzata alla riproduzione della specie e responsabile della salvaguardia dell’unità familiare. E conferma la legittimità del diverso trattamento giuridico stabilito per l’adulterio maschile, secondo quanto previsto dall’articolo 559 del codice penale del 1930. La stessa Rosa Oliva, anni dopo, ha raccontato che questo importante traguardo era accompagnato anche da profonde contraddizioni legate a stereotipi radicate nella società e appannaggio sia degli uomini sia delle donne. Oliva ha scritto: «M’intervistarono, vennero i fotografi […]. Ricordo una fotografia che mi fecero per un rotocalco vicino alla macchina del caffè, come quella di pochi anni fa per una donna pilota, perché gli stereotipi non finiscono mai. L’altra cosa che ricordo erano i capelli, non avevo fatto in tempo ad andare dal parrucchiere, tutti quelli che mi conoscevano, magari parenti da Napoli, mi dicevano: “Ti ho visto sulla tale rivista, però come eri pettinata male!”. Anche i titoli: il prefetto con lo chignon… E, qualche anno dopo, una giornalista mi chiese di iniziare un servizio televisivo sulla sentenza mentre spolveravo la libreria…»[18]. D’altronde era ancora fresca la sentenza della Corte di Cassazione che stabiliva che non commetteva «abuso dell’esercizio di potestà maritale» l’uomo che esigeva «il sacrificio dell’attività professionale» della moglie, se questa veniva «esercitata in contrasto con i doveri imposti della società coniugale»[19].
Bisognerà aspettare fino al 1970 per vedere approvata la legge sul divorzio, una vittoria ribadita con il “no” al referendum promosso nel 1974 dai clericali che ne chiedevano l’abolizione. Così come le battaglie per la legalizzazione dell’aborto, che si concluderanno con successo solo nel 1977.
Durante il dibattito in parlamento sulla riforma del diritto di famiglia del ’75, il senatore missino Franco Mariani, aveva dichiarato: «Sotto l’aspetto giuridico il nostro diritto vigente non è basato sull’eguaglianza giuridica dei coniugi. Il capo della famiglia è il marito, la donna invece governa la casa, cambiare questo status quo vorrebbe dire travalicare limiti morali e giuridici»[20].
Il 1975 è proclamato dall’Onu Anno internazionale delle donne e in Italia, per l’occasione, si apre una riflessione sul rapporto nel Paese tra donne e politica. I risultati sono sconfortanti: le donne elette sono in calo, ma soprattutto diminuisce fortemente il numero delle candidate che i partiti riescono a esprimere. La Presidenza del Consiglio dei ministri pubblica per l’occasione una raccolta di studi sull’argomento dal titolo “La donna italiana dalla Resistenza ad oggi” in cui, a proposito di “Donna e vita politica”, è scritto: «Se, come si deve presumere, la vita politica, l’attività di partito, ha come presupposto la partecipazione di base a riunioni, ad assemblee, allora si vede che la donna, nella stragrande maggioranza dei casi non è certo favorita in questo tipo di attività. Si possono distinguere due situazioni: la donna casalinga e la donna lavoratrice. La donna casalinga è costretta tra le pareti domestiche ed è fatalmente legata agli orari dei suoi familiari. La sera, quando prevalentemente prima di cena le sezioni dei partiti tengono le loro riunioni, o aprono le loro sedi per gli incontri, la donna è a casa a preparare il pasto serale per il marito, il quale, invece dopo il lavoro ha la possibilità di soffermarsi, se vuole a discutere di politica. Se la donna invece lavora anche fuori casa, mentre crescerà la sua autonomia, diminuirà ancor di più il tempo a sua disposizione. […] Certamente il discorso si fa diverso per la donna non sposata: è arbitra di se stessa e del suo tempo, può, se vuole, partecipare agli incontri politici, come l’uomo. È una rinuncia dura cui alcune donne arrivano. C’è poi un altro caso di donna che riesce a conciliare vita familiare, lavoro ed attività politica: è la “donna eccezione”, a cui è consentito, per una riconosciuta personalità prorompente, il diritto di stabilire da sé orari ed impegni»[21]. Il binomio donna-politica è descritto quindi con la formula “donna eccezione” e a scriverlo sono donne.
La formula resta di moda anche nei decenni successivi e ancora oggi non si può dire superata. Nel 2015 l’ex ministro Francesco Storace riferendosi alla Boschi, colpevole, a suo dire, di restare troppo tempo a Montecitorio, scrive: «Ma questa una famiglia non ce l’ha, che sta sempre a sbaciucchiarsi in Parlamento?»[22].
“Donna eccezione” in Italia è valido soprattutto quando si analizzano i dati reali della presenza femminile nelle istituzioni. La prima donna a essere nominata ministra è Tina Anselmi, nel 1976, e l’Italia arriva a questo traguardo in forte ritardo rispetto agli altri più importanti paesi europei: in Inghilterra la prima donna ministro risale al 1929, in Spagna al 1936, in Francia al 1947 e in Germania al 1961. Da allora saranno solo otto le donne italiane chiamate a ricoprire ruoli-chiave istituzionali nella politica nazionale: Nilde Iotti, Irene Pivetti e Laura Boldrini come presidenti della Camera e Susanna Agnelli, Emma Bonino, Federica Mogherini, Rosa Russo Iervolino, Anna Maria Cancellieri ai ministeri più rilevanti. L’Italia ancora oggi è al 37o posto nella classifica sulla parità di genere in politica, dietro a paesi come Bangladesh, Mozambico, Bulgaria, Burundi e Costarica; al 23o nella classifica sulla discriminazione sessuale ed è terz’ultima nella classifica relativa al rapporto donna e potere (sia politico sia economico)[23].
Appare quindi evidente quanto sia necessario aprire una seria riflessione sul ruolo femminile nella vita politica del nostro Paese, che però non resti solo appannaggio della politica di genere, ma affronti il problema anche da un punto di vista sociale e culturale.
Note
[1] ⇑ Le amministratrici. La rappresentanza di genere nelle amministrazioni comunali anno 2017, a cura di Area Sicurezza e Legalità, Diritti e Istituti di partecipazione e Area Studi, Ricerche e banca dati delle Autonomie locali di Anci, marzo 2017.
[2] ⇑ Ada Natali nacque il 5 marzo 1898 a Massa Fermana (Fm, allora provincia di Ascoli Piceno). Laureata in Giurisprudenza a Macerata, decise di dedicare la sua vita all’insegnamento elementare e alla politica. Era figlia di Giuseppe Natali, sindaco socialista di Massa Fermana, vittima di violenze squadriste già nel 1922. «Dopo l’8 settembre 1943, Ada Natali prende parte alla Guerra di liberazione nelle file della Resistenza marchigiana. Partecipa, con i partigiani del Maceratese, alle battaglie di Pian di Piega e San Ginesio e, dopo la ritirata dei nazifascisti, torna al suo lavoro di insegnante elementare a Massa Fermana. Nel 1949, militante del Pci, è eletta sindaco. È la prima donna, in Italia, che assume questo incarico e, nel 1946, istituisce nel suo Comune le “colonie” per i bambini (un modo per assicurare un piatto di minestra ai piccoli delle famiglie più povere). Nelle elezioni politiche del 1948, la “maestra Ada” è presentata come unica candidata comunista nelle Marche e viene eletta alla Camera dei deputati. Nel 1953 si impegna nella campagna elettorale in Sicilia e, negli anni cinquanta, si batte perché le operaie delle fabbriche marchigiane ottengano regolari contratti di lavoro. Per quel che ha fatto in quel periodo è anche processata, ma i suoi difensori (fra i quali Umberto Terracini), ne ottengono l’assoluzione. Quando si ritira a vita privata, la “maestra Ada” non interrompe i rapporti con il movimento di emancipazione femminile, così come quelli con i dirigenti del Pci, con i quali ha condotto tante battaglie democratiche. Cattolica praticante, ha mantenuto, sino alla morte, avvenuta il 27 aprile 1990, ottimi rapporti anche col clero locale. Ad Ada Natali è stata intitolata una via nella sua città natale» (www.anpi.it/donne-e-uomini/1172/ada-natali).
[3] ⇑ Su 1.202 comuni, 473 sono amministrati da una donna sindaco, pari al 39,4 per cento.
[4] ⇑ Cecilia Robustelli, Infermiera sì, ingegnera no?, in www.accademiadellacrusca.it/it/tema-del-mese/infermiera-s-ingegnera, consultato online nel 2017.
[5] ⇑ Enrico Pagano, Le antifasciste e partigiane della provincia di Vercelli nelle prime elezioni del dopoguerra, in “l’impegno”, a. XV, n. 1, aprile 1995, p. 50.
[6] ⇑ A tal proposito si consiglia di consultare il volume Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, Franco Angeli, 1998 che raccoglie contributi di studiosi e ricercatori relativi alla conquista del voto femminile. Nel volume è pubblicato il saggio di Emma Mana, La rappresentanza femminile nei governi locali: il Piemonte, dedicato proprio alle ricerche relative alla presenza femminile nell’amministrazione in Piemonte condotte da studiosi degli Istituti della Resistenza piemontesi.
[7] ⇑ L’archivio è consultabile online all’indirizzo http://elezionistorico.interno.gov.it.
[8] ⇑ Archivio di Stato di Vercelli, fondo Prefettura di Vercelli.
[9] ⇑ Ombretta Piantavigna, Esser donna sui banchi del Consiglio comunale, in “La Sesia”, 2 novembre 1982.
[10] ⇑ Legge 25 marzo 1993, n. 81, Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale, pubblicata nel supplemento ordinario alla “Gazzetta Ufficiale” n. 72, 27 marzo 1993.
[11] ⇑ E. Pagano, art. cit., p. 55.
[12] ⇑ O. Piantavigna, Cinque donne a Palazzo di Città, in “La Sesia”, 2 luglio 1985.
[13] ⇑ Cfr. Filippo Maria Battaglia, Stai zitta e va’ in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo, Torino, Bollati Boringhieri, 2015.
[14] ⇑ “Noi donne”, 15 agosto 1945; citazione in F. M. Battaglia, op. cit., p. 22.
[15] ⇑ Claudia Riconda, Teresa Mattei, la ragazza del Novecento, in “La Repubblica”, 30 maggio 2006.
[16] ⇑ Anna Garofalo, L’italiana in Italia, Bari, Laterza, 1956, p. 105.
[17] ⇑ Maurizio Molinari – Francesca Sforza, La sfida di Rosa Oliva aprì i concorsi alle donne, in “Origami”, settimanale de “La Stampa”, n. 37, luglio 2016.
[18] ⇑ Ibidem.
[19] ⇑ Sentenza 33/1960 citata in Paolo Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, Roma-Bari, Laterza, 2017, p. 123.
[20] ⇑ Senato della Repubblica, Assemblea, resoconto stenografico, 25 febbraio 1975, p. 19.211.
[21] ⇑ Cfr. La donna italiana dalla Resistenza ad oggi, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, Servizio delle informazioni e della Proprietà Letteraria, 1975.
[22] ⇑ Tweet del 4 maggio 2015, citato in F. M. Battaglia, op. cit., p. 45.
[23] ⇑ Cfr. F. M. Battaglia, op. cit.