Sabrina Contini
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXIX, n. s., n. 1, giugno 2019
“Vivere le sensazioni, vivere i luoghi, vivere la memoria” è il titolo dell’iniziativa, ideata dai docenti Massimo Bonola, Sabrina Contini e Enrico Sezzano, che ha coinvolto tutte le classi dell’Istituto superiore D’Adda di Varallo per due giornate, venerdì e lunedì a cavallo del 27 gennaio, data ormai a tutti nota come simbolo della Giornata della Memoria, appuntamento centrale del calendario civile.
La scelta di far “vivere” questa giornata ha mosso il gruppo di una decina di insegnanti che ha organizzato l’evento, decisi a non lasciare passivi gli studenti come in altre occasioni, spettatori più o meno attenti di un film o di una conferenza, ma a renderli partecipi di un percorso che potesse toccare le corde delle loro emozioni.
La partecipazione attiva degli studenti è iniziata già prima di queste giornate: alcuni di loro, infatti, a volte inconsapevolmente, sono stati coinvolti nella preparazione di cartelloni e installazioni artistiche, nella ricerca di informazioni e testimonianze, nella scelta di immagini (in particolare foto realizzate nel corso di viaggi della memoria effettuati durante gli scambi culturali o visite di istruzione) e di musiche, che poi sono stati parte integrante e significativa dell’allestimento finale. Altri sono stati presenti e indispensabili durante il percorso, come i ragazzi del laboratorio di teatro e quelli dell’orchestra di istituto, vivendo in prima persona non solo le proprie emozioni, ma anche quelle dei loro compagni, che hanno visto sfilare per tutto lo svolgimento dell’iniziativa.
Il percorso, allestito in alcuni locali sotterranei dell’edificio scolastico, non ha avuto la pretesa di rappresentare e ricostruire ciò che non è rappresentabile e riproducibile, ovvero l’orrore dei campi di sterminio, ma ha voluto evocare e provocare negli studenti emozioni e sensazioni, grazie a suoni, immagini, voci, rumori, esperienze tattili, che i ragazzi hanno sperimentato direttamente e che hanno potuto contestualizzare recuperando nella loro memoria conoscenze acquisite a scuola o a livello personale sul tema della deportazione e della Shoah.
Le considerazioni che hanno spinto alla scelta di allestire un’esperienza sensoriale per la Giornata della Memoria sono spiegate così da uno dei curatori, Enrico Sezzano, docente di scienze motorie: «Alcune volte, lavorare con gli adolescenti ti fa scontrare con una loro apparente indifferenza nei confronti delle attività scolastiche. La visione di un film, la conferenza di un relatore, troppo spesso sono vissuti da un gran numero di ragazzi, fortunatamente non da tutti, in maniera passiva o superficiale. La volontà di scuotere da un senso di apparente torpore è stato il motivo che ci ha spinti a scegliere una strada diversa, che ha utilizzato il corpo, tanto maltrattato nei lager, come il mezzo che permette di ricordare. Sfruttare la memoria, che si scrive nei tessuti corporei, per far durare la Giornata della Memoria, è stato il senso dell’allestimento dell’Istituto D’Adda. Se sento, provo emozioni, vivo esperienze, allora ricordo, ed il ricordo non è solo nella testa ma anche nel corpo. Farsi avvolgere dai rumori della guerra, bendati per non distrarsi, è stata una piccola esperienza per scuotere l’anima e farla vibrare, senza ferirla, insieme ai propri compagni. Camminare scalzi su ciotoli, toccare con mano le atrocità della guerra ha permesso ai ragazzi che hanno partecipato di vivere il disagio sulla propria pelle. Luci, opere d’arte nella penombra, suoni e lamenti dei ragazzi del laboratorio teatrale hanno fatto vivere il disorientamento e il senso di perdita della coscienza. In conclusione si può dire che, proprio il corpo, con la sua capacità di trattenere le emozioni che gli arrivano dai cinque sensi, è stato il mezzo per veicolare contenuti diversi, ma sicuramente apprezzati dai ragazzi».
L’esperienza emotiva si è così trasformata anche in un’occasione di apprendimento originale e diversa dal solito, dando un senso a parole come “spersonalizzazione” anche solo attraverso un semplice gesto, come abbandonare le proprie scarpe non avendo la certezza di ritrovarle. I ragazzi sentono spesso queste parole durante le lezioni di storia e i momenti di commemorazione in riferimento all’esperienza della deportazione, ma restano lontane dal loro vissuto. Gli studenti hanno potuto sperimentare ad esempio il disorientamento, vivendo una parte del percorso al buio, perché bendati, o la perdita della propria identità, lasciando alcuni oggetti personali e ricevendo un numero di serie.
Sono stati accompagnati e assistiti dagli insegnanti coinvolti nell’allestimento, ma anche da altri che hanno potuto fare questa esperienza con loro fino all’ultima parte del percorso dedicata alla memoria, dove è scattata una conoscenza davvero più profonda, una memoria che si è fatta sensazione nel fisico e che così ha emozionato anche la mente. I partecipanti, alcuni visibilmente commossi, hanno potuto dare voce ai testimoni, cercando di ritrovare l’identità nascosta dietro al numero ricevuto e leggendo le parole del testimone corrispondente, una persona che ha vissuto l’inferno del lager o che ha studiato o parlato della Shoah attraverso la poesia, la narrativa o il teatro, affinché la memoria di ciò che è stato non si perda: Anna Frank, Primo Levi, Liliana Segre, Massimiliano Kolbe, Paul Celan, Hannah Arendt e molti altri. A fare da sfondo a questo momento di lettura collettiva, un pannello offerto dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Varallo che ricorda i nomi dei deportati vercellesi, biellesi e valsesiani, a prova che questa pagina di storia ha toccato da vicino anche il territorio locale. Molti degli studenti si sono soffermati a cercare nomi conosciuti o persone provenienti dal loro paese o da paesi vicini, testimoniando, anche solo attraverso la ricerca di un nome, il desiderio di conoscere la storia di alcune delle vittime della deportazione.
Permettere agli studenti di immedesimarsi, almeno per un momento, in chi ha vissuto questa pagina nera della storia era uno degli obiettivi che i docenti si erano proposti e che, a quanto emerge dalla lettura dei biglietti lasciati alla fine del percorso in una “scatola delle impressioni”, sembra essere stato raggiunto. Parole come toccante, emozionante, interessante, formativa, istruttiva, coinvolgente, originale (seguita da «altro che il solito film»), si sono mescolate ad altre come angoscia, tristezza, dispiacere, disorientamento, inquietudine, «paura e rabbia per ciò che altri hanno vissuto ingiustamente», e si sono alternate a commenti dove all’emozione provata si unisce anche una riflessione più elaborata. In essi emerge la consapevolezza della impossibilità di ricostruire l’esperienza dei lager, ma nello stesso tempo l’utilità di un’esperienza simile per sviluppare l’interesse al tema della memoria e al dovere di non dimenticare perché «ciò che è accaduto potrebbe riaccadere», scrive una studentessa, «ma non finché verrà aumentata la memoria, non finché le loro storie vivranno tra noi». Uno studente a questo proposito scrive: «Che dire? posso solo immaginare il dolore che avevano e l’angoscia, questa che abbiamo visto e sentito è la minima parte, loro avevano le armi puntate e attorno i nazisti che magari si divertivano a vedere la sofferenza delle persone. Spero che da questo errore l’uomo impari la lezione e non commetta più simili errori»; un altro: «Ho vissuto un’esperienza che mi ha fatto capire il male che troppe persone hanno vissuto e anche un male che nessuno dovrà mai più provare»; un altro ancora: «È importante ricordare, non si può rimanere indifferenti», anche perché «esiste sulla terra un posto peggiore della cenere dei campi di concentramento, una prigione più vergognosa per l’uomo: è quella del silenzio». Non mancano le espressioni tipicamente “social” come: «Io non dimentico #Giornata della memoria2019» o «#l’odio è il peggior male».
In alcuni casi è stato interessante leggere come i ragazzi siano stati portati dall’esperienza del percorso a interpretare in luce diversa il proprio vissuto di adolescenti del XXI secolo: «La preoccupazione della maggior parte dei giovani è quella di vestirsi alla moda e giudicare costantemente tutti coloro che li circondano. Dovrebbero pensare che se fossero nati in un’epoca differente i vestiti non li avrebbero avuti proprio e il tempo per prendersi gioco dei più deboli lo avrebbero dovuto utilizzare per spaccare pietre e cercare un modo per non morire di fame e di fatica», oppure: «L’esperienza che è stata proposta credo che abbia contribuito a rendere ognuno di noi un po’ più consapevole della fortuna che ognuno di noi ha. La cosa più importante sarà preservare il ricordo di ciò che è successo, visto che a noi può sembrare molto lontano, ma in realtà ci tocca molto più di quanto pensiamo». Non mancano le denunce di situazioni in cui «è difficile parlare di Olocausto in classe, soprattutto quando le reazioni dei miei compagni esprimono un pensiero filonazista. Mi fa un tale ribrezzo, desidero una maggior apertura mentale e sensibilità da parte di tutti, non sanno come sono fortunati», e considerazioni pessimiste sulle possibilità che l’uomo smetta di uccidere i suoi simili e riesca a non rimanere indifferente di fronte alle condizioni di prigionia, di violenza e privazione dei diritti umani di cui ancora oggi purtroppo si viene a conoscenza ogni giorno. Infine molte sono state le riflessioni sulla impossibilità di usare le parole per descrivere le atrocità della Shoah; la più bella e completa, che merita di essere riportata, è quella di M.: «Ho sempre pensato che le parole costituiscano un elemento fondamentale per la vita dell’uomo. Sono lo strumento grazie al quale dialoghiamo, ci confrontiamo e ci esprimiamo, sviluppiamo pensieri ed emozioni. Le parole sono ciò che ci rende umani. Per questo motivo do sempre un importante peso a quello che dico, perché so che le parole, un po’ come le pietre, possono fare male ed una volta lanciate è difficile tornare indietro. Sempre per lo stesso motivo ne contemplo la totale assenza: il silenzio. È nel silenzio che riusciamo davvero a riflettere, a ponderare sulle parole da dire. A volte però il silenzio è anche l’unica cosa che rimane. Dopo che le parole non riescono più nella loro funzione, c’è solo il silenzio, ci sono occasioni in cui le parole sono superflue, quasi pretenziose, nel voler cercare di comunicare una cosa più grande di loro. Non è sempre necessario fare rumore. In certi casi, e oggi decisamente uno di questi, è meglio abbracciare il silenzio».
In conclusione, il percorso realizzato con le premesse e gli obiettivi illustrati si è rivelato un ottimo strumento didattico ed educativo, ma anche occasione di crescita dell’intera comunità scolastica, se si considera che c’è stata partecipazione da parte di tutte le componenti, personale di segreteria e collaboratori scolastici compresi. Essa ha potuto, infatti, vivere un momento significativo, capace di dare spazio alle emozioni da vivere interiormente, ma nello stesso tempo insieme agli altri, fermando per un momento la frenesia delle attività lavorative e scolastiche, per restituire il giusto tempo alla memoria di questa storia sulla quale non può e non deve cadere l’oblio.
Le fotografie sono di Loris Terrafino, studente del liceo classico dell’Istituto superiore D’Adda.