Dal modello corporativo al modello della ricostruzione
Stefano Musso
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XX, n. 2, agosto 2000
Il tentativo di delineare un quadro generale dei rapporti di lavoro nelle aree industriali dell’Italia del Nord negli anni quaranta ruota necessariamente attorno alla cesura rappresentata dalla guerra e dalla lotta di liberazione, per valutare persistenze, mutamenti, accelerazioni di processi in corso. Alla dialettica temporale tra continuità e discontinuità si affianca quella spaziale tra caratteristiche comuni e peculiarità locali, in un intreccio complesso di cui è difficile dipanare i nodi. Più che un quadro, sarà possibile collocare alcune tessere di un mosaico riferite a caratteristiche significative che le relazioni industriali assumono nel periodo in esame: prenderò in considerazione il quadro giuridico generale in cui si muove la contrattazione, il centralismo e la contrattazione aziendale, le commissioni interne, il problema della manodopera femminile, i comportamenti e le rivendicazioni operaie.
Il sindacato fascista allo scoppio della guerra
Partirei da una valutazione della situazione in campo sindacale allo scoppio della guerra. Credo che un’ottica importante di ricerca sul sindacato fascista sia quella che sottolinea l’esistenza di conflitti tra le differenti burocrazie del regime. Si tratta di valutare quanto abbia pesato nella vicenda sindacale fascista l’esigenza della burocrazia particolare, rappresentata dal sindacato, di acquisire competenze, di aumentare il proprio peso all’interno della struttura di potere del regime; un peso che poteva venire solo da un seguito tra le masse e al contempo da un controllo sulle classi lavoratrici, che a loro volta non potevano che derivare da una effettiva rappresentanza e difesa di interessi. Il conflitto interburocratico come categoria interpretativa è stata utilizzata in studi sul sindacato tedesco, sul Daf nazionalsocialista, e credo abbia portato a conclusioni, in quel caso, un po’ estremizzanti, che rappresentano però indubbiamente una delle novità più significative rispetto alle vecchie impostazioni che consideravano il sindacato fascista una semplice cinghia di trasmissione delle alte sfere del regime; si tratta comunque di una categoria che può utilmente integrare la definizione togliattiana di “regime reazionario di massa”.
Una ricostruzione attenta delle vicende del sindacato fascista tra il 1925 e il 1944 permette di individuare una periodizzazione fatta di fasi assai diverse per le funzioni e le competenze attribuite al sindacato.
La periodizzazione che propongo è grosso modo quadripartita. In un primo periodo, che va dal 1926 al 1929, al sindacato vengono negate tutte le richieste e aspirazioni: mancato riconoscimento dei fiduciari, sbloccamento della confederazione rossoniana, mancato affidamento della gestione del dopolavoro e degli apparati assistenziali, che vengono attribuiti al partito nonostante (forse proprio perché) costituissero un valido supporto alla capacità di penetrazione del sindacato tra i lavoratori.
Un secondo periodo, di carattere interlocutorio, è quello che va dal 1929 al 1934, in cui, nel bene e nel male, il sindacato ottiene i primi contratti collettivi di lavoro, ma si trova a dover gestire l’applicazione di questi contratti senza lo strumento dei fiduciari. Il riconoscimento dei fiduciari, che era stato chiesto fin dal Patto di palazzo Vidoni, quando era intervenuto Mussolini in persona a negarlo, non a caso viene riproposto nel 1929, quando arrivano i primi contratti da gestire, e per controllarne l’applicazione la rappresentanza interna è strumento insostituibile.
Nel terzo periodo, 1934-39, crescono in misura consistente i successi sindacali, soprattutto sul piano dei risultati della contrattazione collettiva a livello nazionale. I contratti della tornata 1935-1937 introducono norme molto diverse da quelle della prima tornata contrattuale (1928-1930); almeno sul piano formale i passi avanti sono significativi, per le conquiste sul piano normativo, anche se va tenuta presente la sfasatura piuttosto accentuata tra lo spirito, la lettera dei contratti, e la realtà dell’applicazione nelle fabbriche.
Il quarto e ultimo periodo è quello dell’imminenza del conflitto e della guerra, in cui al sindacato viene concesso tutto ciò che gli era stato negato nel 1925-29: gestione del collocamento (1937), riconoscimento dei fiduciari (1939), chiamata del sindacato a cogestire il dopolavoro col partito (1939), potenziamento dell’Ispettorato corporativo e procedure più rapide per l’esame delle vertenze di lavoro (1940), ingresso del sindacato nel campo assistenziale e assunzione delle funzioni del disciolto patronato per l’assistenza (tra il 1940 e il 1942), attribuzione di valore giuridico alla Carta del lavoro (1941).
Contemporaneamente, prosegue quel certo dinamismo contrattuale avviatosi nel 1935. Nel giugno 1941 viene istituita la cassa integrazione guadagni. Nel 1942 viene definitivamente sancita l’illiceità del cosiddetto “cottimo a tempo”, nel quale si esprimeva la tariffa in ore e minuti anziché in lire, così che, dato lo sventagliamento delle paghe orarie di fatto (ben oltre i minimi di categoria contrattuali) accadeva che operai con paghe orarie diverse, adibiti allo stesso lavoro e a parità di rendimento, avessero guadagni diversi. Veniva in tal modo aggirato il principio dell’unicità delle tariffe di cottimo. Le differenze erano particolarmente marcate a svantaggio dei giovani apprendisti adibiti alle macchine e delle categorie femminili. Tra il 1940 e il 1942 viene varata la disciplina del rapporto di apprendistato nell’industria metalmeccanica (successivamente recepita negli accordi da altri settori, compreso il tessile), contro la pratica di adibire giovani assunti come apprendisti a mansioni da operaio, mantenendoli nella categoria di paga inferiore. L’11 giugno 1943 si ebbe l’accordo interconfederale sul lavoro a cottimo delle maestranze femminili, che prevedeva l’applicazione alle donne chiamate a sostituire uomini o che lavorassero promiscuamente col personale maschile attendendo alla medesime mansioni, delle stesse tariffe di cottimo fissate per gli uomini. Sempre in riferimento alle operaie, nell’ottobre 1942 le categorie femminili nell’industria metalmeccanica erano state portate da due a tre: la seconda e la terza corrispondevano alle precedenti (lavori di manovalanza e addette macchine), la prima riconosceva la presenza di lavoro femminile corrispondente a quello dell’operaio qualificato. Nel gennaio 1943 viene decretata dal Ministero delle Corporazioni l’indennità di sfollamento; nell’aprile 1943 entra infine in vigore l’indennità di presenza, precorritrice dell’indennità di contingenza.
Il maggior dinamismo e la crescita di competenze della burocrazia sindacale sono da porre in relazione allo sforzo di preparazione bellica e alla necessaria ricerca di consenso, dopo che i vertici del regime hanno ampiamente sperimentato le capacità di controllo dall’alto degli esiti dell’azione del sindacato.
Il fenomeno va posto in relazione alla guerra, anche perché in regime corporativo non vengono reistituiti i comitati regionali tripartiti di mobilitazione per le vertenze collettive di lavoro del 1915-18, in quanto il sindacato fascista eredita i compiti della mobilitazione industriale nel campo dei rapporti di lavoro. L’interessante ripresa del dibattito sul sindacato e sul corporativismo, nel 1942-43, va letta tenendo presente questo quadro di aumentato peso del sindacato sotto il regime: le recriminazioni dei critici contro i limiti dell’esperienza corporativa, alla Panunzio, non vengono al culmine dell’inefficacia del sindacalismo fascista, ma in una fase contraddittoria, segnata dal massimo dell’attivismo, dal massimo dell’attribuzione di competenze al sindacato, che si accompagna però al logoramento, in conseguenza del disastroso andamento bellico, di quel po’ di consenso o di accettazione pragmatica che potevano essere stati ottenuti in precedenza.
Winkler ha sostenuto che in Germania, durante la guerra, il sindacato nazista ha ottenuto un forte aumento di responsabilità e di potere, e che se il nazismo avesse vinto, sarebbe venuta l’ora del Fronte del lavoro. Vale a dire che in caso di vittoria, almeno in parte, le promesse avrebbero dovuto essere mantenute, lo sforzo del popolo lavoratore combattente, in qualche modo, avrebbe dovuto essere ripagato.
Con la preparazione bellica si attua una destinazione di risorse al riarmo che richiede consenso nel momento stesso in cui impone sacrifici; si apre allora una contraddizione, tra l’esigenza di destinare risorse al riarmo e l’esigenza di conquistare consenso; essendo le risorse limitate, nascono contraddizioni, spinte e controspinte. Sta di fatto che se la contrattazione collettiva fascista ha ottenuto dei risultati, ciò è avvenuto con l’avvio della politica bellicista, perché i problemi del consenso diventavano più impellenti.
Credo che, se si vuole azzardare una formula generale per definire la strategia del sindacato fascista, il ruolo assegnatogli all’interno del regime (lasciando da parte la valutazione, ben più complessa, del grado in cui la strategia sia stata adeguata allo scopo, di quanto il ruolo sia stato effettivamente svolto), una definizione felice, coniata per la Germania ma estendibile alla situazione italiana, sia quella dell’ “integrazione attraverso un conflitto limitato”. Certo, bisognerebbe studiare le varie situazioni locali, probabilmente molto differenziate, perché il personale sindacale fascista non è lo stesso, perché diverso è il peso delle tradizioni operaie, e così via: probabilmente il sindacato fascista ha operato in maniera diversificata, e tra una situazione e l’altra (in particolare tra i grandi centri industriali e le realtà periferiche) si potrebbero scoprire differenze interessanti. Però, in generale, si può affermare che, permanendo il conflitto di interessi (anche se accade, ed è esplicitamente teorizzato, che il conflitto sia subordinato ai superiori interessi della nazione), in concreto si imponga la ricerca di una strategia di integrazione del mondo operaio che passa attraverso forme di conflitto limitate e controllate.
Il conflitto limitato si esprime più sul piano della tutela individuale del lavoratore che attraverso una autentica promozione degli interessi dell’intero gruppo sociale. Il contratto di lavoro va rispettato e si cerca di ottenerne il rispetto. La cosa non è di importanza secondaria, perché i contratti, specie dopo il 1934, presentano alcuni contenuti positivi (le norme sul cottimo che, sulla carta, impongono un controllo sull’operato dell’azienda abbastanza stretto, tanto che saranno in parte abbandonate nel dopoguerra, perché considerate troppo limitanti, e alla lunga capaci di inceppare il progresso tecnico e organizzativo; detto per inciso, la regolamentazione del cottimo non è questione secondaria, perché da essa dipende, data la struttura del salario dell’epoca, la retribuzione quasi per intero – la paga oraria essendo per il cottimista una paga nominale – e il rapporto tra retribuzione e ritmi di lavoro). Ora, indubbiamente, nella applicazione dei contratti il sindacato opera con impegno, e probabilmente qualche risultato nella difesa dei lavoratori lo ottiene; si tratta però di null’altro che di tutela giuridica individuale o di piccoli gruppi.
Quantomeno in alcune situazioni di forte tradizione operaia, il sindacato fascista non si limita all’opera di vigilanza sull’applicazione dei contratti, contratti che sono definiti attraverso una contrattazione molto verticistica e sotto il diretto controllo dell’esecutivo. Il contratto di lavoro stabilisce norme generali all’interno delle quali il rapporto di lavoro deve svolgersi; queste norme rappresentano condizioni minime, al di sotto delle quali l’operaio non deve essere pagato o tutelato: minimi di salario, orario di categoria, trattamenti minimi di cottimo, ecc. Ora, in molte aziende non tutti gli operai erano pagati ai minimi di categoria, alcuni, molti nelle fabbriche medio-grandi, erano pagati meglio. Il sindacato fascista cercava di esercitare una sorta di controllo collettivo sulle politiche aziendalistiche, le politiche di integrazione del personale attraverso elargizioni salariali e assistenziali, al di sopra delle condizioni minime.
Passaggi di categoria, extra-minimi, aumenti di merito, riconoscimento di indennità varie: su tutte queste voci discrezionali, oltre che sulla spesa assistenziale, il sindacato fascista, di nuovo almeno nelle maggiori imprese o realtà industriali, ha tentato di operare una sorta di controllo collettivo: controllo sulle politiche di attrazione da parte dell’azienda nei confronti dei singoli dipendenti, controllo sull’uso da parte dell’azienda del monte salari aggiuntivo al minimo imposto dal contratto di lavoro. Si tratta, di nuovo, di un campo di attività sindacale di non secondaria importanza, anche se le posizioni all’interno del sindacato fascista, tra i rappresentanti di base, erano diversificate (tra chi puntava a una distribuzione meritocratica a favore degli operai più qualificati e chi intendeva ottenere miglioramenti per tutte le categorie), e comunque sempre attente a non entrare in conflitto aperto con le direzioni, anche perché gli scopi dell’assistenza di fabbrica, vale a dire l’adesione dei dipendenti agli obiettivi di impresa e una maggior produttività del lavoratore, erano in larga misura condivisi.
Gli interventi sui criteri di classificazione, le richieste di passaggi di categoria per interi gruppi, il tentativo di controllare promozioni, aumenti di merito, scatti di anzianità, e tutta una serie di voci di questo genere, sono un campo di attività in cui avremo modo di osservare una certa continuità con l’azione delle commissioni interne del dopoguerra. Certo, i tentativi di valicare i limiti della contrattazione nazionale imposta dall’alto non potevano che essere di corto respiro, e allargare di poco lo spazio d’azione. Non c’era infatti alcuna possibilità per i sindacati locali di intraprendere iniziative vertenziali autonome: tutto restava nel quadro delle pressioni informali, della propaganda, dell’appello alla benevolenza dell’impresa. Tuttavia il sindacato fascista si sforzava di operare al di là del mero controllo sul rispetto del contratto di lavoro, che negli intenti del regime era il campo cui doveva limitarsi.
I rapporti di lavoro
I timori ampiamente diffusi tra gli strati operai di fronte alla prospettiva dell’intervento furono aggravati dagli aumenti dei prezzi e dalle prime misure di razionamento. Poiché la partecipazione degli operai allo sforzo produttivo non poteva essere garantita unicamente dalla rigida disciplina e dalla repressione, la propaganda doveva sostanziarsi di qualche provvedimento che lasciasse intravedere la possibilità di miglioramenti della condizione dei lavoratori. Nel vagheggiare un vittorioso nuovo ordine internazionale postbellico, agli operai venivano prospettate soluzioni da “terza via”: i militanti sindacali riproponevano il fascismo come movimento teso alla costruzione di un sistema alternativo tanto alla plutocrazia liberale che al comunismo.
Le soluzioni prospettate per futuri nuovi ordinamenti (partecipazione agli utili, partecipazione alla gestione delle aziende, intervento sindacale nella fissazione delle tariffe di cottimo, oneri sociali accollati completamente alle imprese) puntavano a promuovere il consenso e la collaborazione operaia. Ma questo tipo di propaganda dava risultati contraddittori, perché allargava il divario, già presente negli anni precedenti, tra le aspettative che creava e una realtà operaia in via di rapido deterioramento.
La deriva del sindacato repubblichino verso posizioni di radicalismo terzaforzista, si innesta sulla fase precedente di dinamismo sindacale che abbiamo descritto. Il crescere delle posizioni estremizzanti appare direttamente proporzionale allo sbandamento che ha inizio con gli scioperi del marzo 1943, poi nei quarantacinque giorni, e ancora dopo gli scioperi del novembre-dicembre 1943, quando in più di una situazione il sindacato repubblichino si sentì scavalcato dall’iniziativa tedesca, in quella fase accomodante pur di garantirsi la produzione.
Specie nella primavera del 1944, con l’abbandono dell’ormai screditato corporativismo e la nuova parola d’ordine della “socializzazione” delle imprese (il cui decreto fu pubblicato il 12 febbraio 1944), il sindacato repubblichino in diverse situazioni rinserrò le fila e puntò a conquistarsi uno spazio di consenso. Si occupò di molte questioni assistenziali e contrattuali (passaggi di categoria, paghe dei percentualisti, regolamentazione del lavoro a domicilio) arrivando a formulare proposte rilevanti, a partire dai nuovi minimi settimanali garantiti richiesti alla fine del 1943.
A Torino, il 15 aprile 1944 il comitato esecutivo dell’Unione sindacale provinciale votò un ordine del giorno in cui si avanzavano richieste di un contratto normativo unico per tutti i settori, di retribuzioni “il più possibile uniformi” anche agli effetti di una “seria preparazione alla socializzazione”, di parificazione del trattamento degli operai a quello degli impiegati riguardo a ferie, assegni familiari, indennità di licenziamento; si proponeva inoltre un contratto nazionale unico per gli impiegati che prevedeva scatti di anzianità; si rivendicava infine la trasformazione dell’indennità di presenza in indennità di carovita (sganciata dalla presenza sul lavoro) e l’attribuzione alle donne capifamiglia della stessa indennità prevista per gli uomini (che sarebbe stata attuata dal 1 settembre 1944 con la trasformazione dell’indennità di presenza in indennità di guerra).
Salvo quest’ultima, tutte le proposte erano destinate a restare sulla carta, a dimostrazione dell’aggravarsi, negli ultimi anni di guerra, del divario tra capacità di elaborazione di linee rivendicative interessanti sul piano tecnico-sindacale e capacità di imporne la realizzazione. Né gli imprenditori né i tedeschi avevano interesse a favorire gli sforzi di radicamento dei repubblichini nelle fabbriche. Delusione e impotenza nell’imminenza della sconfitta del fascismo scatenavano atteggiamenti ribellistici, ben esemplificati dalla mozione del comitato direttivo dell’Unione sindacale di Torino in data 7 agosto 1944, la cui diffusione a mezzo stampa venne proibita dal capo della provincia; in tale mozione, con linguaggio farneticante, si parlava di “fumanti rovine del sistema capitalistico che lascia, nella sua scia di ingiustizie e di rapine, un triste retaggio di lutti e di sangue”, mentre il “Proletariato Italiano […] stenta a ritrovare la via della ‘Storia’, o meglio la via della sua missione storica rivoluzionaria”; si vagheggiava in chiusura l’instaurazione di un nuovo ordine basato sui bisogni della collettività. Al fascismo non si faceva mai cenno, tanto da lasciar supporre forse addirittura una ricerca di alleanze a sinistra da parte di un radicalismo populista che si sentiva franare il terreno sotto i piedi. (È lecito spiegarsi in questo modo l’assenza di denunce da parte del sindacato fascista dell’applicazione degli accordi clandestini nel Biellese?)
I comportamenti operai
Il peggioramento delle condizioni di vita si fece netto fin dal 1942. La pesante e progressiva riduzione del potere d’acquisto dei salari si aggiunse ai crescenti disagi del freddo, della fame, dello sfollamento.
Nel marzo 1943 gli operai si riappropriarono del diritto di sciopero e riaffermarono la centralità delle lotte del lavoro, ponendosi come riferimento sociale obbligato per l’opposizione al fascismo. Le rivendicazioni erano principalmente di carattere economico, ma non mancavano le motivazioni politiche: la pace innanzitutto; ma la stessa richiesta di riconoscimento a tutti i lavoratori dell’ “indennità di sfollamento”, promessa ai soli sfollati occupati negli stabilimenti mobilitati, indicava la maturazione di spinte solidaristiche.
Le spinte spontanee di massa si combinarono con una presenza di agitatori clandestini (perlopiù comunisti) inizialmente esigua, ma capace di crescere progressivamente in consistenza e influenza. Ciononostante, le iniziative operaie mantennero un non piccolo grado di autonomia dalle organizzazioni politiche, tanto nella riluttanza ad allontanarsi dal terreno economico-sindacale, quanto nella capacità di mobilitazione sul terreno economico, che in più di un’occasione sorprese i dirigenti politici clandestini.
Data la disorganizzazione produttiva, le rivendicazioni si spostarono dai tradizionali problemi dell’organizzazione del lavoro e dei rendimenti di cottimo alla dimensione sociale e politica, specie dopo l’estate del 1944, con la fase di massima caduta produttiva, quando gli operai persero capacità contrattuale in quanto forza lavoro, essendo saltato il rapporto tra retribuzione e produzione. Sin dall’inizio del 1943 le agitazioni mostrarono una tendenza alla polarizzazione. Da un lato nacquero, con la crescente influenza dell’opposizione di sinistra, quelle di carattere esclusivamente politico. Dall’altro lato i bisogni impellenti creati dalla guerra favorirono l’addensarsi delle aspettative dei lavoratori sulla dimensione aziendale: l’assistenza di fabbrica assumeva una grande rilevanza. Un ruolo importante fu così giocato dalle rappresentanze operaie in azienda.
Durante l’intermezzo badogliano, i commissari alle organizzazioni sindacali di nomina governativa, Giuseppe Mazzini e Bruno Buozzi, rispettivamente per la parte imprenditoriale e operaia, firmarono il 2 settembre 1943 un accordo che reistituiva, dopo diciotto anni, le commissioni interne, elette da tutti gli operai, non dai soli iscritti al sindacato come nella tradizione sindacale prefascista. Nonostante fosse stata preannunciata fin dal 16 agosto, la reistituzione delle commissioni interne arrivò a ridosso dell’occupazione nazista. La gestione commissariale non riuscì pertanto a consolidare le iniziative che avevano preso vita durante i quarantacinque giorni. Le commissioni interne vennero mantenute nell’ordinamento della Repubblica di Salò. Le forze di matrice cattolica, socialista e comunista, che già avevano iniziato una collaborazione sindacale nella breve gestione commissariale, concordarono nel novembre 1943 un’azione comune per la creazione nelle fabbriche di comitati di agitazione clandestini. Si intendeva rinunciare a infiltrarsi nelle strutture sindacali repubblichine, per lasciarle a un crescente discredito.
Le elezioni per le commissioni interne della fine del 1943, secondo le indicazioni dei comitati di agitazione, vennero quasi ovunque disertate dagli operai; ma in parecchi casi, anche là dove il boicottaggio riuscì meglio, si verificarono sorprese: risultarono tra gli eletti elementi di avanguardia, militanti o simpatizzanti delle forze di opposizione, figure di leader operai che sostenevano le esigenze operaie nella contrattazione informale in officina svolgendo, per la loro autorevolezza, funzioni di mediatori riconosciuti anche dall’azienda.
Gli operai volevano dunque che qualcuno contrattasse nell’azienda condizioni migliori. Le materie di trattativa, col progredire del conflitto, diventavano sempre più vaste, coinvolgendo questioni organizzative e assistenziali. Su tali questioni il sindacato fascista si dava da fare, e i militanti antifascisti dovevano contrastarlo: benché il suo discredito fosse crescente, non bastava accusarlo di essere null’altro che un organismo burocratico per l’assistenza spicciola. Da qui un’incertezza negli orientamenti dei gruppi operai attivi, che, secondo i casi e le opportunità, scelsero talvolta di utilizzare le commissioni interne ufficiali, talaltra diedero vita a commissioni autonome giocando sul filo della legalità e scavalcando l’organizzazione sindacale repubblichina. Alla Fiat Mirafiori e Lingotto (Autocentro), ad esempio, la Commissione interna rassegnò le dimissioni nel settembre del 1944. Successivamente comparvero commissioni interne provvisorie, non costituite regolarmente, di cui il capo della provincia vietò il riconoscimento da parte dell’azienda. Tra i membri della commissione provvisoria Mirafiori e Lingotto, numerosi erano i militanti antifascisti (su diciassette nominativi, sei sono stati individuati per certo, da Giampaolo Fissore, come esponenti comunisti e socialisti).
All’inizio del 1944 in molti stabilimenti le commissioni interne, più o meno ufficiali, erano comunque attive; la situazione si faceva sempre più aggrovigliata, col sindacato fascista schierato su posizioni demagogiche che in campo economico-rivendicativo non si presentavano troppo distanti da quelle dei comitati di agitazione. Gli atteggiamenti nei confronti della produzione di guerra si collocavano invece ai poli opposti della collaborazione e del sabotaggio.
Dal punto di vista delle direzioni aziendali, il rilancio delle rappresentanze interne dei lavoratori poteva anche apparire utile; serviva infatti ad affrontare meglio le difficili condizioni produttive: i bombardamenti, le interruzioni di energia e le irregolarità dei rifornimenti di materie prime e semilavorati, il decentramento degli impianti, la disorganizzazione dei servizi e dei trasporti, lo sfollamento dei lavoratori o delle famiglie, i problemi di alloggiamento, le mense interne e gli spacci aziendali, i rifornimenti di legna e carbone per il riscaldamento, la distribuzione delle camere d’aria per le biciclette. Si creavano innumerevoli questioni che esigevano soluzioni concordate tra maestranze e azienda. Di qui la crescita di importanza delle rappresentanze interne e l’ampliarsi del loro ruolo alla cogestione dei problemi organizzativi e delle iniziative assistenziali (e l’assistenza era in parte direttamente finalizzata alla produzione, almeno fino alla metà del 1944). Nel dopoguerra le nuove commissioni interne saranno ancora a lungo impegnate in tali attività, almeno fino a che i rapporti di forza resteranno favorevoli agli operai.
Al di là dello scontro politico e sociale, la convivenza nelle fabbriche tra direzione-proprietà e maestranze creava momenti se non di autentica solidarietà, di collaborazione o compromesso su questioni specifiche. Tali momenti divennero più frequenti alla fine del 1944, col cambio di spalla al fucile da parte degli industriali. Si trattava di salvaguardare la fabbrica: gli impianti dallo smantellamento e dal trasferimento in Germania, gli uomini dalla deportazione. Come ha sottolineato Claudio Pavone, nel condurre la “guerra di classe” gli operai, che certo non costituivano un’unità indistinta per appartenenze culturali e sensibilità politiche, incontrarono non poche difficoltà a individuare il nemico principale e a colpire insieme le tre figure di avversari: padroni, fascisti, tedeschi. Sul piano delle concessioni economiche, infatti, almeno nella fase iniziale, questo ultimi si mostrarono meglio disposti dei primi. Sarebbe auspicabile, a questo proposito, che nuove ricerche locali riuscissero a sottoporre a puntuali verifiche le ipotesi avanzate da Andrea Curami in merito alla collaborazione produttiva delle imprese italiane con gli occupanti. Le sue ricerche su archivi prevalentemente militari lasciano supporre una collaborazione produttiva coi tedeschi assai maggiore di quella ammessa dagli imprenditori, sottoposti ai procedimenti di epurazione nel dopoguerra; le stesse forze resistenziali si mostrarono poco attente a indagare sul fenomeno, forse per una tendenza a sottolineare l’importanza della propria opera di sabotaggio. Del resto, una parte della produzione sembra essere stata realizzata negli impianti decentrati, lontano da occhi indiscreti, attraverso reti di piccole officine, meno esposte ai bombardamenti, con l’utilizzazione di manodopera non politicizzata, relativamente ben pagata e poco conflittuale.
Un interesse degli industriali a esagerare gli effetti dei bombardamenti esisteva già durante la guerra. Per i maggiori stabilimenti delle grandi città, bersaglio privilegiato dell’aviazione alleata, non appare peraltro infondato il quadro tradizionale che insiste sulla carenza di materie prime, le interruzioni dell’energia elettrica, i ritardi nella consegna di parti e semilavorati, le strozzature nel flusso produttivo tra reparti. Tutto questo concorreva a determinare uno scompiglio organizzativo che, rendendo difficile la previsione produttiva, consentiva alle imprese margini di occultamento della situazione reale.
Complesso era il groviglio di spinte e controspinte intorno al sabotaggio della produzione bellica per i nazifascisti. Gli imprenditori respingevano le accuse di collaborazionismo, sostenendo che la non accettazione delle commesse tedesche avrebbe significato la chiusura degli impianti, il loro smantellamento, il licenziamento delle maestranze. Rintuzzavano così la rivendicazione del pagamento dei salari anche in assenza di produzione, coi sovraprofitti accumulati nell’autarchia e nella guerra, e con questa giustificazione potevano ottenere consensi tra i gruppi di operai politicamente moderati o poco schierati. Lo stesso sabotaggio della produzione, oltre un certo limite, comportava il rischio del trasferimento degli impianti e dell’arruolamento nella Todt o della deportazione dei lavoratori. Le forze resistenziali ripiegavano pertanto sulla richiesta che le imprese accettassero i contratti di fornitura, praticando però poi l’ostruzionismo. Qui le posizioni potevano incontrarsi nella ricerca di un difficile equilibrio tra ostruzionismo e consegne, anche perché, dal punto di vista degli industriali, l’accumulo di semilavorati poteva risultare, data la forte inflazione e fatti salvi i problemi di liquidità, economicamente più vantaggioso della vendita immediata dei prodotti finiti.
Nel considerare il clima in cui si sviluppavano i rapporti di lavoro, non si può non tener conto dell’assistenza aziendale. Dopo il marzo 1943 la fabbrica tornò a essere luogo di scontro di interessi, di lotta di classe per i militanti di sinistra; al contempo si accentuò – non necessariamente in contraddizione – la sua caratterizzazione come comunità, luogo della collaborazione tra direzione-proprietà e maestranze. Nei frangenti difficili, l’assistenza di fabbrica non poteva non essere potenziata. Collegata in tempi normali alle politiche variamente paternalistiche di attrazione aziendalistica, di sostegno alla pace sociale interna e alla produttività dei dipendenti, manteneva ancora queste valenze: non si potevano chiedere buone prestazioni a organismi indeboliti; assumeva tuttavia un’importanza maggiore, e forse un significato nuovo, in quanto diventava, per molte famiglie operaie, fonte insostituibile di mantenimento di condizioni vitali minime: il senso della comunità aziendale, o più banalmente la convenienza di far parte dell’azienda potevano risultarne potenziati; si passava infatti dalla percezione di un relativo privilegio su aspetti tutto sommato secondari (quali l’accesso ad attività sportive, cultural-ricreative e, nel caso delle aziende maggiori, alle colonie per i figli e a migliori prestazioni mutualistiche), al privilegio in rifornimenti essenziali di generi di prima necessità, in una situazione in cui le aziende surrogavano la pressoché totale disarticolazione dell’intervento dell’autorità centrale e degli enti locali.
I ventagli retributivi e la manodopera femminile
Com’era già avvenuto durante la prima guerra mondiale, le rivendicazioni salariali assunsero carattere egualitario, e portarono un restringimento dei ventagli retributivi tra le categorie. Erano frutto di solidarietà rinvigorite di fronte all’incertezza dei destini comuni, e della necessità di garantire, in frangenti economici difficilissimi, condizioni minime a chi guadagnava meno.
Le differenze retributive diminuirono per effetto di aumenti non proporzionali sulle paghe base contrattuali, e per il rafforzamento di voci assistenziali (gli assegni familiari soprattutto), l’introduzione di indennità varie e versamenti straordinari, che comportavano aumenti uguali per tutti o comunque meno distanziati delle retribuzioni orarie.
Nell’industria metalmeccanica, fatta uguale a 100 la paga minima oraria di un operaio di terza categoria (manovale specializzato), quella dell’operaio di prima categoria (operaio specializzato) risulta pari a 143 nel 1939, differenza che scende a 125 nel novembre 1944 (al momento delle disposizioni legislative di Salò con cui vennero ritoccate le paghe contrattuali) e a 110 nel 1945, per risalire lievemente a 117 nel 1947 e a 120 nel 1949.
La proibizione di addivenire, localmente o aziendalmente, ad aumenti generali di retribuzione, portò inoltre a forme di “slittamento salariale” attraverso una certa “larghezza” nei tempi di cottimo, e passaggi di categoria più frequenti. Si assistette così, specie nei settori dove i contratti nazionali avevano già introdotto il numero ristretto di categorie sul modello dei metallurgici (per il tessile si ebbe la nuova classificazione in categorie col decreto Spinelli del febbraio 1944), al fenomeno dell’ “inflazione delle categorie superiori”. Negli anni di guerra, i passaggi di categoria corrisposero solo in parte all’aumento della quota di manodopera indiretta impiegata nei lavori di riparazione, manutenzione e preparazione, divenuti più frequenti con i bombardamenti. Servirono a catturare consenso all’azienda e ad aggirare i blocchi contrattuali e i controlli tedeschi e repubblichini sugli aumenti di carattere generale. Da un lato le imprese usavano il controllo esterno delle autorità politiche e militari come un paravento per non acconsentire a determinate richieste operaie; dall’altra elargivano a propria discrezionalità a singoli o gruppi di lavoratori ciò che ritenevano potesse loro giovare. Anche in questo caso si può registrare una continuità nel dopoguerra: il fenomeno dei passaggi facili di categoria non si arrestò, e continuò a rappresentare, fino al 1947-48, una forma di slittamento salariale in un periodo ancora caratterizzato dalla forte inflazione e dall’accentramento contrattuale. Solo a partire dal 1948, con l’inasprirsi della conflittualità politica nei rapporti di lavoro, la tendenza si invertì.
Negli anni di guerra, all’appiattimento dei ventagli salariali tra categorie alte e basse, corrispose una riduzione della discriminazione salariale nei confronti delle donne, anche se l’avvicinamento delle categorie femminili a quelle maschili fu meno accentuato di quello tra categorie maschili basse e alte.
Nell’industria metalmeccanica, il rapporto della paga contrattuale di categorie maschili e femminili corrispondenti quali manovale specializzato e donna di prima categoria, passò da 1,44 nel 1939 a 1,37 nel 1945, a 1,35 nel 1946; ma per avere una diminuzione più consistente si dovrà attendere il 1954 (1,16) prima di giungere alla parità nel 1963. In questo settore, dove la presenza femminile era ridotta e la segregazione occupazionale accentuata (dovunque fosse possibile, le donne erano impiegate in gruppi, reparti e lavorazioni particolari, separate dagli uomini, anche se svolgevano lavori equivalenti per professionalità a quelli delle categorie maschili corrispondenti), lo svantaggio salariale delle donne era più accentuato che nei settori a forte impiego di manodopera femminile. Nell’industria tessile della provincia di Vercelli i differenziali anteguerra toccavano punte massime del 15-20 per cento; nel metalmeccanico solo nel 1946 si stabilì il criterio di un differenziale massimo del 30 per cento nel salario base per le categorie corrispondenti, che venne ulteriormente ridotto al 16 per cento nel 1954.
Tuttavia, con la guerra, anche sotto il regime iniziò una seppur timida tendenza a rivalutare il salario femminile.
Nell’agosto del 1940 le regolamentazioni restrittive dell’impiego di manodopera femminile furono abolite, ad eccezione delle località in cui fosse esistita disoccupazione maschile. La richiesta della parità retributiva tra i sessi aveva fatto capolino nel sindacato fascista durante la grande crisi e nella lenta ripresa occupazionale della fine degli anni trenta. Lo scopo, apertamente dichiarato, era quello di disincentivare le imprese dall’assumere donne, rendendo il lavoro di queste ultime altrettanto costoso di quello maschile.
Nel periodo bellico la mutata situazione del mercato del lavoro, la maggior visibilità della presenza pubblica delle donne e gli elementi di cambiamento nella tradizionale distinzione dei ruoli tra i sessi modificarono almeno parzialmente la percezione del problema, introducendo contraddizioni che corrispondevano a una certa ambiguità dell’immagine femminile del fascismo, nella quale alla sposa e madre esemplare si giustapponeva la donna sportiva, attiva e moderna. Si giunse così all’istituzione della nuova categoria femminile per le donne che svolgevano lavori qualificati, al parziale eguagliamento dei cottimi per lavorazioni identiche, alla parificazione dell’indennità di guerra per le donne capifamiglia.
Nel tessile della provincia di Vercelli, coi contratti repubblichini della fine del 1943, si ebbe la parificazione delle paghe in cardatura, dopo che in tessitura erano già stati eliminati i ridottissimi differenziali nelle paghe e nelle tariffe di cottimo (pari al 4 per cento nel 1940).
Anche in questo caso, dunque, le grosse novità portate dall’azione resistenziale, quali la forte riduzione dei differenziali introdotta dai “contratti della montagna” del Biellese (in particolare quelli del 1945), si innestavano su un processo in atto accelerandolo.
Va tuttavia registrato, durante la guerra, un fenomeno che agiva come controtendenza: i differenziali salariali nella retribuzione totale, comprendente anche assegni familiari, indennità e gratifiche varie, videro accentuarsi lo svantaggio femminile a seguito dell’introduzione di voci integrative o assistenziali diseguali per sesso e legate ai ruoli familiari. L’unica novità in questo campo, l’indennità di guerra, aveva un significato poco più che simbolico, perché ben poche erano le donne capifamiglia.
L’esperienza della guerra ha sicuramente contribuito a una più rapida maturazione di nuovi atteggiamenti e consapevolezze, avviando negli anni successivi un cammino in direzione di un’affermazione non pretestuosa del principio della parità salariale. Tuttavia il cammino fu lento. Nel dopoguerra, come già era avvenuto al termine della prima guerra mondiale, le novità introdotte nel periodo bellico stentarono a consolidarsi e a costituire la base per ulteriori sviluppi.
Fino alla fine degli anni quaranta il sindacato operaio, più che della discriminazione nei confronti delle donne, era preoccupato di introdurre correttivi all’appiattimento dei ventagli retributivi a detrimento della professionalità verificatosi a partire dalla guerra. Va peraltro notato che le quote di rivalutazione dei salari, a tale scopo introdotte nel 1949 e nel 1950, dalle quali era escluso il manovale comune, erano più elevate per le categorie femminili che per i manovali specializzati.
Riguardo al carovita, la decadenza per decreto luogotenenziale dei provvedimenti legislativi della repubblica di Salò (5 ottobre 1944, esteso alle regioni del Nord con la Liberazione) invalidò la parificazione dell’indennità di guerra per le donne capifamiglia. L’accordo istitutivo dell’indennità di contingenza per la provincia di Torino lasciò sussistere la distinzione in base alla posizione in famiglia e non in base al sesso, ma solo dopo che una manifestazione spontanea di donne aveva invaso, il 14 luglio 1945, la sede dell’Unione industriale, imponendo un nuovo accordo. La vicenda vide l’intervento dell’Ufficio regionale del lavoro dell’Amg a considerare inaccettabile un accordo imposto dalle minacce delle manifestanti, e si trascinò fino alla fine del 1945. Alla metà del 1946, le quote suppletive per i capifamiglia vennero assorbite negli assegni familiari e le quote per le donne gradualmente avvicinate, tra la fine del 1946 e l’inizio del 1951, a quelle maschili. Successivamente la contingenza venne computata per categorie, con valori tendenti a restringere il ventaglio salariale.
L’innovazione nello schema delle categorie femminili per l’industria metalmeccanica era invece destinata a essere abbandonata nel dopoguerra; si tornò a due sole categorie, lasciando l’eventuale riconoscimento retributivo del lavoro femminile più qualificato alla mediazione informale e alla discrezionalità delle imprese nella retribuzione superiore al minimo contrattuale.
Le linee rivendicative
Nella primavera-estate del 1945 la situazione nelle fabbriche era di grande incertezza politica e di altrettanto grande disordine organizzativo e produttivo. La maggiori difficoltà economiche venivano dal fronte delle materie prime e dell’energia, nonché dai mercati di sbocco.
Abbondante, anzi eccessiva dal punto di vista aziendale, era la manodopera. Negli stabilimenti di maggiori dimensioni, dove era stata consistente la presenza del movimento resistenziale, la tensione politico-rivendicativa era alta. Ne risultò un blocco dei licenziamenti accettato dalle imprese per contenere le tensioni sociali.
La penosità delle condizioni di vita continuava. Le proteste operaie non riguardavano le condizioni di lavoro, poiché da tempo si lavorava a ritmi ridotti; le mobilitazioni e gli scioperi, numerosi fin dal maggio 1945, erano per aumenti salariali, contro il carovita e i disfunzionamenti del sistema di approvvigionamento alimentare.
I militanti sindacali, forti di un largo seguito di massa, puntavano a collegare le lotte per le condizioni materiali a un duraturo spostamento dei rapporti di forza all’interno delle fabbriche. Le attese rivoluzionarie non portarono alla creazione di veri e propri organismi di contropotere politico sull’esempio dei soviet. Era diffusa la consapevolezza del peso della presenza alleata e dei condizionamenti internazionali. Gli obiettivi immediati, che sembravano a portata di mano e che potevano aprire il cammino verso il socialismo, erano individuati in profonde riforme economiche, sociali e istituzionali (la democrazia, la repubblica, la partecipazione operaia alla gestione delle aziende), da ottenersi con la mobilitazione dal basso coordinata con l’azione di governo: la “democrazia progressiva” proposta dal Partito comunista poteva essere realizzata attraverso la collaborazione, incarnata nell’alleanza dei tre partiti di massa, con altre forze sociali: ceti medi e componenti democratiche e dinamiche della borghesia. In tale alleanza la classe operaia poteva aspirare a un ruolo egemone facendosi carico della ricostruzione, divenendo “classe nazionale”.
La linea del Partito comunista, con le sue implicazioni produttivistiche, era largamente condivisa dai militanti, che nelle fabbriche spronavano a ricostruire e a produrre “perché al governo ora ci siamo noi”. Il produttivismo era alimentato dalla concezione etica del lavoro (dovere sociale e morale) e dai valori industrialisti ampiamente diffusi tra gli operai di fabbrica, specie quelli più stabili e qualificati, che costituivano i nuclei portanti dell’organizzazione sindacale. Il produttivismo si manifestò appieno nei primi mesi dopo la Liberazione, di fronte all’urgenza della ripresa produttiva, sull’onda dell’entusiasmo e della situazione di contropotere in fabbrica. Le commissioni interne, i cui membri eletti erano nella stragrande maggioranza dei casi lavoratori militanti di sinistra, erano in grado di esercitare il controllo operaio su tutti gli aspetti della vita in officina. I consigli di gestione, previsti dal decreto emanato dal Clnai nella giornata del 25 aprile, sembravano spalancare la via a una reale partecipazione operaia alla gestione delle imprese.
Le commissioni interne intervenivano nella gestione delle attività assistenziali e ricreative dell’azienda (mutue interne, casse infortuni, alloggi, mense, spacci, assegnazione di camere d’aria per biciclette, legna, pacchi viveri e vestiario); collaboravano inoltre alla ricostruzione, specie nelle aziende affidate a commissari del Cln in attesa dei procedimenti per collaborazionismo contro i dirigenti. Le commissioni interne si impegnavano nel far rispettare la disciplina, contro gli operai assenteisti, contro i furti di materiale.
I militanti operai si trovavano a dover controllare i comportamenti devianti, gli atteggiamenti estremisti, e dovevano fare i conti con le spinte moderate. Di fronte alle difficoltà della ripresa e all’incombente minaccia della disoccupazione, in non pochi casi la massa delle maestranze appoggiò le richieste di ritorno in azienda degli industriali allontanati, che promettevano di risollevare la situazione attraverso le commesse americane o l’accesso al credito bancario, negati alle gestioni commissariali. Col ritorno degli imprenditori alla guida delle aziende, tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, l’azione ricostruttrice delle commissioni interne venne meno, e tornò a prevalere il loro naturale ruolo sindacale.
La ricostruzione del sindacato nel dopoguerra avvenne all’insegna del centralismo, con la confederazione che avocava a sé ogni decisione contrattuale. Gli accordi del 6 dicembre 1945 per il Nord e 23 maggio 1946 per il Centro-Sud definirono tutto il quadro retributivo, per categorie e per zone. Le paghe contrattuali non potevano essere modificate dalla contrattazione locale. Le funzioni delle commissioni interne erano state definite in termini restrittivi dallo statuto della Cgil unitaria (gennaio 1945), che non riconosceva alle commissioni interne il potere di stipulare contratti. Anche l’autonomia delle camere del lavoro e persino quella delle federazioni nazionali di categoria venne sacrificata al controllo confederale. Vi contribuirono vari fattori: la natura stessa di sindacato unitario, dove le necessarie mediazioni di vertice avrebbero sofferto dei comportamenti dissonanti degli organismi periferici; l’eredità della contrattazione collettiva fascista, con la maggioranza di tutte le correnti favorevole a conservare la definizione pubblicistica del contratto di lavoro e, di riflesso, la natura anch’essa pubblicistica degli organismi sindacali deputati alla stipula, nonché la struttura centralizzata a livello nazionale della contrattazione e dell’organizzazione; la prospettiva di azione concertata coi partiti di massa insediati al governo; il raggiungimento di un equilibrio delle condizioni di lavoro e di retribuzione in tutto il territorio nazionale. Quest’ultima motivazione, assieme a una certa dipendenza del sindacato dal partito (la cinghia di trasmissione è stata peraltro più metafora che realtà compiuta) e al primato riconosciuto alla mobilitazione politica, sta alla base del mantenimento del centralismo da parte della Cgil socialcomunista fino alla metà degli anni cinquanta.
Nell’estate del 1945 il centralismo non era ancora operante. La facile infiammabilità operaia produceva intense trattative per aumenti salariali in molte categorie. La situazione era caratterizzata dalla molteplicità delle competenze, dal controllo delle autorità alleate, e dalla confusione organizzativa legata alle gestioni commissariali delle aziende e delle organizzazioni imprenditoriali. La contrattazione su materie anche molto generali si svolgeva così su base provinciale, sotto la pressione delle agitazioni, con la tendenza a estendere gli accordi considerati “pilota” a livello interregionale.
La centralizzazione diventò operante con gli accordi del dicembre 1945 e maggio 1946, grosso modo in coincidenza temporale con la fine del periodo commissariale e con lo scioglimento dei Cln. La paura dell’inflazione (e dei rigurgiti fascisteggianti che poteva indurre nei ceti medi) e la necessità di sostenere la ripresa produttiva, vista come l’unica strada per il superamento della miseria, della disoccupazione e dei rischi per la nascente democrazia, indussero la Cgil a firmare gli accordi per lo sblocco dei licenziamenti (settembre 1945 e gennaio 1946) e per la “tregua salariale” (ottobre 1946 e 30 maggio 1947: si stabilivano aumenti delle paghe contrattuali con l’impegno semestrale a non presentare ulteriori rivendicazioni, l’adeguamento salariale al costo della vita era lasciato al solo meccanismo della contingenza).
Tuttavia, nella concreta applicazione di questi accordi, le rappresentanze interne operaie, sotto le pressioni e le agitazioni spontanee dal basso (fomentate dalla forte inflazione: l’indice dei prezzi all’ingrosso, in base 1945, giunse a 138 nel 1946 e a 250 nel 1947), aprirono vistose falle, boicottando i licenziamenti e ottenendo nelle singole aziende incrementi salariali sotto forma di aumenti di merito, indennità varie, passaggi di categoria, anticipi sui futuri contratti nazionali, premi di produttività legati al lavoro a cottimo.
In questa situazione la tregua salariale finì per soffiare sul fuoco delle spinte all’accrescimento della parte “aziendale” del salario. L’azione delle commissioni interne da un lato riassorbì nel gioco sindacale la carica rivendicativa e rivoluzionaria che il centralismo e il moderatismo delle mediazioni di vertice rischiava di lasciare insoddisfatta e pronta a riesplodere; dall’altro lato alimentò indesiderate tendenze particolaristiche e corporativistiche tra gli operai: le indennità, gli aumenti di merito o i passaggi di categoria giustificati con le qualità professionali richieste o i livelli di disagio imposti da questa o quella mansione, portavano a infiniti confronti che potevano generare malumori tra i vari gruppi operai. Si trattava di rischi per la compattezza operaia che restarono minimi finché i miglioramenti retributivi, giocati sulle voci aggiuntive e sul funzionamento dei cottimi interessavano un po’ tutti, e non intaccavano l’egualitarismo di fondo delle rivendicazioni salariali; erano però destinati ad aggravarsi negli anni successivi quando, mutati i rapporti di forza dopo il 1948, le direzioni aziendali non accetteranno più di contrattare con le commissioni interne gli esborsi salariali oltre i minimi contrattuali nazionali, ma li utilizzeranno unilateralmente a sostegno delle politiche paternalistiche aziendalistiche.
La posizione degli imprenditori era duplice. A livello di singola impresa, dove la forza operaia era notevole, le direzioni mostravano prudenza e disponibilità a soluzioni concordate; del resto, finché correva l’inflazione, gli aumenti retributivi non diventavano conquiste stabili, e finché durava il riordino degli impianti e la riconversione all’economia di pace, il controllo del rendimento operaio poteva essere lasciato agli standard dello spirito collaborativo che i militanti sindacali continuavano a mantenere. Nello scontro politico generale invece, l’intervento della Confindustria sulla politica economica e la ventilata riforma industriale, assunse toni da crociata, nella difesa del ruolo creativo dell’imprenditore e del laissez faire, anche se nei fatti si cercava insistentemente la protezione statale degli interessi (Mattina). Gli imprenditori erano preoccupati anzitutto di recuperare la libertà di licenziamento, di giungere a una definizione delle competenze e dei diritti delle commissioni interne che ridimensionasse l’azione dei militanti operai, di evitare la sanzione legislativa di istituti partecipativi quali i consigli di gestione, che erano considerati una inaccettabile intromissione nella direzione dell’impresa.
Queste preoccupazioni imprenditoriali si sciolsero tra il 1947 e il 1948. Il 7 agosto 1947 un accordo interconfederale limitò le competenze delle commissioni interne nella contrattazione sindacale, dando vigore a ciò che già lo statuto della Cgil unitaria prevedeva. La rottura della collaborazione di governo e le elezioni del 1948 spianarono la strada alle forze che boicottavano i progetti legislativi di riforma, costretti a una lenta agonia anche se di impronta moderata; l’articolo 46 della Costituzione, sul diritto dei lavoratori di collaborare alla gestione delle aziende, non ebbe attuazione. Lo sblocco dei licenziamenti trovò attuazione in concomitanza con la stretta creditizia attuata alla fine del 1947; la disoccupazione, l’anno successivo, crebbe fino a sfiorare il 20 per cento delle forze di lavoro.
La depressione economica del 1948-49, il contraccolpo della sconfitta del fronte popolare, le nuove prospettive di riorganizzazione e ammodernamento degli impianti aperte dal piano Marshall concorsero a determinare la svolta nei rapporti di forza all’interno delle fabbriche.
Il piano Marshall offrì l’opportunità di condurre a termine la riorganizzazione degli impianti procedendo al contempo al loro ammodernamento. Il raggiungimento di questi obiettivi non si scontrava, sul piano teorico o delle dichiarazioni di intenti, con l’impostazione produttivistica delle organizzazioni operaie. Doveva però fare i conti con una diversa concezione del lavoro e della disciplina. Il rilancio della produzione, specie quella di grande serie, presupponeva il superamento di un periodo ormai lungo, iniziato fin dal 1942 coi bombardamenti e la penuria di materie prime ed energia: nelle officine, la cui organizzazione era stata disarticolata, si era lavorato a ritmi blandi e interrotti. Questa situazione, protratta a lungo nel dopoguerra e accentuata dall’indebolimento della gerarchia di fabbrica, aveva consolidato tra gli operai abitudini di scarsa disciplina e impegno lavorativo, che a giudizio delle direzioni aziendali andavano estirpate; soprattutto non intendevano più tollerare che i militanti operai girassero liberamente negli stabilimenti a fare propaganda politica e proselitismo. Gli operai volevano invece difendere ritmi di lavoro più “umani” e una vita di fabbrica che nel dopoguerra era caratterizzata dall’auto-organizzazione operaia: la fabbrica ospitava le associazioni (reduci, partigiani, giovani), gli spacci, i laboratori per la riparazione delle biciclette, e così via.
Lo sviluppo della produzione veniva riconosciuto come obiettivo fondamentale dal sindacato operaio anche dopo l’esclusione dal governo dei partiti di sinistra. Ma nonostante una cultura, un’etica del lavoro e i valori industrialisti sostanzialmente condivisi, il modello dei rapporti di lavoro proprio della maggioranza sindacale social-comunista, in cui l’organizzazione operaia garantiva l’autodisciplina dei lavoratori e si attribuiva poteri di controllo muovendosi sullo sfondo della difesa della posizione economica degli operai, non poteva non cozzare frontalmente col modello di organizzazione aziendale cui aspiravano gli imprenditori: la fabbrica taylorista e fordista retta da un potere centralizzato che agiva attraverso i gradini di una gerarchia in cui ciascuno doveva stare al suo posto, a svolgere lavori parcellizzati o funzioni esecutive finalizzate agli obiettivi produttivi fissati dalla direzione d’impresa.
Il salto nel controllo sul lavoro e sui ritmi che le aziende intendevano imporre coi progetti di ristrutturazione e di adeguamento tecnologico finanziati dal piano Marshall fu perseguito attraverso due vie: il ridimensionamento della libertà d’azione dei membri di commissioni interne e dei militanti politici, il ritorno alla gestione padronale della parte aziendale del salario. La vittoria delle direzioni d’impresa su entrambi i fronti fu facilitata dalla rottura dell’unità sindacale, consumata sullo scoglio degli scioperi politici e delle mobilitazioni seguite all’attentato a Togliatti; il persistente centralismo della Cgil socialcomunista non si mostrò efficace nel contrastare l’azione imprenditoriale.
Tanto sul piano dei “diritti acquisiti” dai membri di commissioni interne, quanto dal punto di vista delle paghe base superiori ai minimi, dei premi di produzione e dei sistemi di cottimo, le condizioni praticate nelle maggiori aziende erano più vantaggiose per la parte operaia di quanto previsto dai contratti nazionali. Le commissioni interne si trovavano così a non disporre di appigli legali per le loro rivendicazioni: ci si muoveva sul terreno non del diritto ma dell’elargizione. Furono così le aziende a chiedere – man mano che nel corso degli anni cinquanta mutavano a loro favore i rapporti di forza – regole e condizioni a seconda dei casi più vicine ai contratti nazionali di lavoro o lasciate alla discrezionalità aziendale. L’esborso salariale aggiuntivo extra-contrattuale venne sottratto al controllo delle commissioni interne e indirizzato a premiare la disciplina, il rendimento, il merito individuale. Venne cioè collegato al successo in termini di efficienza e produttività della riorganizzazione secondo modelli tayloristici di controllo sul lavoro.
Dalla lettura dei verbali delle riunioni tra coordinamento delle commissioni interne Fiat e Direzione del personale, tra il 1946 e il 1956, risultano evidenti le difficoltà in cui si dibattevano in quegli anni i membri di commissione interna aderenti alla Fiom, presi tra l’incudine e il martello. L’incudine era la Cgil, sindacato fortemente politico e centralista, contrario all’aumento della parte aziendale del salario; il martello era l’azienda, che intendeva tornare a decidere in proprio le modalità e finalità degli esborsi extracontrattuali. La Fiom cercò di correggere i significati e di intralciare gli obiettivi non condivisi delle politiche aziendalistiche, ma giocò e perse la partita sul piano dei mutevoli rapporti di forza in azienda.
Di fronte all’iniziativa delle imprese, i membri di commissione interna aderenti alla Cisl e alla Uil si mostrarono propensi allo scambio tra rendimento più elevato e aumento del salario aziendale, attraverso la contrattazione aziendale del rapporto tra produttività e retribuzione; inoltre, prestando attenzione alle questioni individuali e facendo opera di mediazione, rafforzarono la loro presenza tra gli operai, in un clima di contrapposizioni politiche, repressione e disillusione. E quando, a partire dal 1955, vinse il sindacato aziendale, la situazione, nella concretezza dei rapporti di lavoro, tornò ad assomigliare fortemente a quella degli anni trenta.
I militanti membri di commissioni interne, nelle loro rivendicazioni aziendali, non solo non potevano fare appello alle norme contrattuali, ma non riscuotevano neppure il pieno appoggio dell’organizzazione confederale, che si mostrava preoccupata del rischio che le maestranze delle maggiori aziende risultassero eccessivamente privilegiate e si distaccassero dal resto del proletariato; gli operai dovevano assumere obblighi di solidarietà verso tutti gli strati proletari. Secondo la Cgil, la produzione industriale a partire dal 1948 era cresciuta in una situazione di ristagno dell’occupazione e di insufficiente ammodernamento tecnologico grazie all’aumento dei ritmi di lavoro e al ricorso agli straordinari. Al centro delle preoccupazioni stava il problema della disoccupazione: le rivendicazioni si incentravano sulla limitazione del lavoro straordinario, e sul controllo dei ritmi di lavoro, con un freno ai premi di produzione aziendale e ai cottimi. In connessione con le proposte più generali di politica economica del Piano del lavoro, la Cgil sosteneva la necessità di giungere a una riduzione dei prezzi dei prodotti industriali per ampliare i mercati. Si dichiarava assolutamente favorevole allo sviluppo della produttività del lavoro ottenuta attraverso il progresso tecnologico. Giudicava però che le aziende puntassero alla crescita della produttività non tanto attraverso il progresso tecnico quanto con l’intensificazione pura e semplice dello sforzo operaio (taglio dei tempi e ricorso agli straordinari venivano denunciati come supersfruttamento). Tale giudizio derivava dall’idea, errata quanto ampiamente diffusa a sinistra, che il capitalismo monopolistico fosse incapace di progresso produttivo. Su questa base la lotta contro il taglio dei tempi di lavorazione pretendeva di assumere la funzione di stimolo al progresso tecnico stesso. In realtà erano proprio i miglioramenti tecnici connessi al piano Marshall che consentivano alle imprese di operare la revisione dei tempi di lavorazione sulla base della regolamentazione del cottimo prevista dai contratti nazionali di lavoro.
Così i rappresentanti di commissioni interne socialcomunisti si trovavano in difficoltà di fronte al rapporto tra progresso tecnico, produttività del lavoro e salario aziendale. Tali difficoltà e contraddizioni contribuirono, al pari della repressione, dei licenziamenti e della decapitazione delle fila dell’organizzazione sindacale socialcomunista, alle sconfitte alle elezioni di commissioni interne subite dalle componenti Cgil alla metà degli anni cinquanta.
Mentre gli operai social-comunisti sbandieravano il proprio spirito di collaborazione produttiva nella ricostruzione, Valletta li bollava come “distruttori”. La collaborazione offerta dai primi era in effetti inconciliabile coi modelli di gerarchia di stampo burocratico-militare e coi modelli di razionalizzazione di stampo americanista.
Tali modelli, gli unici che gli imprenditori italiani conoscevano, riconoscevano adeguati e intendevano realizzare, richiedevano una collaborazione esclusivamente passiva. Al punto che, ai fini della repressione dell’antagonismo, le aziende erano disposte a rinunciare al pur prezioso apporto del lavoro qualificato di tanti militanti. Vennero così a mancare, nei rapporti di lavoro in Italia, i presupposti per una regolazione del conflitto attraverso un vero e proprio sistema di relazioni industriali, in cui controparti riconosciute trattassero e mediassero sistematicamente problemi e contrasti.
Gli imprenditori, infatti, nonostante avessero ottenuto la sconfitta delle componenti più oppositive del movimento operaio, e la depurazione della contrattazione dai risvolti politici con la pratica degli accordi separati con Cisl e Uil, non imboccarono la strada del riconoscimento del conflitto di interessi e della sua istituzionalizzazione, in un sistema di mediazione contrattata; percorsero piuttosto i sentieri del paternalismo e della elargizione unilaterale, o dei sindacati aziendali. Le stesse commissioni interne a indirizzo moderato furono relegate ai margini per non avere limitazioni di sorta all’autorità della gerarchia aziendale. La volontà di stravincere degli imprenditori finì così per essere uno dei fattori del ciclo successivo di lotte operaie, dai primi segni del 1962 allo scoppio dell’autunno caldo del 1969.
Le imprese non seppero infatti avvertire l’accumularsi di tensioni tra la pesantezza delle condizioni di lavoro nelle fabbriche taylorizzate e la carenza di servizi per le masse dei nuovi immigrati che affollavano i capannoni e le strade dei centri industriali del Nord negli anni del miracolo economico. Quando la miscela divenne esplosiva, le organizzazioni sindacali furono pronte a organizzare la rivincita: la Cgil, sconfitta non ovunque o non nella stessa misura; la Cisl, che avendo visto frustrate le proprie istanze contrattualistiche finì per sviluppare, nelle sue componenti cattoliche, spinte anticapitalistiche fondate su valori religiosi, associate all’approccio laico e pragmatico ai problemi sindacali; donde l’incubazione di quel tipo di radicalismo rivendicativo destinato a manifestarsi nelle lotte operaie degli anni settanta.
Così la storia del conflitto industriale in Italia si ripropone come idealtipo del paradigma della “ciclicità”, che nega un’evoluzione lineare nella storia delle relazioni sindacali e sottolinea le ondate, le fasi acute che si susseguono a fasi di scarsa conflittualità, in relazione a mutamenti economici, sociali e politici, e all’emergere di nuove rivendicazioni intorno a nuovi bisogni.
Il paradigma della ciclicità si contrappone a quello della “modernizzazione”, che individua (in Germania come caso esemplare) una tendenza secolare alla crescente razionalizzazione della conflittualità attraverso l’organizzazione, capace di valutare il rapporto costi-benefici nelle iniziative di lotta: le forme d’azione violenta cedono il passo agli scioperi, che a loro volta diventano meno frequenti, più brevi, coinvolgenti un più ampio numero di lavoratori, mentre la negoziazione diventa la norma e lo sciopero l’eccezione.
In Italia periodi di protagonismo e di vittorie operaie si sono alternati a fasi di sconfitta: il ciclo ascendente degli scioperi nel primo ventennio del secolo, il fascismo, il secondo dopoguerra, i “duri” anni cinquanta, l’accesa conflittualità sociale degli anni settanta, il ripiegamento degli anni ottanta.
Tuttavia, le più recenti evoluzioni hanno avviato anche nel nostro Paese iniziative che si muovono in direzione di relazioni industriali più organizzate e stabili. Nel contesto internazionale, la caduta del muro di Berlino ha gettato acqua sulle ceneri della drammatizzazione ideologica del conflitto industriale in relazione al mondo diviso in blocchi. Nelle fabbriche le nuove tecnologie informatiche stanno portando al superamento della organizzazione tayloristica a favore di un modello più partecipativo. Con la crisi economica internazionale iniziata nel 1990, le organizzazioni dei lavoratori dipendenti hanno accettato una concertazione della dinamica salariale con industriali e governo che sembra aver aperto una fase nuova di politica dei redditi. La “modernizzazione” sembra aver segnato un punto a proprio favore. Sugli sviluppi futuri, peraltro, è difficile pronunciarsi, date le grandi incertezze del quadro politico e le tensioni sociali che possono essere acuite dalla distribuzione dei costi del risanamento economico.
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