Memorie di donne tra storia e soggettività. Bianca Grasso, Giovanna Michelone, Andreina Zaninetti Libano

Elisa Malvestito

intervento al convegno  “Resistenza Resistenze”, organizzato a Vercelli nell’occasione delle celebrazioni per il 70o anniversario della Liberazione

articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXV, n. s., n. 1, giugno 2015

Ammiriamo la poesia perché sa parlare proprio come la vita, ma siamo doppiamente commossi della vita, che parla, senza saperlo, proprio come la poesia.

Thomas Mann[1]

 

Introduzione

Lo scopo di questa ricerca non è quello di ricostruire le caratteristiche della partecipazione femminile alla Resistenza vercellese attraverso l’analisi delle testimonianze delle protagoniste. Innanzitutto ci sono già, a livello locale, studi interessanti sull’argomento apparsi ne “l’impegno” nei decenni scorsi[2] e numerose sono anche le ricerche condotte a livello nazionale da studiose come Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, Anna Gasco[3]. In secondo luogo, analizzare le memorie delle protagoniste della Resistenza per definire i tratti salienti del movimento di liberazione comporta un alto rischio di banalizzazione e semplificazione di esperienze di vita uniche e singolari: «Ogni storia ha elementi significativi e ogni donna ha una storia degna di essere ricordata»[4]. Leggere queste testimonianze piegandole ai fini della ricerca può infatti comportare, anche se non necessariamente, la perdita di un aspetto fondamentale della testimonianza stessa, ovvero la soggettività della testimone. Inoltre, se si volesse proseguire in questa direzione, un’indagine di questo tipo dovrebbe prendere in considerazione il più alto numero possibile di testimonianze e dovrebbe prevedere anche una ricerca di tipo quantitativo basata su tipologie di fonti diverse che permettano di mettere in luce non solo le dimensioni del fenomeno ma anche il contesto sociale, culturale ed economico nel quale le testimonianze si sono formate. Trattandosi di fonti orali, quest’ultimo aspetto è, forse, quello più importante da tenere a mente. La memoria è frutto non soltanto del ricordo che ne è all’origine, ma anche del contesto nel quale prende forma e questo vale soprattutto per la memorialistica femminile della Resistenza, che inizia ad essere raccolta solo alla fine degli anni settanta in un contesto sociale e culturale ben preciso.

Scopo di questo breve studio è dunque la ricostruzione di profili biografici e ritratti di vita di tre donne che presero parte alla Resistenza vercellese e che, con la propria soggettività, contribuirono alla lotta di liberazione. Si tratta di Bianca Grasso, Giovanna Michelone e Andreina Zaninetti Libano, tre figure molto particolari non solo per il contributo che diedero al movimento resistenziale, ma anche per la loro forte personalità e per il fatto che ciascuna è autrice di una testimonianza orale o scritta unica nei contenuti e nella forma. Ho dunque iniziato a tratteggiare questi profili femminili partendo proprio da un’analisi delle memorie che ci hanno lasciato e integrando le informazioni raccolte con una piccola ricerca bibliografica e archivistica.

Bianca Grasso[5]

Nel 1997 Bianca Grasso pubblica con la Gallo Edizioni la sua testimonianza dal titolo significativo “Messaggio perduto. Ricordi di una partigiana”. Si tratta di un libro di memorie prevalentemente concentrato sul periodo resistenziale, scritto cinquant’anni dopo rispetto agli eventi che racconta. «Dedico questo mio libro a mio nipote Nicola. Se un giorno vorrà leggerlo troverà un poco delle sue radici», scrive Bianca all’inizio del suo racconto, una dedica che acquista ancora più valore se si pensa al significato del titolo del libro. Saverio Tutino, commissario politico della 76a brigata “Garibaldi” operativa in Val d’Aosta, ci racconta nella prefazione di un incontro mai avvenuto con la staffetta Bianca dalla quale avrebbe dovuto ricevere un messaggio che non gli sarebbe mai stato consegnato. “Messaggio perduto” si riferisce dunque a questo aneddoto della vita di Bianca, ma racchiude anche il significato ultimo che l’autrice consegna a questo volumetto. «Cerco di raccogliere ogni tassello della mia memoria per formare nel modo più esatto possibile il mosaico che compone la parte più intensa della mia vita»[6] dice l’autrice nell’introduzione. Lo scopo della partigiana Bianca è dunque quello di consegnare ai posteri, rappresentati metaforicamente dal nipote Nicola, i ricordi della sua vita per salvarli dall’oblio del tempo e per evitare che l’esperienza eccezionale da lei vissuta, la lotta per la libertà, si trasformi in un “messaggio perduto”.

Già da una prima lettura di questa autobiografia emerge in modo chiaro e netto la caratteristica principale della personalità di Bianca: Bianca è una ribelle. Numerosi sono gli episodi dell’infanzia, raccontati nel primo capitolo del libro[7], che la vedono protagonista di alcuni atti di ribellione. «A cinque anni fui portata all’asilo Filippo, ma l’ambiente non mi piaceva. Dopo sette giorni di quella brutta esperienza, scappai con un bambino diventato mio amico, pure lui con un’imperfezione fisica»[8]. Più avanti racconta: «Alle scuole elementari non ero un disastro, però non avevo voglia di fare quello che mi dicevano, un po’ per ripicca, un po’ perché ero diversa dagli altri. […] Ero sovente in castigo in corridoio e, non sapendo che fare, aiutavo il bidello ad annaffiare i vasi dei fiori»[9]. Un altro esempio: «A Vercelli, quando avevo quindici anni, portare i calzoncini era considerato scandaloso; eravamo solo in due ragazze, in città, a portarli, io e la figlia di un commerciante di motociclette. Quando la gente ci vedeva in tale succinto costume, ci indirizzava qualche parolaccia […]»[10]. A incrementare questo senso di ribellione contribuiscono, oltre ad una menomazione fisica che la colpisce alla nascita, il contesto familiare e la formazione culturale che matura in lei già negli anni della prima adolescenza grazie alle incombenze che il fratello le affida. «A quattordici anni, mio fratello cominciò ad affidarmi alcuni compiti di responsabilità. Con la mia cartella di scuola, non sospettabile come gli adulti, potevo trasportare dei libri messi all’indice dal fascismo, che ci procurava il signor Giovanni Giovannacci, la persona più gentile e affabile che io conobbi, un libraio antifascista che aveva il negozio sotto i portici di piazza Cavour. Portavo i libri a Nino Baltaro, Pino Graziano, Mario Serassi e altri militanti antifascisti. […] Lessi alcuni dei libri, “Il tallone di ferro” di Jack London e “Il capitale” di Marx, ma ne capivo ben poco. Più tardi, nelle formazioni partigiane, quando si faceva l’ora politica e il commissario leggeva e spiegava brani di questi libri, compresi il significato di quelle pagine che a quattordici anni trovavo incomprensibili»[11].

Probabilmente il ritratto che emerge è anche frutto di una rilettura della propria infanzia e giovinezza come fasi preparatorie e giustificative rispetto alla scelta resistenziale successiva, ma sicuramente questo temperamento la caratterizza per tutta la vita. Lo spirito ribelle, infatti, non si esaurisce con l’adolescenza ma continua nella prima giovinezza, all’alba dello scoppio della seconda guerra mondiale, e contraddistingue le prime esperienze lavorative (numerosi infatti sono i litigi con i datori di lavoro o con i colleghi) e le attività del tempo libero (Bianca frequenta un corso di difesa personale e si iscrive alle scuole serali da privatista per «non scontrarsi con i fascisti»[12]).

Questo animo ribelle e questo senso di diversità trovano una loro valvola di sfogo nella scelta antifascista ed è proprio l’antifascismo convinto e consapevole il secondo elemento che caratterizza la personalità di Bianca. Il contesto familiare ha un ruolo centrale nella formazione della sua coscienza politica. La sorella Egle, di quindici anni più vecchia, viene arrestata dopo una perquisizione dei fascisti; il fratello Remo e il cognato Bruno sono disertori e, dopo l’8 settembre, entrano nella Resistenza; il padre[13] e la madre avevano partecipato alle lotte sindacali all’inizio del secolo. La famiglia aveva inoltre numerosi contatti con gli esponenti del Partito comunista clandestino e altri antifascisti vercellesi e questo non solo consolida la formazione antifascista di Bianca, ma alimenta quel senso di giustizia che già la contraddistingue.

Inevitabile è dunque il suo ingresso, dopo l’8 settembre, a soli diciassette anni, nella lotta partigiana. La sua non è una scelta difficile o obbligata. È del tutto spontanea e convinta. Ed è proprio al periodo resistenziale che sono dedicati i capitoli centrali della sua autobiografia. La descrizione dei numerosi episodi che la vedono protagonista nei venti mesi di lotta è una testimonianza importante, che offre un significativo contributo alla ricostruzione della storia della Resistenza vercellese.

Interessante è soprattutto il racconto della prima attività che Bianca svolge da partigiana, ovvero la collaborazione con lo staff medico dell’ospedale di Vercelli[14]. Aiuta in numerose occasioni i medici e gli infermieri dell’ospedale a nascondere i militari stranieri in fuga dopo l’armistizio e successivamente a trasferirli in montagna. Oltre a portare avanti questo incarico, partecipa a numerosi atti di sabotaggio e di volantinaggio, fino a quando è costretta a fuggire dalla città con il padre e a unirsi alle truppe partigiane della 182a brigata “Garibaldi”. Gli attacchi e gli scontri che vedono impegnati i partigiani vengono descritti da Bianca con un gergo propriamente militare, tipico della memorialistica maschile. Un esempio è rappresentato dalla descrizione della 182a brigata: «Le nostre forze garibaldine presidiavano le basi della zona tra Mongrando, Sala e Zubiena. Il battaglione “Vercelli”, trasformato poi in 182a brigata, era composto quasi tutto da vercellesi; c’erano anche altre formazioni, i distaccamenti della 75a e della 76a, di cui era commissario politico il giovane Saverio Tutino, Nerio, a quei tempi grande ammiratore di Primula, ora noto giornalista e scrittore. […] Avevamo alle spalle le Alpi, un posto strategicamente molto valido, perché quando c’erano incursioni e rastrellamenti nazifascisti le montagne ci facevano da scudo contro gli assalitori e facilitavano la difesa»[15]. Queste descrizioni militari si alternano a intermezzi letterari carichi di emozioni e riflessioni soggettive che appaiono saltuariamente e che spezzano la narrazione cronologica degli eventi. Un esempio: «A volte, al mattino, ero assalita da una struggente malinconia. Pensavo ai pericoli e alle preoccupazioni che gravavano sui miei cari lontani, a tutte quelle mamme che avevano i figli chissà dove. Sentivo la nostalgia della mia casa, delle piccole e grandi cose lasciate; nell’insieme mi invadeva la preoccupazione per i compagni che in pianura lottavano affrontando rischi maggiori dei nostri (noi avevamo le montagne per rifugiarci e difenderci, loro no). Mi domandavo: quando finirà? Per fortuna, fra tante brutte cose c’era la natura che un poco mitigava la mia tristezza, con i suoi panorami ricchi di paesaggi dolcissimi, il sole che al suo sorgere formava contrasti stupendi di luci, tra le foglie bagnate di rugiada che sembravano pagliuzze d’oro, impreziosite com’erano dall’ingiallire dell’autunno. In una molteplicità di mutazioni, i colori variavano a seconda del tipo d’albero, dal verde intenso al giallo pallido all’arancio all’amaranto, enormi mazzi di fiori nella maestosità delle Prealpi. Sembravano dire: “Uomini, guardateci. Come potete pensare a sopprimere, a uccidere, quando la nostra bellezza inebriante, il frusciare del vento tra le nostre foglie sembrano musica che invita a una danza universale di pace e di amore? Uomo stolto, non fare piangere la natura!”. A volte indugiavo tra simili pensieri quando i miei occhi miravano quelle bellezze e si inumidivano»[16]. L’alternanza tra un lessico più tipicamente militare e la presenza di questi spazi narrativi vicini alla memorialistica femminile denota una personalità sfaccettata e arguta che si muove tra emozioni, sentimenti, ribellioni e ideali.

Un’altra caratteristica di questa descrizione del periodo resistenziale, indice di un altro tratto della personalità di Bianca, è l’intento pedagogico della memoria. Durante la narrazione dei fatti vengono spesso inseriti incisi esplicativi che chiariscono al lettore alcuni passaggi. Ad esempio: «Tutti i partigiani avevano un nome di battaglia, ovviamente per evitare di essere identificati dal nemico, che avrebbe potuto perseguitare i famigliari rimasti a casa»[17]. All’intento didattico della scrittura si unisce anche la volontà di dimostrare l’esattezza e la veridicità di quanto viene raccontato. Questa necessità viene soddisfatta dall’autrice attraverso l’inserimento di altre fonti, per lo più fotografiche, e, soprattutto, di altre testimonianze. «Le notizie sulla missione Cherokee sono state precisate sulla scorta di una informazione fornitami recentemente dal comandante Silvio Ortona»[18], specifica Bianca dopo aver parlato dei lanci degli Alleati nel Vercellese. Inserisce addirittura il racconto intero di Rinaldo Starda, “René”, partigiano della 182a, che descrive alcuni episodi già ricordati dall’autrice.

Per Bianca Grasso, dunque, la Resistenza è stata senza dubbio il momento più difficile e allo stesso tempo più eccitante della vita. È consapevole di aver vissuto un momento eccezionale, anche nella sua tragicità, e lo vuole raccontare con precisione e allo stesso tempo con trasporto emotivo per evitare che questa sua esperienza si trasformi in un “messaggio perduto”. A questo periodo così ricco di emotività e frenesia si contrappone il periodo del dopoguerra, triste e poco significativo rispetto all’avventura appena conclusa. Il giorno della Liberazione è descritto con grande enfasi ed eccitamento. I partigiani avanzano in città, i fascisti fuggono, la popolazione saluta festante i partigiani scesi dalla montagna. In questo scenario, però, iniziano ad emergere i primi dubbi e le prime perplessità. «Quando si divulgò la notizia della tragica uccisione delle sorelle Elsa e Laura Scalfi e della loro nonna, insieme allo zio Luigi Bonzanini, rimasi indignata. Conoscevo le giovani, abitando nello stesso rione, sapevo che il loro padre era un sottufficiale e attivista fascista, ma da quanto mi risulta le figlie erano ragazze a posto come tante altre»[19].

Questo è solo uno degli episodi che Bianca racconta con incertezza e preoccupazione, sentimenti che caratterizzano i primi anni del dopoguerra vissuto dall’autrice con grande difficoltà per motivi economici, per gravi problemi di salute, che la colpiscono subito dopo la fine del conflitto, per problemi psicologici, che la costringono a riposarsi per due mesi e mezzo nel convalescenziario per ex partigiani a Bologna, e per la profonda delusione politica all’indomani delle elezioni del 1948. Bianca ritrova la pace solo andando in montagna e ripercorrendo i luoghi che l’hanno vista protagonista, insieme ad altri compagni, di un’avventura senza precedenti. «Contemplavo quelle montagne che si stagliavano contro il cielo arancione del tramonto e mi tornavano in mente i visi tesi o lieti, a volte sognanti, di quei ragazzi partigiani, volontari della libertà»[20]. Ed è proprio con la montagna che si chiude l’autobiografia di Bianca Grasso, una donna, un’antifascista, una partigiana combattente, una comunista, come si definisce lei stessa nella conclusione del libro, «orgogliosa di essere una donna vercellese che qualcosa ha dato per la libertà»[21].

Giovanna Michelone[22]

Giovanna è una figura molto diversa da Bianca per carattere e per indole, nonostante il contesto sociale, economico e culturale nel quale le due donne vivono e si formano, cioè il mondo operaio antifascista vercellese, sia lo stesso. Giovanna e Bianca sono accomunate dall’esperienza dell’antifascismo e della Resistenza, che le porta a conoscersi e a collaborare in alcune occasioni.

Giovanna non ha mai scritto una memoria o un’autobiografia. Di lei abbiamo però preziose testimonianze orali che l’Istituto conserva: la prima fu raccolta da Mimma Bonardo nel 1981 e pubblicata ne “l’impegno” da Gladys Motta nel 1985[23], la seconda da Marta Nicolo e Enrico Pagano e pubblicatane “l’impegno” nel 2013[24]. Partendo dall’analisi di quest’ultima ho provato a ricostruire la figura di Giovanna alla luce dell’esperienza resistenziale da lei vissuta e raccontata.

In questa intervista Giovanna ha un approccio didascalico nella narrazione dei fatti. È molto precisa, cita nomi, ruoli ed episodi con estrema puntualità e, nel fare questo, si aiuta con appunti scritti su pezzi di carta di recupero. Si rimprovera per le numerose distrazioni e si lascia scappare anche un gentile rimprovero nei confronti degli intervistatori, rappresentanti delle generazioni nate dopo la guerra, che hanno iniziato tardi a raccogliere queste testimonianze. «Doveva essere prima questa cosa. Forse veniva meglio, i ricordi erano più vivi, più freschi». Giovanna è dunque una cronista della Resistenza, attenta ai dettagli e ordinata nei ricordi.

La caratteristica forse più lampante della sua personalità è la cultura operaia, sempre presente nei suoi ricordi. Anche Bianca cresce nello stesso contesto sociale, ma nella sua autobiografia l’appartenenza al mondo operaio emerge molto poco ed è finalizzata solo alla comprensione di alcuni episodi personali. Giovanna invece interrompe spesso la narrazione per approfondire alcune questioni legate alla condizione operaia sotto il fascismo. Si sofferma molto sulla descrizione del lavoro degli operai della Châtillon[25], delle condizioni lavorative, del salario percepito, della vita quotidiana e di tanti altri aspetti. Questi approfondimenti costituiscono un importante documento storico sulla condizione operaia vercellese della prima metà del secolo scorso e contribuiscono alle ricerche già avviate sul tema. È proprio grazie al contesto lavorativo e all’ambiente familiare che Giovanna matura fin da ragazzina il suo pensiero antifascista. Anche lei, come Bianca, sviluppa una propria identità antifascista legata alla cultura operaia precedente rispetto alla scelta resistenziale. Dice infatti, descrivendo gli uomini che costituivano il nucleo antifascista vercellese[26]: «Perché loro, tutti i vecchi antifascisti, tutti gli uomini che prima della nascita del fascismo erano nelle cooperative, nelle case del popolo, loro non si son mai persi di vista. È per quello che dico che nella fabbrica noi la Resistenza non è che l’abbiamo cominciata nel ’43, dopo l’8 settembre, ma da sempre grazie a questa organizzazione»[27].

Anche per Giovanna l’ingresso nella lotta partigiana è abbastanza scontato, nonostante i suoi sedici anni. Descrive in modo dettagliato i primi compiti che le vengono affidati e che consistono prevalentemente nel mantenere i contatti tra l’interno e l’esterno della fabbrica. A differenza di Bianca, però, il suo ingresso nel mondo resistenziale non viene raccontato come automatico e spensierato. Ci dice infatti: «Dal giorno dopo iniziammo a organizzarci. Carlo Bernabino si diede da fare per coordinare le donne nello stabilimento. Ricordo che mi chiese se volevo e se me la sentivo di entrare nella Resistenza. Io appena sentii quella parola gli risposi: “Sì sì, si immagini, senz’altro!”»[28]. Questo brano della testimonianza denota un carattere molto diverso da quello di Bianca, dominato da una grande umiltà e gentilezza, che traspaiono anche nella descrizione delle sue attività. Ha spesso paura di sbagliare o di non fare la cosa giusta. «Ricordo che nel rientro Nino Baltaro mi aveva dato una busta con dentro un assegno. Di solito non dicevamo mai cosa c’era dentro, ma quella volta si vede che si sentì in bisogno di avvertirmi perché si trattava di soldi, allora si davano tanto valore ai soldi, se ne danno ancora oggi ma allora c’era tanta povertà, tanta miseria che il denaro… insomma, capivamo l’importanza. Io non so se per quello, mi trovai sull’autostrada. Io non ricordo che autostrada fosse, era una strada che non era sterrata. Io allora avevo sempre fatto solo strade sterrate, allora non c’erano strade incatramate da quelle parti, non c’era neanche la luce su, nei paesi. Mi trovai in questa strada incatramata, mi dicevo: “Ma dove vado? Qui sto sbagliando”. Sentii delle voci dietro di me che mi chiamavano: “Dove vai, di lì, bionda? Fermati, fermati”. Io mi voltai. Lì, sul promontorio, lì, un camion fermo pieno di fascisti, sotto degli altri. Si vede che loro stavano lì di guardia all’autostrada, non lo so. Fu l’unica volta veramente che mi spaventai perché dico: “Se vengon giù loro col camion è un minuto a prendermi. Io in bicicletta per tanto che vado forte non possono non prendermi. Se mi prendono e mi trovano ’sto assegno addosso cosa gli dico?”. Allora mi guardai intorno, vidi lì nel campo una casa, dico: “Abito lì, abito lì!”. Mi buttai giù da quella scarpata che era piena di sterpi, di tutte erbe che mi bruciavano tutte le gambe, di ortiche. Ricordo che mi portai le gambe rovinate non so per quanti giorni perché buttandomi giù in fretta così con la bicicletta… Io non so come feci a ritornare a casa, io non ricordo, non ricordo, non ricordo. Ricordo soltanto che ritornai perché, figuriamoci…»[29]. Accanto all’umiltà e all’insicurezza che si intravedono in questi ricordi, emerge un grande senso del dovere che coinvolge non solo la sua professione di operaia, ma anche il suo rapporto con la politica. Racconta con grande emozione e felicità l’incontro con i ragazzi del Fronte della gioventù, un momento vissuto come fondamentale per la propria formazione perché le permette di aprire la mente e di approfondire il suo credo politico.

La testimonianza di Giovanna si conclude con il racconto euforico della Liberazione. L’immagine che le è rimasta nitida nella mente di quei giorni di festa è l’illuminazione della città di notte. «Poi venne il 25 aprile e dire che fu una gioia è dire niente. È stata un’esplosione proprio. Eravamo tutti fuori, le mamme, tutte che si abbracciavano. Ma la cosa che più mi è rimasta impressa è stata l’illuminazione, è stata bella la Liberazione, è stata una gioia immensa. Ma quando dopo un po’ di giorni hanno illuminato la città, per la prima volta dopo cinque anni a me non pareva vero, mi pareva il sole, come se ci fosse il sole in città. Dopo cinque anni di oscuramento quasi c’eravamo dimenticati come questa città poteva essere di notte. E quando l’hanno illuminata abbiamo preso tutte le biciclette noi giovani, abbiamo fatto il giro per la città, non finivamo più di girare, per vederla, per ammirarla. Non ci pareva vero di ritrovare la luce»[30].

Andreina Zaninetti Libano[31]

Andreina è molto diversa dalle concittadine Giovanna e Bianca. Ha una soggettività più marcata ed è politicamente più consapevole. Ciò è dovuto non solo alla sua personalità, ma anche alla sua formazione e al contesto sociale e culturale a cui appartiene. Inoltre nel 1943 ha quasi quarant’anni, più del doppio degli anni di Giovanna e Bianca e questo la rende una figura differente, più consapevole degli eventi che sta vivendo e della scelta che compie prima e dopo l’8 settembre. Anche la forma memorialistica esaminata è diversa da quelle precedenti. Si tratta di un diario, una tipologia di testimonianza e fonte storica ben precisa, dal titolo “Cronaca della Resistenza”, che Andreina scrive tra il settembre 1943 e il maggio 1945. Una parte di questo diario[32], nello specifico quella compilata tra il 24 aprile e l’8 maggio 1945, è stata pubblicata[33] ne “l’impegno” nel 1997 e costituisce una testimonianza unica nel suo genere.

A differenza delle due memorie precedenti non si tratta di un ricordo o di una rielaborazione del passato, bensì di una presa diretta degli eventi. Non è possibile quindi cogliere la riflessione dell’autrice a distanza di tempo rispetto agli episodi narrati, ma quella istantanea, coeva agli avvenimenti stessi. Inoltre, analizzando questa straordinaria fonte storica, è possibile individuare tre tematiche relative al momento della Liberazione che stanno a cuore all’autrice. Un’indagine su questi temi ci permette non solo di delineare la soggettività di Andreina, ma anche di ricostruire le riflessioni di una donna consapevole e acuta. Questa memoria rappresenta dunque una doppia fonte storica rispetto al periodo resistenziale perché, oltre a darci informazioni utilissime sulla lotta partigiana nel Vercellese, ci fornisce un quadro del sentire privato di quegli anni, soprattutto di una donna che aveva deciso senza alcuna costrizione e senza alcuna necessità di contribuire alla lotta per la libertà.

Il primo tema che si può prendere in esame è la descrizione della Liberazione di Vercelli. Questo momento non viene raccontato con entusiasmo o felicità dall’autrice. Se si analizza infatti la terminologia utilizzata nella narrazione del 26 aprile emerge una sola parola di esultanza, “evviva”, posta all’inizio del racconto. Il resto è un susseguirsi di termini carichi di ansia e preoccupazione ai quali si contrappone una nota di speranza. Così Andreina ci racconta il suo 26 aprile, ben diverso da quello vissuto da Bianca e Giovanna: «Era finito un triste capitolo. Non i dolori, non le ripercussioni, non le amarezze, non le ristrettezze. Era finita la guerra. Cominciava la “pace” non meno drammatica, a pensarci bene. Ma si aveva una grande speranza di poter vincere anche quella, colla fede e la perseveranza»[34]. Numerosi sono i motivi di turbamento che spingono l’autrice a non esultare e a non illudersi dopo la fuga dei fascisti dalla città. Innanzitutto Andreina ci descrive con preoccupazione la presenza di una colonna tedesca[35] che, in fuga dalla Linea Gotica, vuole consegnarsi agli Alleati e punta su Vercelli. I termini utilizzati riflettono l’ansia di quei giorni. Andreina parla di una «minaccia grave» che «dovunque passa brucia tutto». Accanto a questo timore, ci descrive l’enorme tristezza che prova di fronte agli arresti, ai fermi e alle esecuzioni di quei giorni, indice questa di una profonda umanità e di un radicato rispetto verso l’essere umano che contraddistinguono il suo modo di essere. «Mi arriva, come un’eco lontana, il resoconto di tutto ciò che si fa in questi giorni a Vercelli e altrove, in questi primi giorni della Liberazione: arresti, fermi, esecuzioni… Io vivo in un mondo diverso non ho nulla a che fare con ciò  che appartiene al Comando Piazza, ai Comandi Partigiani, alle Giurie di Epurazione  ma ho il cuore greve come un macigno»[36] ci dice Andreina pochi giorni dopo la Liberazione della città. A questo motivo di tristezza si aggiungono anche i primi segnali della delusione politica, che emergerà in modo decisivo nei mesi successivi, rispetto alle sorti del Partito d’azione. Questo forse è il punto che differenzia maggiormente il racconto di Andreina da quelli di Bianca e Giovanna, ovvero la lucida analisi politica, quasi preveggente, rispetto al futuro di un partito nel quale la donna crede fortemente e per il quale ha rischiato molto. Scrive il 30 aprile: «Vedo il partito fiorire. Ma appunto questo, temo assai che darà noia agli altri partiti e faranno di tutto per eliminarlo. Sono partiti che vantano priorità antiche, prefasciste. Mentre il nostro è nato da un movimento intellettuale, partito dalle correnti più progredite del Liberalismo di Piero Gobetti, dei Fratelli Rosselli, di Parri, ecc…»[37].

La Liberazione, dunque, non è vissuta con gioia e spensieratezza e anche l’arrivo delle truppe alleate in città nella notte tra il 1 e il 2 maggio non è descritto in modo euforico. La narrazione è cupa, si parla di «rumore infernale», di «mastodonti» che «invadono» le strade, in contrapposizione alla giornata di festa appena trascorsa. Anche in questo racconto Andreina risulta distante, diversa, non solo da Bianca e Giovanna, ma anche dal resto della popolazione che «fissava tutto quell’apparato ad occhi spalancati»[38]. Dice infatti: «In me era uno strano contrasto. Dopo aver tanto atteso  durante la clandestinità  che giungessero i liberatori, ora sentivo in loro degli stranieri, dei nuovi occupanti, coi quali non si sapeva ancora come sarebbero andate le cose»[39]. Questa analisi è frutto di una matura coscienza politica ed è il risultato di una riflessione personale arguta e perspicace. Emerge un forte contrasto tra l’aspettativa maturata durante la lotta partigiana e la realtà dei fatti dopo la guerra e questo contraddistingue tutto il racconto di quei giorni.

L’unica attività che sembra dare qualche motivo di orgoglio e soddisfazione all’autrice è la partecipazione alle prime riunioni dell’Udi, l’Unione delle donne italiane, che nasce con la fine della guerra sulla scia delle istanze dei Gruppi di difesa della donna. Nel diario sono descritte in modo preciso le prime sedute di questa associazione e le prime difficoltà che le donne ad essa appartenenti si trovano ad affrontare. In quest’ottica il diario, come tutto l’archivio personale conservato all’Istituto di Torino, rappresenta una fonte storica importante per ricostruire le attività dell’associazione a Vercelli all’indomani della sua costituzione. Due in particolare sono le questioni che stanno a cuore ad Andreina e per le quali cerca l’appoggio delle amiche “comuniste” Mimma Bonardo e Anna Marengo. La prima riguarda l’assistenza ai soldati rimpatriati dalla Germania e dagli altri fronti, indice questo non solo, come già detto, della sua profonda umanità, ma anche dell’istinto materno che la guida in questa battaglia. «Non so se l’avere un figlio lontano, che potrebbe trovarsi in eguali condizioni, possa influire su di me, ma è certo che finalmente mi è parso di aver ottenuto lo scopo»[40], scrive il 3 maggio dopo una riunione con le compagne. La seconda questione che sottolinea ripetutamente è la necessità di tenere i partiti politici fuori da questo nuova associazione femminile, ma ha molte difficoltà a fare accettare la sua idea, soprattutto alle “democristiane”. Rimprovera anche l’amica Mimma per questo motivo: «Oh Mimma! Mimma! Cominciamo già le lotte politiche, anche tra noi. Io sarei così propensa a che le donne si dimenticassero un pochino, almeno qui, i problemi di partito, per pensare a qualcosa di più necessario in questo momento»[41].

Emerge dunque una figura femminile preparata politicamente e allo stesso tempo ricca di sentimenti umanitari nei confronti non solo dei soldati, ma anche dei “nemici”. A questo proposito è interessante la riflessione che registra sul diario alla vista delle numerose lapidi che incontra durante la visita ad alcuni paesi del Vercellese all’indomani della Liberazione. «Lungo le strade, vedevamo ovunque dei pali infissi nel terreno con dei nastri tricolori e corone di fiori. Indicavano i luoghi dove erano avvenute le esecuzioni dei partigiani, da parte dei nazifascisti. Anche sulle piazze e sui balconi di Roasio S. Maurizio c’erano questi segni di lutto e di ricordo. Una gran pena ci toccava il cuore. Sembravano innaturali ormai, tutte le atrocità che si erano fatte a così poca distanza di tempo. Pregavamo in cuor nostro che fosse tutto ormai finito e non si ripetesse mai più»[42]. Emerge un sentimento diverso rispetto a quello provato da Bianca quando, dopo la guerra, decide di visitare i luoghi della Resistenza. Se a Bianca i luoghi provocano nostalgia e una certa forma di benessere psicologico, ad Andreina procurano dolore e speranza allo stesso tempo. Prega infatti affinché le atrocità compiute nei mesi di guerra non accadano più. Questa preghiera così colma di tristezza sembra però incompiuta, non ascoltata, come se si fosse persa nel vento. Il diario, infatti, si conclude con un racconto triste e cupo, quello dell’uccisione di Bianca Molinari, una ragazza di diciannove anni giustiziata in quanto collaborazionista[43]. Scrive Andreina: «Quel fatto mi rattristò. L’avevo vista bambina. Non che sperassi in un suo ravvedimento, sia pure lontano. In lei c’era un abisso di perversità. Ma, chissà, avrebbe anche potuto darsi che, maturando, avesse cambiato vita. Ormai era finita. Aveva fatta la fine stessa di tante sue vittime. E qui posso anche fermarmi e mettere un punto definitivo su quello che è stato»[44].

 Conclusione

Così si conclude questo diario, con una nota carica di dolore che sottolinea la particolare sensibilità di Andreina, caratteristica che ritroviamo anche nell’autobiografia di Bianca e nel racconto di Giovanna, magari meno esplicitata, ma comunque presente. Ed è proprio questa umanità il filo conduttore che possiamo rintracciare in queste e in altre testimonianze di donne che hanno partecipato alla lotta partigiana. Il fatto di aver individuato, analizzando queste memorie, una costante comune che lega le figura di Bianca, Giovanna e Andreina, non porta a uno svilimento o a una banalizzazione della loro individualità e dell’unicità del contributo che hanno dato alla lotta di liberazione. Si tratta di uno spunto che potrebbe spingere a continuare a fare ricerca e ad analizzare nuove o già note testimonianze alla luce di questo nuovo approccio.


Note

[1] Thomas Mann, Prefazione, in Piero Malvezzi – Giovanni Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Torino, Einaudi, 1995, p. XI.
[2] Ersilia Alessandrone Perona, “La penna è l’arma del pensiero”, in “l’impegno”, a. XV, n. 1, aprile 1995; Gladys Motta, Donne, cultura, storia. I caratteri della partecipazione femminile alla Resistenza nel Biellese, in “l’impegno”, a. I, n. 0, aprile 1981 e a. I, n. 1, aprile 1981; Id (a cura di), Esperienze resistenziali femminili a Vercelli, in “l’impegno”, a. V, n. 3, settembre 1985.
[3] Le ricerche più note sono: Anna Bravo – Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne (1940-1945), Roma-Bari, Laterza, 1995; Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Milano, La Pietra, 1976; Anna Gasco (a cura di), La guerra alla guerra. Storie di donne a Torino e in Piemonte tra il ’40 e il ’45, consulenza storica di Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, Torino, Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, vhs, 1995 (anche in dvd allegato al volume omonimo, Torino, Seb 27, 2007).
[4] G. Motta, Donne, cultura, storia. I caratteri della partecipazione femminile alla Resistenza nel Biellese, cit.
[5] «Bianca Grasso è nata a Vercelli nel 1926. Di famiglia operaia, a quindici anni è entrata in fabbrica, dove ha lavorato fino al 1952. Dopo una breve parentesi di attività agricola, ha abbandonato il lavoro per motivi di salute». Questo breve cenno biografico è tratto da G. Motta (a cura di), Esperienze resistenziali femminili a Vercelli, cit.
[6] Bianca Grasso, Messaggio perduto. Ricordi di una partigiana, Vercelli, Gallo Edizioni, 1997, p. 11.
[7] Il primo capitolo, intitolato significativamente Prime ribellioni, racchiude i ricordi dell’infanzia e della prima adolescenza.
[8] Idem, p. 14.
[9] Idem, p. 15.
[10] Idem, p. 21.
[11] Idem, p. 19.
[12] 12 Idem, p. 31.
[13] Il padre di Bianca, Antonio Grasso, partecipa ai combattimenti della prima guerra mondiale e scrive un diario durante i mesi passati al fronte pubblicato in Alberto Lovatto (a cura di), “Per oggi è passata per un buco”. Diario del soldato Antonio “Oreste” Grasso. 27 agosto 1916 – 18 gennaio 1917, in “l’impegno”, a. XIV, n. 2, agosto 1994.
[14] Gli episodi resistenziali relativi all’ospedale di Vercelli erano stati già descritti da Bianca in B. Grasso, Episodi della Resistenza all’Ospedale di Vercelli, in “l’impegno”, a. III, n. 3, settembre 1983; G. Motta (a cura di), Esperienze resistenziali femminili a Vercelli, cit.
[15] B. Grasso, Messaggio perduto, cit., pp. 4748.
[16] Idem, p. 54.
[17] Idem, p. 46.
[18] Idem, p. 67.
[19] Idem, p. 84.
[20] Idem, p. 97.
[21] Idem, p. 99.
[22] «Giovanna Michelone è nata a Vercelli nel 1927, da padre contadino poi divenuto operaio e da madre contadina. Ha conseguito privatamente la licenza di avviamento al lavoro e, successivamente, il diploma di dattilografa. Dall’età di dodici anni ha lavorato in fabbrica dove è rimasta fino al 1956, anno in cui, per motivi familiari, ha lasciato l’attività lavorativa». Questo cenno biografico è tratto da G. Motta (a cura di), Esperienze resistenziali femminili a Vercelli, cit.
[23] Ibidem.
[24] Marta Nicolo (a cura di), Intervista a Giovanna Michelone, in “l’impegno”, a. XXXIII, n. 1, giugno 2013.
[25] Fabbrica tessile nata in Val d’Aosta all’inizio del Novecento e poi presente in Piemonte, soprattutto a Vercelli e Ivrea.
[26] Nella testimonianza cita Mini Facelli, Carlo Bernabino, Nino Baltaro ed Enrico Casolaro, che lavoravano alla Châtillon e che erano già stati incarcerati, mandati al confino o semplicemente sorvegliati dal regime. Accanto a loro ricorda Giuseppe Rosso, Vittore Domiglio, Sandro Rigolino, Carlo Cerutti e l’“avvocato Patoia”, attivi antifascisti al di fuori della fabbrica.
[27] M. Nicolo (a cura di), art. cit., pp. 121-122.
[28] Idem, p. 122.
[29] Questa parte della testimonianza è tratta dalla registrazione dell’intervista conservata nell’Archivio dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia.
[30] M. Nicolo (a cura di), art. cit., p. 124.
[31] «Andreina Zaninetti Libano, Anna il suo nome di battaglia, nacque a Vercelli il 18 giugno del 1904, figlia di Giulio Zaninetti, di Breia, che a Vercelli conduceva un’attività di lattoniere-idraulico, con alcuni dipendenti, e Maria Bredo, di Vercelli, dove vivevano. Andreina aveva due sorelle minori: Laura “Lora”, nata nel 1906, e Jole “Lina”, nel 1908. Si era diplomata in ragioneria ed era impiegata nell’Ufficio provinciale dell’economia di Vercelli, l’attuale Camera di commercio. Dopo essersi sposata con Luigi Libano, titolare di una bottega di orafo-orologiaio, aveva avuto due figli: nel 1923 Giulio, ora musicista e direttore d’orchestra, e Maria Laura, la Mila del diario, nata nel 1926, insegnante per bambini portatori di handicap, ora in pensione. Ad introdurre Andreina alla lotta antifascista, già prima della caduta del regime, aveva contribuito molto il ragionier Giovanni Celoria, Celeste nel diario, marito di Jole, sorella di Andreina, e alcuni colleghi di lavoro che, come Celoria e tutta la famiglia di Andreina, appartenevano al Partito d’azione. Andreina dopo l’8 settembre 1943 si impegnò per salvare i prigionieri di guerra angloamericani, con l’ “Ufficio informazioni” e l’ “Ufficio falsi” del movimento giellista vercellese e faceva parte anche dell’Udi, Unione donne italiane, associazione di appartenenti ai partiti antifascisti, già presenti nei Gruppi di difesa della donna. […] Dopo la Liberazione fu responsabile della sezione vercellese dell’Istituto per la storia della Resistenza. Rimase nel Pda fino al suo scioglimento nell’agosto del 1947. Morì a Vercelli il 30 aprile 1982». Questa biografia è tratta da Andreina Zaninetti Libano, “Era finito un triste capitolo…”, a cura di Patrizia Dongilli, in “l’impegno”, a. XVII, n. 2, agosto 1997.
[32] Il diario è conservato integralmente nell’archivio dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza di Torino all’interno di un fondo archivistico complesso e ricco.
[33] A. Zaninetti Libano, art. cit.
[34] Idem, p. 43.
[35] «La mattina del 28 aprile, in ritirata dalla Liguria, da Torino e dalla Valle d’Aosta, proprio a Cigliano giunse una forte colonna di nazifascisti che i partigiani, per l’enorme sproporzione di forze, tentarono inutilmente di bloccare. Una delegazione del Cln di Vercelli cercò, senza esito, di trattare col Comando tedesco. Il giorno dopo ci provarono alcuni comandanti partigiani, ma poiché i nazifascisti rifiutarono ancora di arrendersi, si giunse solo a una tregua di ventiquattr’ore. Nazisti e fascisti continuarono però a muoversi, tanto che i partigiani furono costretti a minare i ponti sul canale Cavour e sul Naviglio. Non potendo proseguire verso Vercelli e Milano, le forze nemiche occuparono la zona fino a Borgo d’Ale, Cavaglià e Salussola, compiendo le consuete razzie e devastazioni. La sera del 29 aprile arrivarono a Santhià, dove uccisero alcuni civili, partigiani e il presidente del Cln». Per approfondire si veda Ezio Manfredi, Dalle Alpi occidentali a Santhià. La strage dell’aprile 1945 e la resa del 75o Corpo d’armata, in “l’impegno”, a. XXI, n. 3, dicembre 2001.
[36] A. Zaninetti Libano, art. cit., p. 46
[37] Ibidem.
[38] Idem, p. 48.
[39] Ibidem.
[40] Idem, p. 49.
[41] Idem, p. 46.
[42] Idem, p. 51.
[43] Lo stesso episodio viene ricordato anche da Bianca Grasso: «Ne conoscevo un paio, e tra queste la Bianca Molinaro; era di una crudeltà indicibile […]: per le torture utilizzava anche i cani. Proprio la Molinaro possedeva un lupo tedesco al quale si accompagnava quando andava ad arrestare qualche antifascista. Rividi quella ragazza cadavere nella camera mortuaria dell’ospedale di Vercelli. Probabilmente qualcuno l’aveva giustiziata». B. Grasso, Messaggio perduto, cit., p. 85.
[44] A. Zaninetti Libano, art. cit., p. 51.

Categories: Articoli

Tags: ,