Sara Zanoni
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXI, n. s., n. 1, giugno 2011
Questo articolo vuole essere un contributo in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia e un’opportunità per presentare ai lettori un inedito Garibaldi, scoprire le motivazioni ideologiche che l’hanno sorretto nella scrittura dei suoi romanzi e conoscere l’atteggiamento eclettico, tenace e per molti aspetti davvero moderno con cui si rapporta al mondo.
Nell’agosto del 1862, in Aspromonte, i bersaglieri feriscono Garibaldi al malleolo, costringendolo all’immobilità; nel 1867 si trova indolentemente relegato a Caprera; nei suoi ultimi anni di vita, infine, numerosi acciacchi lo riducono all’infermità.
È in questi periodi che, insofferente all’inerzia, si dedica alla stesura delle “Memorie autobiografiche” (date alle stampe ben quarantasei volte in undici lingue, quando è ancora in vita), di un “Poema autobiografico”, in cui rievoca gli episodi salienti della sua vita di combattente, e di quattro romanzi storici, dei quali sarà approfondita l’analisi in questo articolo. I titoli: “Clelia o il governo dei preti”, “Cantoni il volontario”, “I Mille” e “Manlio”; l’ultimo sarà pubblicato postumo.
Le parole vivide e avvincenti della biografia realizzata da Indro Montanelli e Marco Nozza ci soccorrono nel non facile tentativo di immaginare «quest’uomo assetato di battaglie e coraggiosissimo di fronte al nemico » costretto a fare i conti con un doloroso senso d’impotenza, e ci consentono quasi di vederlo, nella sua camera, intento a stendere le sue memorie: «A letto, Garibaldi scriveva. Gli avevano regalato un tavolo apposta, con l’asse inclinata che gli giungeva fin sotto il mento. Un fermacarte fissava i fogli. Faticosamente, egli li riempiva di una malcerta scrittura a matita, che poi ripassava con la penna»[1].
Più volte, in alcuni passi de “I Mille” e di “Manlio”, è lo stesso Garibaldi a stabilire una marcata distanza fra il vecchio narratore «inaridito dagli anni» e il vigoroso protagonista di tanti lontani eroici combattimenti, e a riflettere sul suo presente, pieno di disagi, descrivendo con amarezza le sue precarie condizioni fisiche: «Io son deforme […]; perdetti un occhio, una caduta mi rese zoppo, ed il vajolo marcò talmente il mio povero volto da sembrar un’onda in tempesta. Che ne posso io!»[2].
Col passare del tempo, la scrittura di Garibaldi si fa sempre più incerta e di grandi dimensioni, come possiamo verificare esaminando il manoscritto del suo ultimo romanzo. A causa dell’artrite, le sue mani sono rigide e impedite nei movimenti.
Egli poi, «seduto sul suo letto di dolore e reso invalido […] dai malanni»[3], si rammarica di non avere più la lucidità per richiamare alla mente i nomi dei suoi volontari e consegnarli così alle lodi dei posteri: «Oh! S’io potessi ricordarmi di tutti i vostri nomi, miei cari, belli, giovani compagni! Io, con questa mano, già indurita dagli anni, inerte, li consacrerei in queste poche pagine alla gratitudine di generazioni […] che sapranno dovutamente apprezzare il sublime olocausto dell’esistenza vostra preziosa»[4].
La prefazione posta all’inizio del suo secondo romanzo, “Cantoni il volontario”, è fondamentale per comprendere le ragioni che spingono l’anziano condottiero a «farla da letterato» e per cogliere lo spirito con cui egli si accinge a scrivere. Queste pagine, in parte riportate di seguito, intitolate “Prefazione ai miei romanzi storici”, costituiscono quasi una dichiarazione di poetica sulla quale si fondano tutti i suoi scritti.
«Caprera, 15 dicembre 1869. Non potendo operare altrimenti, ho creduto ricorrere all’opera della penna: 1. Per ricordare all’Italia molti de’ suoi valorosi, che lasciarono la vita sui campi di battaglia per essa. Alcuni son conosciuti, e forse i più cospicui, ma molti dormono ignorati, che non furono da meno dei primi. A ciò mi accinsi, come a dovere sacro. 2. Per trattenermi colla gioventù italiana sui fatti da lei eseguiti, e sul debito sacrosanto di compire il resto, accennando colla coscienza del vero le turpitudini, ed i tradimenti dei reggitori e dei preti[5]. 3. Infine, per ritrarre un onesto lucro dal mio lavoro »[6].
Altrove, Garibaldi affermerà: «Vecchio – e poco più atto, o nulla, all’azione materiale – devo limitarmi a consigliare i giovani che ponno utilizzare la mia esperienza»[7].
Come ammette non soltanto in queste pagine, il suo scopo principale è dare un contributo alla causa della patria, ricordare tutti i giovani eroi che per essa hanno dato la vita e spronare la generazione futura a fare altrettanto per l’Italia nascente, senza adagiarsi nel ricordo delle glorie passate o indugiare in vuoti e amari rimpianti.
L’incedere degli anni ha privato l’anziano condottiero della prestanza fisica, ma non del fervore, e perciò egli cerca, attraverso la celebrazione del passato, di rievocare e rivivere quegli anni di entusiasmo. Inoltre, trovandosi in ristrettezze economiche, non nasconde la necessità di ricavare un utile dalla sua attività di scrittore; ed è anche questo, insieme al desiderio di diffondere lo spirito patriottico, il motivo che lo spinge ad abbandonare gli endecasillabi sciolti del “Poema autobiografico”, poco intesi dal già esiguo pubblico, e ad adottare la forma del romanzo, per raggiungere un numero più vasto di lettori.
Nella frustrazione che la sua infermità gli procura, Garibaldi scrive, quasi sentisse che anche la parola è in qualche misura azione. Egli afferma: «Varî bisogni mi spinsero nel novero di scrittore di libri, per cui io ero poco idoneo certamente»[8].
È pertanto consapevole della sua «ben mediocre capacità letteraria» e definisce il suo lavoro «pieno di lacune e di dimenticanze »[9]. Inoltre ha una limitata conoscenza dell’ortografia[10] e una scarsa padronanza della sintassi, frequentemente imprecisa e arbitraria[11]; le sue opere sono caratterizzate da una scrittura ingenua e da un elementare, e del tutto personale, impiego della punteggiatura.
Spesso Garibaldi rischia di lasciarsi sfuggire il filo conduttore della trama dei suoi romanzi, perdendosi in digressioni e accese polemiche. La narrazione diventa intricata e confusa, e non sempre l’autore, scrittore improvvisato, riesce a recuperare in breve l’attenzione e a dedicarsi nuovamente al discorso principale. Nel momento in cui questo accade, egli attribuisce la colpa della sua distrazione alle proprie scarse competenze grammaticali e letterarie oppure ai vuoti di memoria che caratterizzano l’età avanzata («All’obblivione si è condannati quando si è vecchi!»[12]), e di rado ammette che sono le ripetute invettive che lancia a fargli smarrire la concentrazione: «Scusate; dimenticavo il mio tema […]. E ciò mi succede ogni volta che mi passan per la mente preti e tiranni, menzogne e violenze»[13].
In “Clelia o il governo dei preti” propone il topos dell’inadeguatezza dello scrittore ad affrontare un argomento nobile ed elevato. Dopo aver citato un lungo passo tratto dalla “Storia dell’Italia dall’origine di Roma all’invasione dei Longobardi” di Vannucci[14]. Sara Zanoni 100 l’impegno (definito «grandissimo scrittore dell’Italia Antica»), egli dichiara: «Questo superbo squarcio di poesia patria […] – io ho voluto addurre – per sorreggermi nella troppo, per me, ardua impresa di descrivere la Roma dei tempi eroici – e la non morta virtù degli abitatori del Lazio moderno»[15].
Forse grazie all’acquisita dimestichezza con la scrittura, Garibaldi dimostra un’adeguata padronanza della trama in “Manlio”, il suo ultimo racconto, nonostante non abbia avuto il tempo di revisionarlo.
I suoi sono romanzi storici manzonianamente intesi, nei quali, accanto alla verità dei fatti, si trova l’invenzione verosimile di personaggi credibili e di eventi secondari che non falsificano né contraddicono la “grande storia”. Egli afferma: «Stanco della realtà della vita, ho creduto di adottare il genere Romanzo storico, stimando far bene. In ciò che appartiene alla storia, credo d’esserne stato l’interprete fedele […] Circa alla parte romantica, se non ci fosse la storica, in cui mi reputo competente […], io non avrei tediato la gente in un secolo in cui scrivono romanzi i Guerrazzi ed i Vittor Hugo»[16].
Garibaldi ne “I Mille” rimanda chi desidera ripercorrere la storia ufficiale attraverso un racconto puntuale, oggettivo e non romanzato, alle sue “Memorie autobiografiche”, redatte in via definitiva due anni prima, e dichiara: «Io scrissi bene o male sotto forma romantica una campagna ch’io potevo esibire puramente storica, e che spero narrata nelle mie memorie senza involto romantico, essa potrà bene, alla storia, servir di materiale»[17].
Spesso il condottiero difende con risolutezza e fervore la veridicità di ciò che riferisce nei passi in cui narra le vicende realmente accadute. Ancora ne “I Mille” leggiamo: «Benché io m’abbia l’aria di scriver romanzi, io scrivo storia qui e storia che non mi fu contata. Storia, sì…! del mio popolo, della mia terra!»[18].
Un fermo proposito che anima tutta l’opera di Garibaldi, annunciato già nel punto 2 della prefazione a “Cantoni il volontario” e perseguito in maniera quasi ossessiva, è denunciare la degenerazione e l’ipocrisia del clero, profondamente radicato nella nascente nazione e colpevole, secondo l’autore, di delitti e aberrazioni orribili. L’oscurantismo della Chiesa è considerato il più grave problema, l’impedimento più arduo da sconfiggere per liberare Roma dalla corruzione e consentire all’Italia una rinascita spirituale. L’ordine ecclesiastico, dominato da uomini potenti e dissoluti, tiene la nazione prigioniera di una falsa morale e continua ad arricchirsi e a strumentalizzare le masse, impedendone l’emancipazione e la capacità di ragionare.
Per questi motivi, Garibaldi pronuncia terribili invettive in cui accusa la Chiesa di innumerevoli misfatti. Infervorato e sprezzante, esclama ad esempio: «Italia, sullo stesso sito ove giacciono calpestate ed insepolte le ossa dei tuoi prodi, il tuo vampiro, il tuo mal genio, il vituperevole prete innalza monumenti all’immorale schifoso mercenario che deturpa, santifica i carnefici, canta Te-Deum alle sue orgie (sic) di menzogne di sangue!».
«E peggio ancora! Tu, meretrice fracida di prostituzione, ogni giorno vai a inginocchiarti ai piedi d’uno di questi assassini de’ tuoi figli!!!»[19].
«Quando le scritture, che gli stupidi ed i furbi chiamano sante o sacre, collocarono al lato della coppia primitiva per tentare la prima debole donna il serpente, esse avrebbero dovuto a tante invenzioni aggiungere l’invenzione d’un prete, invece del rettile; essendo il prete il vero rappresentante della malizia e della menzogna […] più atto assai alla corruzione e al tradimento dello schifoso e strisciante abitatore delle paludi»[20].
«Oh sì! maledetta fosti terra di Roma, dal giorno in cui diventasti il covile delle volpi e dei coccodrilli, dal giorno in cui [essi] con nera sottana furono scaraventati dalla mano di Lucifero, in una tempesta di maledizione universale, per vendicare l’umanità soggiogata, afflitta, contaminata dai superbi e corrotti dominatori del mondo!
Sì! Solo i preti potevan essere un castigo adequato (sic) a tanta nequizia! Solo i preti con la pestifera loro bava potevano avvelenare […] il grandissimo popolo, e subbissarlo (sic) in quella cloaca di prostituzione e d’infamia, a cui non arrivò nessun popolo della terra! Sì! Solo i preti potevano sorridere […] per la sventura della loro terra natia, colla menzogna, colla corruzione ed il vassallaggio allo straniero! Solo i preti!»[21].
Garibaldi giunge a lanciare questa violentissima invettiva blasfema anticlericale: «Aggregarsi alla vostra fede eh! Credere alla virginità della madre di Cristo, come voi credete a quella delle vostre Perpetue! E mangiar l’Ostia con dentro l’Infinito! Ah birbanti! Voi non le credete queste fandonie con cui infinocchiate le vecchie peccatrici! Con cui voi gettatte (sic) le nazioni nell’abbrutimento, nel servaggio e nella sventura»[22].
Colto dal dubbio di essere stato un po’ eccessivo, egli talvolta giustifica il suo sdegno: «Se la mia penna troppo sovente s’intinge nel fiele e se sovente si tempera ma non col gentile temperino, ma coll’acuto triangolare, terribile pugnale del carbonaro, ne ho ben donde!»[23].
Altrove lo scrittore, pur non rinunciando agli attacchi contro il clero, li attribuisce ai personaggi del suo racconto attraverso il discorso diretto o l’indiretto libero, prendendo in qualche modo le distanze da quanto si dichiara.
In “Manlio” leggiamo anche un’allusione alla pedofilia. Qui il condottiero, consapevole della carica eversiva della sua riflessione, fa parlare un medico, il dottor Ferrari, che, in quanto seguace della verità scientifica, «sacerdote della scienza», e «liberissimo pensatore», ben si contrappone alla falsità di un clero considerato mendace. A un commento di un ex ufficiale dei Mille sulla galanteria di cui si servono i preti per adescare le fanciulle, «“vorrei che solo di donne fossero ghiotti i perversi”, rispose il chirurgo e non proseguì. Diede un’occhiata ai bambini e ricadde nei tetri e melanconici suoi pensieri»[24].
L’esame di alcune perifrasi dedicate alle gerarchie e alle strutture ecclesiastiche rafforza il senso del risentimento che Garibaldi prova verso questo mondo.
Il pontefice è definito «il più abbominevole (sic) degli impostori», «maledetto mitrato nemico dell’Italia», «sacerdote dell’oscurantismo », «il maggiore degli scarafaggi», «capo dei corruttori d’Italia».
All’istituzione del papato sono riservate espressioni come «il più detestabile, il più schifoso dei poteri umani», «fucina infernale », «cancro nel cuore».
Al clero, in generale, sono rivolti gli appellativi «setta scellerata», «peste del genere umano», «meretrice setta», «nera razza di Caino», «canaglia nel consorzio umano», «santa Stalla».
La figura del prete è apostrofata come «impassibile ministro dell’inferno», «volpe del genere umano», «la più prava, la più schifosa delle creature», «astuto nemico d’Italia», «maestro d’ogni inganno e d’ogni impostura», «pianta ingorda e parassita», «ministro di Satana», «nero manigoldo», «sacco di delitti», «nero avanzo di galera», «scellerato sedicente servo di Dio», «Lucifero dell’Italia e del mondo», «perverso maestro camaleonte», «tarantola», «parto dell’inferno », «insidioso levita», «vampiro dell’umanità », «ghiotto epulone che ha digerito la coscienza nella pancia», «eccitatore e compagno dei camorristi e dei briganti», «schiuma d’inferno», «astuto corifeo[25] del Negromantismo»; sulla stessa linea, nel riferirsi al ventre di un prete, Garibaldi usa la metafora «santuario della negromanzia», mentre l’altare è considerato «trono della negromanzia» e il confessionale «santo canile ». A proposito dei luoghi di formazione del clero come il seminario, usa l’espressione «semenzaio dell’errore», mentre definisce un convento femminile «harem dei moderni sacerdoti di Venere e Bacco».
Se la violenza delle parole riservate alla Chiesa e ai ministri del culto non lascia spiragli di possibili riconoscimenti di funzioni positive, Garibaldi tuttavia crede fermamente in Dio. La sua anima, come quella di ogni uomo, è un impercettibile frammento di quella divina: scintilla/ vicinissima al nulla, ma pur parte/ di quel tutto supremo. Oh sì, di Dio,/ sì, particella dell’Eterno sei,/ anima del proscritto![26].
L’eroe dei due mondi ritiene che una fede avveduta e illuminata dalla ragione possa apportare alla società un notevole progresso; a far regredire l’uomo sono soltanto i soprusi perpetrati dal potere temporale della Chiesa e le false credenze e superstizioni ideate e imposte dal clero. Quest’ultimo non fa altro che mantenere i popoli nell’ignoranza e nell’indigenza, raggirandoli a proprio vantaggio e fomentandoli contro i liberatori d’Italia. Infatti leggiamo: «Cristo […] contribuì non poco a propagare il dogma dell’emancipazione. […] Tutto il male consiste nella gestione che gli impostori si sono assunta di mercanteggiare Dio e di prostituirlo nella loro bottega che chiamano chiesa»[27].
«L’Italia, nella cieca noncuranza in cui si dondola, non si capacita di ciò che ponno i preti nelle campagne. Non esiste il benché minimo villaggio ove risiede un prete, che non sia un focolare di reazione, una scuola d’ignoranza e di tradimenti alla patria»[28].
E ancora: «“Manteneteli poveri”. È questo il precetto della tirannide e del prete»[29].
Anche la morte, che di per sé è «una naturale circostanza o trasformazione degli esseri», è rappresentata come un evento orribile e spaventoso dai preti impostori, che hanno speculato su di essa «con le loro favole terribili d’Inferno, di Purgatorio e tante altre menzogne».
Garibaldi, nella sua solida razionalità, è invece scettico su alcuni inspiegabili misteri della fede. Ad esempio, a proposito dell’immacolata concezione della madre del Messia, afferma: «Vi sarebbe la vergine Maria fecondata dallo Spirito Santo, ma cotesto è un misticismo quasi materiale, giacché qui si tratta d’una vergine già maritata e che partorisce un bello e robusto maschio quale era Cristo»[30].
Si irrita inoltre al pensiero che qualcuno voglia erigersi a intermediario fra Dio e l’uomo, ed esclama cinico: «La confessione poi! […] chi può togliere alle nostre donne la mania ridicola di andar a contare a cotesti miserabili le loro mancanze? […] immondo confessionale, vero serbatojo di corruzione»[31].
Infine, improvvisandosi precettore, si rivolge così alle madri: «Togliete i vostri figli dall’educazione del prete, se no, avrete la colpa […] d’avere dei figli vili, falsi e mentitori, non dei forti, coraggiosi, propensi al bello ed all’onesto, insofferenti di oltraggio, come dev’essere la gioventù italiana»[32]
Il principale teatro delle vicende narrate nei romanzi di Garibaldi è la penisola italiana dell’Ottocento, nel periodo compreso tra la prima guerra d’indipendenza e gli anni immediatamente successivi all’unificazione e alla proclamazione di Roma capitale.
In quest’ottica Roma prima incarna la massima ambizione degli uomini del Risorgimento, che nell’unificazione della penisola sotto il governo centrale dell’Urbe scorgono il culmine delle loro speranze, e successivamente «appare il simbolo delle aspirazioni e delle frustrazioni della borghesia nazionale, in una fase di sviluppo ancora legata all’assestamento delle conquiste risorgimentali»[33].
I patrioti hanno il dovere di unire l’Italia e i cittadini del nuovo stato hanno il duro compito di guidare la penisola verso il raggiungimento del concetto di nazione, di svecchiarla e di portarla a competere con gli altri stati europei, perciò la città eterna ha allo stesso tempo una missione unificatrice ed emancipatrice. Garibaldi afferma: «Roma per me è l’Italia, e non vedo Italia possibile, senonché nell’unione compatta, o federata, delle sparse sue membra. Roma è il simbolo dell’Italia una, sotto qualunque forma voi la vogliate. E l’opera più infernale del papato era quella di tenerla divisa moralmente e materialmente»[34].
«La nazione ha […] il diritto di sperare nel buon andamento che il popolo dell’illustre Capitale saprà dare alla Vita Italiana»[35].
La Roma repubblicana dei grandi eroi viene continuamente sovrapposta a quella del presente, ora per deplorare la corruzione di quest’ultima, ridotta a un «amalgama informe e pestilenziale di menzogne, di prostituzione, di servaggio, di degradazione umana »[36], ora nella certezza che un barlume delle remote virtù sia ancora vivo e forte nei giovani dell’Ottocento, successori, seppur lontanissimi nel tempo, degli integerrimi antichi romani.
Ecco come il condottiero apostrofa Roma: «Io m’inchino davanti alla grande metropoli del mondo, davanti… alla grandissima meretrice! Panteon delle maggiori grandezze umane ed oggi fatta lupanare d’ogni schiuma di ribaldi dell’Universo. E tale doveva esser la sorte dell’Urbe! Calpestando sotto i suoi piedi d’acciajo le nazioni, e dalle nazioni precipitata all’ultimo grado della scala umana. […] Eppure m’inchino davanti a te, Roma!… perché in te spero, in te che lavata dall’immondizia di cui sei insudiciata oggi, riapparirai risplendente dall’aureola della libertà come a’ tempi de’ tuoi Cincinnati, non più per agiogar le nazioni, ma per chiamarle alla fratellanza universale»[37].
Così poi ammonisce i patrioti e li incoraggia a liberarsi dalla sottomissione a poteri politici stranieri: «Se sono largo di elogi agli odierni discendenti dei Quiriti, ciò sia un pegno per il loro contegno avvenire»[38].
«Un popolo disposto a non piegare il ginocchio davanti allo straniero è invincibile, e non abbiam bisogno di andar lontani per cercar degli esempi che lo provino: Roma dopo la perdita di tre grandi battaglie, e col terribile suo vincitore alle porte, faceva sfilare le sue legioni alla vista di Annibale, e le mandava in Spagna! Si trovi un esempio simile in qualunque storia del mondo! E quando si è nati sulla terra di tali portenti, colla fronte alta si possono spezzare le tracotanze straniere»[39].
Nelle sue “Memorie autobiografiche” Garibaldi ricorda l’impressione che ha sempre suscitato in lui l’Urbe, fin da quando, ancora fanciullo, la visitò per la prima volta con suo padre. Egli avverte scaturire dalle rovine di Roma la grandezza del passato; circondate da una natura sublime, che conferisce loro una maggior solennità, le vestigia della città eterna sembrano garantire che «i lontani figli non perderono (sic) l’energia dei primi padri»: «La Roma ch’io scorgeva nel mio giovanile intendimento, era la Roma dell’avvenire, Roma di cui giammai ho disperato: […] La Roma dell’idea rigeneratrice d’un gran popolo! […] Roma mi diventava […] cara sopra tutte le esistenze mondane. Ed io l’adoravo con tutto il fervore dell’anima mia. Non solo ne’ superbi propugnacoli della sua grandezza di tanti secoli, ma nelle minime sue macerie»[40].
Anche la Sicilia viene nobilitata e definita «isola dei portenti, […] patria di Cerere, d’Archimede e dei Vespri». Se i protagonisti del Risorgimento sono i discendenti degli antichi eroi repubblicani, i siciliani, che hanno un ruolo fondamentale nel successo dell’impresa garibaldina e che ormai sono insofferenti alla monarchia, vengono paragonati per il coraggio ai loro avi del XIII secolo, che cacciarono i francesi. Durante i Vespri, infatti, l’insurrezione contro la dominazione angioina scoppiata a Palermo nel 1282 si propagò rapidamente a tutta l’isola, preparando la strada all’offerta della corona a Pietro III d’Aragona. Ne “I Mille” il narratore esalta così i “picciotti”: «Roma cacciò i Tarquini, Saragozza i Napoleonidi, Genova e Bologna gli Austriaci. Ma chi, come questo invitto popolo esterminò in poche ore un esercito formidabile d’oppressori senza lasciarne vestigio? Fatto unico nella storia del mondo!»[41].
Tutti i personaggi positivi e virtuosi a cui Garibaldi dà vita hanno nomi classici. Ecco qualche esempio. Clelia ricorda la coraggiosa nobile romana che nel VI secolo avanti Cristo, rapita da Porsenna, riuscì a fuggire e a tornare a Roma attraversando a nuoto il Tevere, suscitando l’ammirazione dello stesso re etrusco. Attilio, suo fidanzato, è il capo dei cospiratori e l’eroe magnanimo: come Regolo, che si è conquistato la fulgida fama di salvatore della patria, anche il nuovo Attilio è esempio di retta fermezza morale e virtù civiche.
Marzia, la protagonista de “I Mille”, porta il nome della sposa di Catone l’Uticense; concessa dal marito, secondo gli usi del tempo, a Quinto Ortensio, dopo la morte di quest’ultimo Marzia tornò da Catone, assurgendo a simbolo di fedeltà coniugale[42]. In “Manlio” il prode nostromo Fabio mostra «un’imperturbabilità degna del suo nome »[43], ricordando i trecento esponenti dell’omonima famiglia romana.
Lo scrittore attribuisce invece ai personaggi malvagi nomi significativamente connotati in senso negativo. In “Cantoni il volontario”, don Gaudenzio è un prete dall’indole libidinosa e godereccia. Monsignor Corvo de “I Mille” ricorda l’omonimo animale portatore di sventure e suggerisce la rapacità con cui l’alto prelato si avventa sulle sue vittime innocenti. Don Pantano, personaggio secondario di “Clelia o il governo dei preti”, è un sacerdote di dubbia levatura morale.
Garibaldi, come abbiamo visto, nutre grandi speranze nel futuro della penisola. In realtà, nonostante la fiducia che ripone nelle potenzialità di Roma, resta presto deluso nel vedere un’Italia ben diversa da come l’aveva sognata. Insofferente nei confronti dei compromessi della politica, indignato dalla corruzione del mondo parlamentare e dalla debolezza della sinistra, lascia spesso trapelare dalle pagine di “Manlio”, l’ultimo romanzo, la sua amarezza e il suo sconforto.
Osserva infatti con gran rammarico: «Il governo presente (gennajo 1876) altro non è che una continuazione del governo dei preti»[44].
Non essersi interessato tempestivamente alle difficoltà del Mezzogiorno è, secondo Garibaldi, il più grave errore del governo. Dal 1860, quando le province meridionali sono entrate a far parte dell’Italia, esso «fece di tutto per disgustarle […] e molta di codesta gente a cui l’unità nazionale cagionava pregiudizi e miserie, rimpiangeva l’antico regime »[45]. Il condottiero considera gravissimo il problema dell’analfabetismo del Sud; il governo italiano non si è preoccupato di garantire un minimo livello di istruzione alle plebi, pertanto negli anni settanta «troviamo queste tanto ignoranti […] come lo furono ai tempi dei Borboni».
Non potendo, per ragioni di spazio, esaminare dettagliatamente tutti i romanzi, riporto in maniera approfondita soltanto l’analisi condotta su “I Mille”, che ci permetterà non solo di conoscere il contenuto del racconto più avvincente, ma anche di individuare le principali strategie narrative utilizzate.
L’opera presenta una trama molto articolata, e in essa l’autore coincide con il narratore, esterno e onnisciente.
Il racconto ha principio quando 1.089 uomini si imbarcano a Quarto, nella notte del 5 maggio 1860, alla volta della Sicilia. Per mezzo di un breve flashback ci viene rivelato che i patrioti siciliani, nella primavera dello stesso anno, hanno dato vita a una rivolta separatista sanguinosamente repressa nel sangue dall’esercito borbonico e in seguito si sono appellati a Garibaldi, chiedendogli di guidare una spedizione che spingesse l’isola a ribellarsi e desse inizio a una rivoluzione democratica.
Sbarcati nella Sicilia occidentale, i Mille il 13 maggio raggiungono Salemi e pochi giorni dopo sbaragliano le truppe borboniche a Calatafimi e Milazzo. Le due vittorie aprono la strada verso Palermo ai valorosi volontari del Risorgimento italiano. Proprio nella battaglia di Calatafimi si distinguono per il loro incomparabile eroismo due fanciulle, Marzia e Lina, che combattono sotto spoglie maschili[46].
A questo punto l’autore, con un’altra digressione, ci mette a conoscenza del passato di Marzia, figlia di un tanto attraente quanto perfido monsignore di nome Corvo e della contessa Virginia N., da lui sedotta in giovane età. Così l’autore descrive il nobile prelato: «Orrida figura, […] come Lucifero adorna di belle esterne forme. Tale era questo demone, a cui natura era stata prodiga di favori, per sventura dei suoi simili[47]. Garibaldi attribuisce all’appartenenza al clero la responsabilità della degradazione che, allontanando Corvo dalle rette e naturali propensioni di ogni uomo, lo ha condotto all’abbrutimento morale, ha snaturato il suo essere e l’ha portato a compiere azioni quasi bestiali.
Essendone innamorata, Virginia era avventatamente caduta «nelle ugne di quel tentatore, il di cui talento per la seduzione non era secondo a quello del primo serpente della favola»[48], e, nonostante scorresse nelle sue vene il sangue degli irreprensibili antichi romani, era diventata la «favorita prediletta» di Corvo e sua complice in orribili misfatti.
Per occultare Marzia, il frutto del suo grave peccato, il monsignore aveva rapito e abbandonato la piccola, facendo credere alla madre che fosse morta.
Dopo alcuni anni, l’insaziabile “chercuto” aveva fatto violenza a una bellissima giovinetta romana e l’aveva rinchiusa in un convento. La ragazza era Marzia; il libertino Corvo, senza saperlo, aveva stuprato la propria figlia. Quest’ultima era in seguito riuscita a fuggire dal convento, e con l’amica Lina si era imbarcata a Quarto con i Mille.
Lungo tutto l’itinerario della spedizione garibaldina le popolazioni contadine insorte hanno avviato un violento processo di liberazione dall’antico sfruttamento. Il 6 giugno i volontari entrano vittoriosi a Palermo, e qui ritorna in scena monsignor Corvo che, sempre ignorando di avere di fronte sua figlia, fa rapire Marzia e tenta di violentarla una seconda volta. Quando la fanciulla si trova faccia a faccia con il suo persecutore di sempre, sfoga la sua amarezza e la sua sofferenza esclamando: «Solo alla mia innocenza non potrò tornare, scellerato! E tu ben lo sai; e sai quanti raggiri, quante menzogne […] tu adoperasti per ingannare una giovinetta tredicenne, prostituirla e quando sazie le tue libidini, chiuderla in uno di quei postriboli, da voi chiamati conventi, per isbarazzartene. Via! Assassino dell’anima!»[49].
Per buona sorte sopraggiunge un garibaldino con cinquanta compagni a liberare la malcapitata. I Mille avanzano, accompagnati da Marzia e Lina, a fine agosto sbarcano in Calabria e occupano Reggio e successivamente Napoli, da cui il sovrano Francesco II è fuggito per rifugiarsi a Gaeta.
Intanto, nientemeno che in Vaticano, monsignor Corvo, il generale dei gesuiti e Virginia N., detta “la Signora”, tramano per rapire nuovamente Marzia. La bella nobildonna è gelosa del fascino della ragazza e non tollera che sia ora la prediletta di Corvo, perciò le è ostile. Servendosi di un brigante calabrese Virginia tende un agguato alla sua rivale. Il monsignore, grazie al piano della contessa, riesce a portare a compimento il suo scellerato proposito, violenta la fanciulla e la rinchiude in quel convento da cui era scappata anni prima.
Virginia, per i suoi trascorsi tormentati, per la sua complicità nel rapimento di una giovinetta innocente e per il soprannome che le attribuisce Garibaldi, non può non richiamare alla mente la Gertrude manzoniana. Le suore, dipinte come creature incapaci di amare, adirate per il fatto che Marzia era riuscita, in passato, a fuggire dal monastero, ora la sottopongono a tortura «con tutte le raffinatezze, di cui sono capaci codeste megere ».
Presto “la Signora” si pente di aver servito l’infame clero per i progetti più nefandi e tenta di suicidarsi, ma viene sottratta alla morte da un patriota. Innamoratasi del suo salvatore, cambia vita e decide di allearsi con trecento giovani eroi che, da Roma, desiderano raggiungere i Mille per sostenerli nella liberazione della penisola.
L’aiuto di Virginia è decisivo per l’evasione di Marzia dal convento. Entrambe si uniscono alla marcia dei trecento verso la Campania e tra le due donne, inconsapevoli di essere madre e figlia, nasce un reciproco e autentico affetto.
Quando Corvo comprende che Virginia e Marzia ormai non sono più sotto la sua influenza, compie un ultimo disperato tentativo per possederle: seguendo di nascosto il cammino dei giovani romani attraverso Tivoli, Subiaco, Sora, Isernia e Tora[50], cerca di ostacolarli e di favorire le truppe di Francesco II.
Lungo il percorso i trecento vengono perseguitati dall’esercito papalino e da quello borbonico, e soltanto ottanta di loro si salvano e vanno a ingrossare le fila dei volontari di Garibaldi, che il 2 ottobre sconfiggono il nemico nella battaglia del Volturno.
Nel frattempo Vittorio Emanuele II di Savoia muove verso il Mezzogiorno. Garibaldi gli consegna i territori meridionali conquistati, che vengono annessi al Regno d’Italia. Nello scontro decisivo del 29 ottobre presso il fiume Garigliano, che si conclude con la vittoria piemontese, Marzia e la contessa, schierate, insieme ai patrioti, con l’esercito del re sabaudo, sono gravemente ferite e ricoverate in un casolare. Nel momento in cui vengono medicate, da un inconfondibile neo Virginia riconosce in Marzia la propria figlia.
Nello stesso scontro Corvo viene colpito dai Mille e riporta gravi ferite al volto; trova rifugio nel casolare in cui si nascondono Virginia e Marzia, occupando proprio la stanza accanto a quella delle due donne.
Sconvolto nel fisico, invecchiato, l’uomo riconosce la contessa ed è torturato dai sensi di colpa per il male compiuto. Durante l’agonia di Virginia e Marzia, della quale Corvo ha finora ignorato l’identità, riaffiorano i nobili sentimenti in lui sopiti, e il prelato si sorprende ad amare le due donne «di cui egli era stato il corruttore ed il carnefice»[51].
Per ironia della sorte, ancora una volta l’aspetto non rispecchia la sua disposizione d’animo: se in gioventù la sua malvagità era celata e dissimulata dall’avvenenza, ora il sincero pentimento non è ravvisabile sul suo volto, sfigurato e tumefatto dalle ferite infertegli.
Quando l’ormai deforme monsignore chiede perdono a Virginia, la donna rivela a Marzia che lo scellerato è suo padre, poi spira, seguita poco dopo dalla fanciulla. Corvo scopre dunque che Marzia è sua figlia, e al pensiero di averla violentata impazzisce per l’orrore e il rimorso incestuoso. Il racconto della trasformazione interiore di monsignor Corvo ci ricorda ancora un drammatico episodio manzoniano: la celebre notte della conversione dell’Innominato, in cui lo spietato signore lascia spazio a un uomo nuovo, generoso e caritatevole. Ma mentre l’autore de “I Promessi Sposi” riesce a esprimere tutta l’intensità del dissidio che travaglia la coscienza dell’Innominato, Garibaldi non ha la competenza letteraria per rappresentare lo scatenarsi nell’animo umano di emozioni così profonde e sublimi al tempo stesso, e sottopone il personaggio a un cambiamento eccessivo ed inverosimile.
Corvo, ora rinchiuso in manicomio, da una finestra intravede il corteo funebre di Marzia e Virginia, e, non tollerando di essere sopravvissuto alle sue vittime, si precipita nel vuoto.
Garibaldi tuttavia, a causa della poca dimestichezza nel descrivere situazioni drammatiche o forse dell’acceso e incontenibile astio nei confronti del mondo ecclesiastico, involontariamente rende grottesca la scena, commentando: «Per fortuna cadde senza offendere i passanti, fracassandosi il cranio sopra il selciato».
La sua unica preoccupazione sembra quella di far morire Corvo solo e disperato, senza che disturbi o importuni più nessuno, ma l’immagine del monsignore piombato a terra sull’acciottolato finisce per sconfinare nel ridicolo.
Il romanzo si conclude con l’esposizione di un sogno che Garibaldi dichiara di aver fatto in una delle ultime notti del 1860. Nel suo sogno di libertà, l’Italia è una repubblica governata da un uomo “savio” e umile, consapevole di essere al servizio della nazione, che si nutre dell’essenziale, mangiando «pane e formaggio»[52]. In questa repubblica ideale è fondamentale la tolleranza per ogni uomo, gli sgherri e i preti sono stati mandati «a bonificar le paludi Pontine» e «il tempio di Temi[53] funziona ugualmente per tutti».
Esaminiamo ora brevemente gli altri romanzi. “Clelia o il governo dei preti” è un vero e proprio feuilleton anticlericale. La vicenda, ambientata a Roma, ha inizio nel febbraio del 1866. Il cardinale Procopio, invaghitosi della bella sedicenne Clelia, con un’astuzia la rapisce ed è sul punto di violentarla, ma grazie all’intervento di Attilio, suo promesso sposo, e degli amici del giovane, la fanciulla si salva e il perfido Procopio viene impiccato.
I ragazzi, per sfuggire alla vendetta del governo papale, si rifugiano in un castello abbandonato che si erge sul limitare di una foresta alla periferia dell’Urbe. Presto li raggiungono altre coppie di innamorati che, appartenendo alla «fiera razza degli antichi Quiriti», non tollerano più la corruzione del clero e si sono allontanati dalla città.
Gli assalti dei papalini al castello vengono sventati dai giovani e da altri uomini valorosi arrivati a dare man forte ai nostri eroi. Intanto altri patrioti giungono al castello alla ricerca di un luogo sicuro dove attendere la liberazione di Roma, e nascono tenere storie d’amore fra i coraggiosi amici e le leggiadre fanciulle che li hanno seguiti, pure, virtuose e tutte immancabilmente perseguitate dal clero.
Attilio e Clelia si sposano al castello con un matrimonio rivoluzionario: a celebrare le nozze è infatti la madre della ragazza[54].
A questo punto entra in scena il Solitario, alter ego di Garibaldi, un uomo incanutito dagli anni, che crede «in Dio e nel Vero», contrapponendo la sua fede illuminata e il suo amore per la scienza all’oscurantismo ecclesiastico. Dalla sua isola Solitaria, identificabile in Caprera, egli piange le sorti dell’Italia, in mano ai preti e agli stranieri.
Le vicende private si intrecciano ora strettamente alla storia ufficiale e ai combattimenti per la difesa di Roma. Siamo nel 1867, all’indomani della terza guerra d’indipendenza. Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre. I fratelli Enrico e Giovanni Cairoli, con settanta volontari fra cui spiccano i nostri protagonisti, giungono a Roma e portano aiuto agli insorti contro le truppe pontificie all’interno della città. Le loro amate, assurte al ruolo di eroine, medicano i feriti e partecipano attivamente alla guerriglia, servendosi di bastoni e pugnali. Tutti i giovani patrioti muoiono insieme ai Cairoli, mentre le donne, sopravvissute, grazie all’aiuto del Solitario, si rifugiano in Inghilterra e lì trascorreranno gli anni in attesa della liberazione di Roma.
Attraverso lunghe digressioni – collocate rispettivamente ai capp. LXVII e V – il narratore ci fa conoscere il passato e le dolorose vicissitudini di Marzio e Silvio, due dei coraggiosi eroi che si rifugiano nel castello alla periferia di Roma e che parteciperanno all’insurrezione per liberare la città.
Le vicende possono essere rimosse lasciando inalterata l’economia dell’intreccio principale, ma costituiscono, secondo il narratore, delle prove inconfutabili dell’immoralità e della lussuria che regnano nel clero, della connivenza fra vescovi e badesse e degli infanticidi compiuti per occultare i misfatti dei preti.
Marzio era fidanzato di Nanna. Don Pantano, invaghitosi della fanciulla, l’aveva rapita e rinchiusa in un convento. Con la complicità della madre superiora, alcuni sacerdoti avevano tentato di violentarla. Una notte Marzio aveva liberato la sua amata, ma don Pantano, non potendola avere per sé, l’aveva rintracciata e uccisa: l’aveva fatta avvelenare dalla levatrice recatasi da lei per far nascere il primogenito di Marzio, togliendo così la vita anche alla creatura concepita dai due giovani.
Camilla, l’innamorata di Silvio, era stata invece molestata da don Procopio. Il prete, tendendole una trappola, era riuscito ad avvicinarla e a possederla, e il bimbo nato dalla «libidine di chi si era consacrato alla castità » era stato barbaramente assassinato, «come tant’altri», precisa il narratore. Procopio aveva fatto sparire ogni traccia del neonato, ma nulla aveva potuto alleviare i tormenti di Camilla, che era quasi impazzita dalla disperazione e, nonostante l’amore tenero e fedele di Silvio, non aveva più ritrovato la serenità.
L’autore fa più di una tetra e terribile descrizione, tipica del romanzo romantico e d’appendice, dei sotterranei dei conventi[55] in cui Nanna e Camilla vengono seviziate, delle crudeltà a cui creature innocenti vengono sottoposte e degli strumenti di tortura utilizzati dal clero per trasformare le vittime in docili e arrendevoli prede.
Il protagonista di “Cantoni il volontario” è un personaggio realmente esistito, il forlivese Achille Cantoni. Garibaldi tiene a specificare che il giovane è «volontario e non soldato». E istituisce una differenza tra gli impavidi patrioti e i combattenti mercenari, che agiscono per puro interesse materiale, si conformano meccanicamente al volere di chi li ha assoldati e da quest’ultimo si lasciano manovrare: «Il soldato di mestiere ha sacrificato sull’altare del ventre ogni sentimento onesto. Egli non deve, non può aver volontà, ché il padrone pensa e vuole per lui. […] Il soldato di mestiere conosce un sentimento solo, una sola legge: ubbidire! […] E quando gl’italiani giacciono affamati, egli ubbidisce al padrone che vietò loro l’ingresso del pane… Ubbidisce al padrone intercettando armi e munizioni ai militanti italiani, e quando questi, sudanti, spossati, sconfitti, sono cacciati dallo straniero, il soldato italiano ubbidisce incarcerandoli…»[56].
Siamo nell’anno 1848. Al fianco di Achille l’autore colloca Ida, «la bellissima tra le fanciulle di Felsina», che, come già hanno fatto Marzia e Lina ne “I Mille”, si traveste da uomo e segue il ragazzo che ama. Ma di lei si invaghisce il gesuita Gaudenzio, che la fa rapire e si appresta all’assalto della ragazza. La situazione descritta è tipicamente romantica: «La notte era piovosa, alcuni lampi seguiti da tuoni armonizzavano coll’anima scellerata del loiolesco, e sembrava al malvagio che la natura sconvolta volesse favorirlo nell’impresa, coprendo alcune grida[57].
Il religioso è dunque sul punto di violentare Ida, quando sopraggiunge Cantoni e la libera. Nell’aprile del 1849 i due innamorati vanno verso Roma e combattono sul Gianicolo per difendere la repubblica, sorta a seguito della rivolta liberale, dall’assedio francese. Entrambi cadono feriti. Il perfido persecutore, col pretesto di amministrare i sacramenti ai moribondi, si aggira sul campo di battaglia e sta meditando di finire con una pugnalata il ferito Cantoni, per poi rapire nuovamente Ida. In quel momento, tuttavia, una provvidenziale sentinella gli spara: Gaudenzio si accascia[58]; Ida e Cantoni invece guariscono, tornano a casa, si sposano e moriranno diciott’anni dopo, la mattina del 4 novembre 1867, feriti al petto sul campo di Mentana[59].
Il personaggio principale di “Manlio” porta il nome dell’ultimo figlio di Garibaldi, che, nato nell’anno in cui lo scrittore inizia la stesura del racconto, morirà prematuramente nel 1900. Il condottiero vede in Manlio una sorta di prolungamento di se stesso. Ormai vecchio e malato, Garibaldi sa che «dovrà lasciare il mondo tanto impasticciato come lo trovò entrandovi»[60] e spera che il figlio possa invece vedere realizzato il suo sogno di libertà e indipendenza. Nel romanzo perciò egli immagina il destino glorioso dell’Italia che si concretizzerà dopo la sua morte. Soltanto in un brano il narratore identifica il protagonista con suo figlio. Quando Manlio, dopo varie vicissitudini di cui si parlerà in seguito, torna in Corsica, dice ad alcuni montanari del luogo: «Negli ultimi anni del mio soggiorno in America io ebbi la desolante notizia della morte di mio padre Garibaldi, di cui probabilmente avrete inteso parlare»[61].
«È veramente molta presunzione di voler scrivere nel ’76 fatti che dovrebbero accadere soltanto dopo vent’anni»[62], afferma Garibaldi quando, abbandonato il presente, si addentra nel racconto del futuro. Egli auspica che la penisola si affranchi dagli invasori e che nasca una confederazione tra gli stati d’Europa che appiani ogni dissenso fra i popoli: «Senza esser profeta io scrivo dell’avvenire e vorrei indovinare almeno quell’istituzione santa la di cui attuazione sola potrà affratellare i popoli e finire coll’orribile macello d’uomini chiamato guerra. Istituzione esistente nella coscienza di chiunque sia amante della giustizia […] Dico l’arbitrato internazionale che tanto onora i grandi che lo concepirono»[63].
«Figli d’una stessa razza, verrà il tempo in cui i Pirenei e le Alpi non serviranno più di barriera tra nazioni e nazioni ed in cui un Italiano a Madrid e uno Spagnolo a Roma non saranno più chiamati stranieri»[64].
Il racconto ha inizio nel 1874, quando Manlio, a soli cinque anni, viene ingaggiato come marinaio novizio a bordo di un grande veliero. Egli, pur possedendo la spensieratezza dell’infanzia, è un bambino straordinario, prode e coraggioso, e si conquista la simpatia di tutti. Partendo dalla natia Corsica, accompagnato da uno zio e da altri uomini di mare che lo seguiranno ovunque, intraprende un lunghissimo viaggio: supera un assalto dei pirati, una violenta tempesta e il naufragio, e giunge sulle coste dell’Uruguay. Tutti i passeggeri vengono ospitati a Dayman da un ricco parente di Clelia, una giovane donna che ha viaggiato con loro, e da lui ricevono in dono un bastimento per avviare un’attività commerciale.
Trascorrono quattordici anni. Manlio, ventenne, grazie al lavoro nella estancia[65], viaggia molto e conosce gli indiani e le loro consuetudini, finché si innamora di Elvira, una giovane donna creola.
Nel 1896 la repubblica dell’Uruguay è minacciata dall’invasione dell’impero brasiliano. Tutti i paesi del Sudamerica si alleano con l’Uruguay nella guerra che segue. Manlio e i suoi partecipano al conflitto a fianco delle repubbliche del Sudamerica e sconfiggono il Brasile. Il destino di Manlio, però, lo richiama in Italia; così, nel 1900, ritorna a Caprera con Elvira e i compagni di sempre. Manlio riabbraccia sua madre.
In Corsica Manlio incontra alcuni ribelli ricercati dalla legge che, come lui, sognano un’Italia libera; si unisce a loro per realizzare l’ambizioso progetto e raduna un esercito di volontari di cui diventa condottiero.
L’anno seguente iniziano gli scontri tra gli ormai duemila patrioti e gli austriaci. Le prime vittorie avvengono in val di Ledro (presso l’omonimo lago, vicino a quello di Garda), nella limitrofa Ampola e a Pieve di Cadore. Manlio, appropriandosi delle corazzate della marina italiana, attacca l’Austria e permette all’Italia di conquistare Pola, Cherso, Veglia, Spliza, le Bocche di Cattaro, Pirano e Creta. La penisola, perciò, nell’immaginazione di Garibaldi, non solo recupera tutti i territori che aveva perduto, ma estende il suo dominio a regioni che in realtà ora appartengono ad altri stati.
Anche in quest’ultimo romanzo troviamo la figura del perfido “chercuto”, impersonata da don Pancrazio: si tratta di un missionario che fa l’intero viaggio con Manlio e che già nel tragitto verso l’Uruguay avvicina Clelia, tentando di sedurla, con il pretesto di impartirle delle lezioni.
In seguito, durante la permanenza in Sudamerica, il prete fugge con Rosa, la figlia di Clelia, e «la prole che sortisce da tale connubio è […] soffocata e portata in giù dal fiume ».
Don Pancrazio sopravvive alle ferite infertegli dal marito di Clelia, che vorrebbe eliminarlo, cambia più volte nome per mascherare la sua vera identità e con sorprendente scaltrezza continua a perseguitare giovani donne. Lo troviamo anche a bordo del piroscafo che riporta in Italia Manlio e i compagni.
Come possiamo rilevare, i racconti di Garibaldi formicolano di personaggi e di avvenimenti, ma le strategie narrative da lui utilizzate sono sempre le medesime, e vengono ripetute fino a risultare logoranti.
Lo schema a cui il condottiero si attiene è ben codificato dalla letteratura d’intrattenimento e d’evasione e ha alla base il consueto “triangolo” manzoniano del diabolico persecutore, della fanciulla molestata e del giovane innamorato che cerca di salvarla. Nello specifico, c’è la bieca figura del gesuita che trama nell’ombra, la giovane perseguitata e il cospiratore rivoluzionario idealista e prode.
Garibaldi tende a separare in modo netto, con un atteggiamento ingenuamente manicheo, i buoni dai cattivi: troviamo da un lato eroi ardimentosi e irreprensibili accompagnati da incorruttibili fanciulle, dall’altro individui depravati e senza alcuno scrupolo. I Mille e i patrioti sono privi di difetti e possiedono forza, bellezza, coraggio, sentimento, spirito di sacrificio: tutte virtù che contraddistinguono gli italiani discendenti dagli antichi romani. I rappresentanti del clero sono viziosi, detestabili e vigliacchi, e rivelano la loro perfida indole anche attraverso l’aspetto fisico sgradevole, se non addirittura ripugnante.
Tutti i personaggi sono tipizzati in modo univoco, senza possibilità di evolversi o trasformarsi nel corso della narrazione, e le loro reazioni sono prevedibili e piuttosto scontate.
Le vicende sono scandite da travestimenti, rapimenti, colpi di scena, agnizioni, fughe, avvelenamenti ed espedienti tipici del romanzo d’appendice ottocentesco.
La contaminazione tra il reale e il fantastico manca di accortezza e spesso l’intreccio risulta caotico e disorganico, troppo ardito per le reali capacità dello scrittore.
I temi sono trattati in modo convenzionale, ottimisticamente consolatorio e aproblematico. Garibaldi marca le tinte e ottiene a volte una banalizzazione dell’argomento: egli finisce per rappresentare una società inverosimile e stereotipata, e non il mondo reale, che non è così moralmente perverso.
Una particolare attenzione merita, per la sua complessità, la figura di monsignor Corvo. Innanzitutto, nonostante la depravazione e la prepotenza che lo contraddistinguono, non è semplicisticamente tratteggiato, nel modo in cui ci attenderemmo, come un uomo brutto e sgraziato; in lui avvenenza e malvagità si armonizzano e contribuiscono a creare un personaggio ambiguo e fatale per chi non è in grado «di discernere, sotto l’involto di un bell’uomo, l’anima di un Lucifero ». In secondo luogo, Corvo si allontana dallo schema codificato, che non prevede per i personaggi alcun cambiamento: egli si pente e scopre di amare le due donne che fino a quel momento ha perseguitato, sorprendendo il lettore. Per questi motivi può essere considerato, a mio avviso, l’unico vero eroe del male al quale lo scrittore dà vita.
Garibaldi, fin dal suo romanzo d’esordio, la cui stesura risale al 1869, incontra molte difficoltà nel vedere pubblicati i suoi scritti. Dopo aver esaminato poche pagine di “Clelia o il governo dei preti”, anche gli editori più entusiasti e patriottici declinano la proposta di divulgare il racconto. È un editore inglese a pubblicarlo con un titolo che, per errore e nonostante le proteste del condottiero, resterà anche nell’edizione italiana di Rechiedei, del 1870: “Il governo del monaco”[66]. Con ogni probabilità, l’intitolazione inglese denuncia l’intenzione di richiamare alla mente dei lettori un classico del “nero”, “Il monaco”, di Lewis.
Anche il secondo romanzo, “Cantoni il volontario”, viene scritto nel 1869 e pubblicato l’anno seguente, proprio quello della presa di Roma, dall’editore Politti.
La stesura de “I Mille” risale a circa un decennio dopo l’omonima spedizione, probabilmente agli anni 1870-1871, come si rileva dalle affermazioni stesse dell’autore, dalle contemporanee situazioni politiche internazionali accennate nel testo e da una lettera che egli invia all’editore il 20 febbraio 1872, nella quale gli comunica che il manoscritto è pronto per la stampa. Da Caprera Garibaldi aggiungerà il 21 gennaio 1873 la prefazione “Alla Gioventù Italiana”.
Rifiutato da vari editori per l’aspro contenuto, fortemente irriverente soprattutto nei confronti del clero, ma anche dei francesi, dei mazziniani e dei conservatori[67], il romanzo viene pubblicato nel 1874 tramite una sofferta sottoscrizione da parte di alcuni sostenitori e amici affezionati di Garibaldi. Per quell’edizione, che annovera pochi esemplari e resterà l’unica fino al 1933, l’autore chiede e ottiene la cospicua somma di 30.000 lire.
Il manoscritto originale sarà in seguito donato all’Archivio del Museo del Risorgimento da Clelia Garibaldi, figlia di terzo letto del condottiero.
Lo scrittore si dedica alla compilazione di “Manlio” nel periodo compreso tra il 1874 e il 1879. Il manoscritto originale, alla morte di Garibaldi, viene conservato dalla sua terza moglie, Francesca Armosino, e ora si trova nell’archivio del Museo centrale del Risorgimento nel Vittoriano a Roma; è rimasto inedito fino a quando l’Istituto internazionale di Studi garibaldini lo ha acquistato da Clelia Garibaldi, l’ultima superstite della famiglia, per poi pubblicarlo nel 1982.
Note
[1] ⇑ Indro Montanelli – Marco Nozza, Garibaldi, Milano, Rizzoli, 1965, p. 548.
[2] ⇑ Giuseppe Garibaldi, Manlio, Sarasota (Florida), International Institute of Garibaldian Studies, 1982 (1879), p. 49. Le citazioni tratte dagli altri suoi tre romanzi rimandano al testo della prima edizione, con la sola correzione dei probabili refusi e di manifeste sviste meccaniche, e non a quello delle edizioni successive alla morte di Garibaldi o recenti, rivedute e corrette. L’intento è quello di mettere in evidenza anche i numerosi errori compiuti dallo scrittore. Si sono conservate le forme grafiche desuete (“sopratutto”, “avea”, “dovea”, ecc.) e si sono rispettate le oscillazioni di alcuni termini (“imagine”, immagine”; “fisonomia”, “fisionomia”). Per quanto riguarda le citazioni ricavate dai romanzi Clelia o il governo dei preti e Cantoni il volontario, sono indicati non i numeri di pagina, ma le cifre dei capitoli.
[3] ⇑ Id, I Mille, Torino, Camilla e Bertolero Editori, 1874, p. 251 (ora consultabile nel sito internet http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/garibal4.htm).
[4] ⇑ Idem, p. 337.
[5] ⇑ Dell’avversione di Garibaldi nei confronti del clero si tratterà più avanti.
[6] ⇑ G. Garibaldi, Cantoni il volontario, Milano, Enrico Politti Editore, 1870 (ora consultabile nel sito internet http://www.classicitaliani.it/ottocent/garibaldi_cantoni.htm), .
[7] ⇑ Id, I Mille, cit., p. 6, Prefazione (intitolata e dedicata Alla Gioventù Italiana).
[8] ⇑ Id, I Mille, cit., p. 9, Introduzione.
[9] ⇑ Idem, p. 11.
[10] ⇑ Cito soltanto alcuni dei numerosi errori tratti da I Mille e Manlio a titolo esemplificativo: «ebbimo sempre con noi»; «avressimo [in luogo di “avremmo”] dovuto ben sudare»; «la lama d’un pugnale sguizzava nell’aere»; «carozze»; «come il guffo, nascondevasi alla luce»; «avevimo gran bisogno»; «voi gettatte le nazioni nell’abbrutimento»; «olfato»; «mi obligarono »; «una volta erimo tredici come gli apostoli»; «bramo [che] gl’Italiani combattino»; «vorressimo»; «dovettimo»; «un’ufficiale»; «malvaggie».
[11]⇑ ⇑Due esempi: «Chi dubita della vittoria, quando essa portata sulle ali del dovere e della coscienza, questi ti sospingono ad affrontare i perigli e la morte dolci allora, come il bacio delizioso della donna del primo amore?» (G. Garibaldi, I Mille, cit., p. 18); «Calatafimi! Io, avanzo di tante pugne, se all’ultimo mio respiro i miei amici vedranmi sorridere l’ultimo sorriso d’orgoglio, esso sarà ricordando» (idem, p. 34).
[12] ⇑Idem, p. 312.
[13] ⇑ G. Garibaldi, Manlio, cit., p. 48.
[14] ⇑ Atto Vannucci (Tobbiana di Montale, 1810 – Firenze, 1883) fu uno storico e un protagonista dei moti toscani del 1848.
[15] ⇑ G. Garibaldi, Clelia o il governo dei preti, Milano, Fratelli Rechiedei Editori, 1870, cap. XXXIX (ora consultabile nel sito internet http://cronologia.leonardo.it/clelia/clelia00.htm).
[16] ⇑ Id, Cantoni il volontario, cit. Prefazione ai miei romanzi storici.
[17] ⇑ Id, I Mille, cit., p. 10, Prefazione (Alla Gioventù Italiana).
[18] ⇑ Idem, p. 210.
[19] ⇑ G. Garibaldi, Cantoni il volontario, cit., cap. III.
[20] ⇑ Id, I Mille, cit., p. 67.
[21] ⇑ Id, Cantoni il volontario, cit., cap. X.
[22] ⇑ Id, I Mille, cit., p. 142.
[23] ⇑ Id, Clelia o il governo dei preti, cit., Appendice.
[24] ⇑ Id, Manlio, cit., p. 61.
[25] ⇑ Voce dotta per “capo”.
[26] ⇑ G. Garibaldi, Poema autobiografico, Carme alla Morte e altri canti inediti, Canto I, (Caprera).
[27] ⇑ Id, Cantoni il volontario, cit., cap. XXV.>
[28] ⇑ Id, I Mille, cit., p. 261.
[29] ⇑ Idem, p. 186.
[30] ⇑ G. Garibaldi, Manlio, cit., p. 129.
[31] ⇑ Idem, p. 355.
[32] ⇑ G. Garibaldi, Cantoni il volontario, cit., cap. XXXIII.
[33] ⇑ Giuseppe Zaccaria (a cura di), Il romanzo d’appendice. Aspetti della narrativa popolare nei secoli XIX e XX, Torino, Paravia, 1977, p. 34.
[34] ⇑ G. Garibaldi, Memorie autobiografiche, Firenze, Giunti, 2011, p. 10.
[35] ⇑ Id, I Mille, cit., p. 6, Prefazione (Alla Gioventù Italiana).
[36] ⇑ Secondo Garibaldi la sventura, la rovina e i mali che attanagliano Roma sono logiche conseguenze dei suoi trascorsi grandiosi e un inevitabile prezzo da pagare per il suo antico e immenso impero: un giorno Roma fu padrona del mondo, ora è inevitabilmente vittima dell’odio universale (cfr. G. Garibaldi, I Mille, cit., p. 100).
[37] ⇑ Idem, p. 103.
[38] ⇑ Idem, p. 5.
[39] ⇑ G. Garibaldi, Memorie autobiografiche, cit., pp. 276-277.
[40] ⇑ Idem, p. 11.
[41] ⇑ G. Garibaldi, I Mille, cit., p. 30.
[42] ⇑ Marzia viene citata da numerosi autori, tra cui Sant’Agostino, Lucano e Dante Alighieri, che nel primo canto del Purgatorio la ricorda nell’incontro con Catone.
[43] ⇑ G. Garibaldi, Manlio, cit., p. 76.
[44] ⇑ Idem, p. 126.
[45] ⇑ Idem, p. 364.
<aname=”nota46″>[46] ⇑ In realtà, tiene a precisare lo stesso Garibaldi in una nota a p. 38, una sola donna partecipò alla spedizione: Rose Montmasson, moglie di Francesco Crispi.</aname=”nota46″>
[47] ⇑ G. Garibaldi, I Mille, cit., p. 76.
[48] ⇑ Idem, p. 122.
[49] ⇑ Idem, p. 77.
[50] ⇑ Probabilmente sta per Toro, comune in provincia di Campobasso.
<aname=”nota51″>[51] ⇑ G. Garibaldi, I Mille, cit., p. 209.</aname=”nota51″>
[52] ⇑ Si tratta di un evidente richiamo alla frugalità che caratterizza la vita stessa dell’anziano Garibaldi. [53] ⇑ Dea greca della Giustizia.
[54] ⇑ Per alcune considerazioni di Garibaldi sul matrimonio civile e religioso, cfr. G. Garibaldi, Clelia o il governo dei preti, cit., cap. XL.
[55] ⇑ Cfr. Idem, cap. XXXVII.
[56] ⇑ G. Garibaldi, Cantoni il volontario, cit., cap. I.
[57] ⇑ Idem, cap. XXI.
[58] ⇑ Garibaldi non precisa se il colpo sia fatale a Gaudenzio; riferisce, semplicemente, che la sentinella «lo aggiusta ben bene nella schiena» (idem, cap. XLIV).
[59] ⇑ Cantoni vi morì veramente.
[60] ⇑ G. Garibaldi, Manlio, p. 353.
[61] ⇑ Idem, p. 303.
[62] ⇑ Idem, p. 229.
[63] ⇑ Ibidem.
[64] ⇑ Idem, p. 270.
[65] ⇑ La estancia è uno stabilimento pastorizio.
[66] ⇑ Il titolo inglese è The Rule of the Monk.
[67] ⇑ Garibaldi si domanda: «Cosa diavolo conservano? Il marciume, ma questo – entrando nell’appannaggio dei vermi – porta già l’impronta d’uno schifoso passato» (G. Garibaldi, I Mille, cit., p. 8, Prefazione).