Orazio Paggi
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXI, n. s., n. 2, dicembre 2011
«La lotta si è conclusa in un fallimento e vorrei trovare il bandolo della matassa, capire se un’errata interpretazione delle idee che ho sostenuto sia responsabile o no di quello che è successo», dice Domenico, un “signore”, repubblicano e garibaldino, mentre si sta aggirando tra le sale del parlamento di Torino, dove si è recato per incontrare un vecchio compagno di carcere, Sigismondo di Castromediano, ora deputato. La sua visita è dovuta apparentemente a necessità, spera che l’amico gli possa trovare un lavoro, perché per le sue idee è caduto in disgrazia, è diventato, lui un tempo proprietario terriero, un povero. In realtà è una visita politica per capire chi, dopo l’Unità, rappresenti e guidi l’Italia. La risposta gli è data da Crispi, che dal suo scranno rinnega il passato democratico e mazziniano inneggiando invece a Vittorio Emanuele II e alla monarchia, che «ci unisce mentre la repubblica ci dividerebbe», e dai deputati silenziosi che lo ascoltano, gente che ha approfittato della nuova situazione per accrescere il proprio potere praticando in modo spregiudicato l’esercizio amorale del trasformismo pur di rimanere a galla.
In questa, che è la sequenza finale di “Noi credevamo” (2010), Mario Martone estrinseca il concetto di Risorgimento come rivoluzione mancata, che attraversa come un fantasma tutto il film. Lo fa anche da un punto di vista formale: riprende l’aula del parlamento vuota, a parlare c’è solo Crispi, si sentono gli applausi, ma non vediamo nessuno seduto al suo posto, come se l’Italia appena nata (siamo all’indomani dei fatti d’Aspromonte) fosse già morta. Unico spettatore è Domenico che, in soggettiva, guarda da lontano il parlamentare siciliano, a rimarcare la distanza tra due mondi ormai inconciliabili. Il regista napoletano chiude con il primo piano del protagonista che avanza verso la macchina da presa, la fissa, rendendola testimone della sua sconfitta. Le parole finali pronunciate senza più energia, sconsolate, fuori dal tempo, rimandano all’oggi e chiedono se vi sia ancora la forza, la voglia, la costanza di “credere”. Martone racconta il passato ma guarda al presente, nel quale i problemi irrisolti e i vizi di ieri sono diventati normalità quotidiana: la questione meridionale perennemente elusa, la corruzione della classe dirigente, il terrorismo rimosso.
Il Risorgimento da Gramsci in poi è stato letto come una rivoluzione tradita, l’occasione mancata per creare un paese indipendente, unito e soprattutto democratico. Da questa interpretazione, più che un’Italia unitaria emerge un’Italia delle divisioni e delle opposizioni mai composte: Nord-Sud, città-campagna, proletari-padroni, laici-clericali. Non è un caso che in “Noi credevamo” due dei protagonisti, Angelo e Domenico, in circostanze diverse (il primo durante il moto mazziniano in Savoia, il secondo sull’Aspromonte) incitino i compagni alla “compattezza”, perché si rendono conto che non c’è.
Questa visione problematica del Risorgimento non è comunque univoca, parallela ad essa il cinema ne ha alimentata un’altra trionfalistica e celebrativa, soprattutto agli albori. Ai primi del Novecento, in piena epoca giolittiana, gli ideali risorgimentali sono visti dai governi come elementi indispensabili alla creazione di un’identità nazionale. Il cinematografo è considerato un efficace strumento per diffondere tali valori nelle masse, che frequentano assiduamente le sale di proiezione. Vengono così prodotte pellicole come “La presa di Roma. XX settembre 1870” (1905), di Filoteo Alberini, atto di nascita del cinema italiano, nel quale domina il culto laico e massone della patria immortalato nel tableau vivant finale, intitolato “Apoteosi”, dalle figure di Garibaldi, Mazzini[1], Cavour e Vittorio Emanuele II disposti attorno a una donna allegoria dell’Italia. Il fatto di porre sullo stesso piano personaggi politici agli antipodi e di considerarli padri della nazione in ugual misura mostra chiaramente l’intenzione di realizzare un conformismo ideologico attrattivo e una nuova pedagogia in grado di comporre i dissensi tra democratici e moderati, repubblicani e monarchici che avevano caratterizzato tutto l’Ottocento. Si vogliono evitare tanto la discussione polemica quanto l’analisi critica, preferendo presentare un Risorgimento unitario, come in realtà non fu, nel quale ognuno ha fatto la propria parte nel contribuire alla nascita di uno stato libero, solido e moderno.
Il dissenso in uno schema di questo tipo ovviamente non ha casa. Lo si capisce anche dalla retorica del sacrificio, di derivazione deamicisiana, che include nella sua fede per l’Italia il martirio, come avviene per il giovane protagonista de “Il piccolo garibaldino” (1909), di regista anonimo, che muore sul campo di battaglia. L’abnegazione, il senso del dovere, la coerenza idealistica, l’amor di patria, sono i tratti peculiari di diversi film di questi anni, che puntano al pietismo e alle facili lacrime piuttosto che ad una riflessione meno edulcorata e più veritiera degli avvenimenti storici. A ben vedere è questo un tentativo di mediazione culturale nei confronti delle masse, diretto sia ad inculcare i valori fondamentali dell’ideologia borghese – ordine, individualismo, merito, sicurezza – sia a difenderli dai crescenti movimenti anarchici e socialisti.
Lo stesso mito di Garibaldi è svuotato delle sue istanze democratiche e repubblicane, se non è conveniente demonizzarlo si cerca di anestetizzarlo. La popolarità dell’eroe dei due mondi era infatti ancora troppo alta per poterlo screditare politicamente, era meglio evidenziare le sue qualità di generale, stratega e combattente coraggioso, mettendole però al servizio della causa monarchica. Nella cosiddetta vulgata conciliarista la presenza di repubblicani e rivoluzionari come Mazzini e Garibaldi poteva d’altra parte essere giustificata per la concezione laica che avevano dello Stato[2]. Ne “Il piccolo garibaldino”, per fare un esempio, camicie rosse e bersaglieri dell’esercito regio combattono insieme nella spedizione dei Mille senza suscitare né perplessità né imbarazzi.
Il potere politico utilizza e sfrutta le potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione per creare consenso e rileggere la storia a proprio uso e consumo. Come fa il regime mussoliniano, che durante il ventennio vuole dimostrare un’ideale continuità tra rivoluzione risorgimentale e rivoluzione fascista. Vengono realizzati film, da “Il grido dell’aquila” (1923), di Mario Volpe, a “Un balilla del ’48” (1927), di Umberto Paradisi, in cui si equipara la marcia su Roma alle gesta garibaldine, le camicie rosse alle camicie nere, addirittura la mazziniana Giovine Italia allo squadrismo fascista.
L’opera cinematografica che meglio sintetizza questo clima fascistizzato è il capolavoro di Alessandro Blasetti, “1860” (1934), nel quale si racconta lo sbarco dei Mille in Sicilia, visto dal basso con gli occhi di un picciotto. Lo stesso regista, come ricorda Sergio[3], in un’intervista ne “La Stampa”, spiegava che il film che si apprestava a girare doveva «evocare l’atmosfera del 1860 per molti aspetti simile a quella del 1920- 1922». È questa una dichiarazione di continuità tra le due fasi storiche, resa visivamente dalla sequenza finale poi tagliata[4], dove le camicie nere della marcia su Roma vanno incontro agli ormai attempati reduci garibaldini. Si potrebbe pure azzardare un non semplice parallelismo tra Mussolini e Garibaldi, entrambi uomini d’azione e motivatori di folle, se non che la scelta di inquadrare raramente il generale e quasi mai in primo piano dimostra la volontà di non fare ombra nel modo più assoluto al duce.
La tesi di Blasetti per opposizione verrà condivisa da Luchino Visconti ne “Il Gattopardo” (1963), dove si prefigura nell’esito delle guerre risorgimentali il cambiamento autoritario del paese (la fucilazione all’alba dei soldati regolari passati alle schiere garibaldine suona come un doveroso ritorno all’ordine). Ma mentre per il primo il Risorgimento è una rivoluzione riuscita, confermata a posteriori dal trionfo del fascismo, per il secondo è una rivoluzione mancata per il rinnovamento democratico del paese.
Il Risorgimento: rivoluzione mancata
Nel secondo dopoguerra, superata la tragedia della dittatura fascista e dell’occupazione tedesca, si comincia a guardare alla recente storia d’Italia con occhio più critico. Un’altra rivoluzione, quella della Resistenza, che avrebbe dovuto mutare nel profondo la società italiana, non si è realizzata. Anzi, sotto il controllo del potere democristiano, rischia di essere svuotata dei suoi contenuti civili. Per l’intellettuale l’impegno diventa imperativo categorico, così come raccontare la realtà è una necessità inderogabile.
In questo clima propositivo, engagé, analitico, il cinema, attraversato dall’estetica neorealista, non si tira indietro e racconta per immagini il mondo che lo circonda, non senza spunti di vivace polemica verso la classe dirigente. Nei confronti del Risorgimento, se da una parte alimenta un filone per così dire “popolare”, che sfrutta gli scenari bellici ottocenteschi per costruire melodrammi passionali, con ottimi risultati nei casi di registi come Raffaello Matarazzo o Carmine Gallone, dall’altra sente l’esigenza di riflettere sui meccanismi che hanno prodotto l’Italia e che ancora nel presente incidono pesantemente sul paese.
Chi più di ogni altro teorizza il Risorgimento come una rivoluzione mancata secondo la lettura che ne aveva dato Antonio Gramsci è Luchino Visconti. Il regista milanese, pur di provenienza aristocratica, professa idee comuniste che lo fanno sentire vicino al popolo, verso il quale si pone nell’atteggiamento dell’intellettuale organico. Al Risorgimento Visconti dedica due film, “Senso” (1954) e “Il Gattopardo” (1963), nei quali affronta lo spinoso tema dell’emarginazione del popolo (e quindi della democrazia) nella storia nazionale.
In realtà nel primo dei due la “rivoluzione tradita” resta ai margini, per i tagli imposti dalla censura più che per volontà dell’autore. Il titolo doveva essere “Custoza”, per commemorare il sacrificio dei numerosi soldati morti in battaglia e per evidenziare l’assurdità della guerra, ma fu considerato dalle autorità militari troppo disfattista. Inizialmente era stato girato un diverso finale rispetto a quello della fucilazione di Franz Mahler, il primo piano di un soldato semplice che mezzo ubriaco piange per la vittoria ottenuta. Il personaggio rivestiva un doppio valore simbolico. Innanzitutto quello di una vittoria inutile (ribadito a Livia Serpieri da Franz nell’incontro finale a Verona), perché l’Austria avrebbe perso il conflitto. In secondo luogo tende a significare che a pagare i costi delle guerre sono sempre i soliti, gli appartenenti alle classi meno abbienti, i contadini più di tutti. Ma soprattutto Visconti si vede costretto a tagliare la sequenza più significativa del suo discorso politico: quella in cui il marchese Roberto Ussoni, cugino di Livia, si reca al quartier generale di La Marmora a chiedere istruzioni su come devono disporsi i volontari a fianco dell’esercito regolare. Riceve invece un secco rifiuto dallo stato maggiore per paura che la guerra possa prendere una piega troppo democratica[5]. La censura della sequenza è dovuta al fatto che i volontari democratici ricordavano da vicino le formazioni partigiane che avevano combattuto i nazifascisti, mentre l’opposizione delle gerarchie militari alle richieste di Ussoni assomigliava troppo alle incomprensioni nate nel difficile inverno 1944-45 tra il Clnai e il Comando alleato presieduto dal generale Alexander sulla conduzione delle operazioni belliche nell’Italia del Nord. Il ritornare sulla Resistenza e sulle sue implicazioni sociali non era gradito al governo democristiano, che in ogni modo cercava di smorzare l’idealismo partigiano e di imbavagliare il paese nella sua ragnatela di potere (la cosiddetta legge truffa elettorale maggioritaria del 1953 precedeva di un anno l’uscita di “Senso”).
Se il film si concentra ampiamente sulla relazione adulterina tra Livia e Franz, Visconti non rinuncia però a una lettura politica. La sconfitta dell’Austria non rappresenta semplicemente la fine del dominio asburgico ma la decadenza dell’aristocrazia, dei suoi valori e dei suoi riti. E il gesto scellerato della bella contessa Serpieri di consegnare il denaro dei patrioti all’amato tenente austriaco al fine di evitargli il fronte, è il tradimento metaforico della classe nobiliare nei confronti degli ideali risorgimentali.
La riflessione politica viscontea, rimasta forzatamente incompiuta in “Senso”, giunge a completa maturazione ne “Il Gattopardo”, tratto dall’omonimo romanzo di Tomasi di Lampedusa. È ormai chiaro che il Risorgimento, per dirla alla Gramsci, è una “rivoluzione senza rivoluzione”, una rivoluzione mancata, che non c’è stata soprattutto al Sud. A capo della gerarchia sociale la vecchia nobiltà è sostituita dalla borghesia (la vera vincitrice della rivoluzione risorgimentale), ma in realtà nulla è cambiato: il popolo continua ad essere vessato come prima, a sgobbare sulla terra dei padroni e a pagare tasse inique a uno stato repressivo e antilibertario. Siamo di fronte a un involgarimento del potere che segna, come sottolinea Marx, il passaggio dalla proprietà fondiaria alla merce. I Salina rappresentavano un mondo oppressivo ma caratterizzato da una sua moralità fatta di onore, dignità e coerenza; i nuovi vincitori, i Sedàra o i Tancredi, guardano esclusivamente al calcolo economico e alle possibilità di vantaggio e di guadagno. È non solo la sconfitta del principe e del suo ceto, destinati a scomparire o riciclarsi ricorrendo al trasformismo più spregiudicato come fa il nipote, ma delle masse proletarie, contadini e operai, considerate dalla classe dirigente o carne da macello o braccia da sfruttare.
Significative sono due sequenze contigue ma nei contenuti oppositive tra di loro. Nella prima Chevalley, un emissario piemontese, offre al principe un posto nel Senato del nuovo Stato, a ribadire il tentativo di riassorbimento politico di quell’aristocrazia fino a ieri dominatrice delle sorti italiane. Lo scopo è di creare attorno al nascente regno italiano un gruppo ideologicamente moderato e conservatore, se non reazionario, che sostenga il re ed emargini i democratici, specie se di provenienza mazziniana. Nella seconda la macchina da presa segue il funzionario che, incassato il diniego del principe, all’alba attraversa Donnafugata per ripartire in carrozza. Il suo sguardo si ferma sulla povertà e lo squallore del popolo, manifestando imbarazzo, ribrezzo e ripulsa, che è poi lo stesso atteggiamento del nuovo Stato nei confronti delle masse meridionali liberate dall’oppressione borbonica ma mantenute legate a vincoli lavorativi feudali. Sotto quest’aspetto non ci si discosta molto dalla delusione di Domenico in “Noi credevamo” nel vedere a quale giogo repressivo l’esercito sabaudo ha sottoposto i contadini meridionali, ritenuti in parecchi casi dei briganti. O dall’arroganza di Nino Bixio in “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato” (1972), di Florestano Vancini, che chiama continuamente i picciotti “la canaglia”. Eppure la rivoluzione risorgimentale avrebbe dovuto portare all’emancipazione di questi diseredati, creando le condizioni di una riforma agraria che desse loro la tanto agognata terra. Invece, per usare le parole del principe, si è operato con un passaggio di consegne un aggiustamento del potere, che sarà esercitato in forme apparentemente più dolci ma tali da evitare ogni pericoloso cambiamento.
Che tutto sia come prima se ne accorge in “Bronte” l’avvocato Nicola Lombardo. Accusato ingiustamente di essere uno dei capi della sanguinosa rivolta popolare scatenatasi in paese e condannato a morte, si rivolge in tono pacato ma deciso alla corte che lo giudica, dicendo che mai avrebbe pensato che nei giorni di Garibaldi e della nuova Italia sarebbe stato giudicato da un tribuna le come ai tempi dei viceré, in modo sommario e senza difesa. Lombardo parla di un’ingiustizia storica nei confronti del popolo siciliano che suona come un’ingiustizia a danno di tutto il popolo italiano. La sua delusione nasce, più che dalla sentenza arbitraria subita, dal rendersi conto che il corso risorgimentale si sta incamminando non verso la democrazia, ma piuttosto verso una deriva autoritaria, incarnata perfettamente da Nino Bixio, uomo tutto d’un pezzo, simbolo di un potere cieco sempre uguale a se stesso, che si chiami Francesco II o Vittorio Emanuele II. Già nel finale de “Il Gattopardo”, nella lunga sequenza del ballo, Visconti aveva raccontato con grande lucidità la tendenza reazionaria del nuovo stato italiano, anticipazione della futura alleanza tra la grande borghesia e il fascismo. La si scorge nel tronfio autocompiacimento del colonnello Pallavicino, che si vanta di aver sistemato i garibaldini sull’Aspromonte e ritiene assolutamente giusta nonché educativa la fucilazione per diserzione di quei soldati dell’esercito regio passati a combattere con Garibaldi. Mentre Fabrizio è irritato dalla vanità e dal pavoneggiarsi del militare, al contrario Tancredi ne condivide pienamente il punto di vista, perché «il nuovo regno ha bisogno di ordine, di legalità, di leggi». Le fucilazioni sono un atto doloroso ma necessario per evitare ogni possibile “tentativo anarchico”. Il pensiero del giovane Falconeri è di lì a poco avvalorato dal futuro suocero, don Calogero Sedàra, il quale, sentendo gli spari dell’esecuzione marziale rompere il silenzio della quiete notturna, dichiara soddisfatto «bell’esercito […], proprio quello che ci voleva per la Sicilia». Ora può dormire sonni tranquilli. È il ritorno all’ordine che garantisce con la forza il dominio di una classe, quella borghese, su tutte le altre, soffocando ogni ribellione che possa incrinarne il sistema di potere.
Dio e popolo
È interessante notare come nel cinema risorgimentale il popolo rivesta quasi sempre una posizione centrale. Nelle pellicole prive di sonoro di inizio Novecento esso ricopre un ruolo passivo, di accettazione e assorbimento dei valori del nuovo stato unitario. È integrato all’interno di una dinamica educativa acritica, nella quale non sono ammessi dissensi o rifiuti ma solo condivisioni e partecipazione convinta alla religione della patria. Alle masse si chiede di avere fede in una pedagogia ortodossa che impone l’identificazione dell’individuo con la nazione, alla quale si deve prestare una dedizione totale fino al sacrificio estremo della vita, come fa il protagonista de “Il piccolo garibaldino”. Un’ideologia di questo tipo, se ben inculcata, poteva risultare utile, oltre che manipolatoria, in caso di conflitti bellici, come avvenne in quegli anni con la spedizione in Libia e soprattutto con la prima guerra mondiale.
Di spirito nazionalista è permeato “1860”, nel quale Blasetti dà la rappresentazione di un intero popolo, dal borghese al picciotto, stretto attorno al capo (Garibaldi) e unito nella lotta per la liberazione della propria terra. Le divisioni ideologiche a cui assiste Carmeliddu nel viaggio in treno che lo porta a Genova – c’è chi è per Gioberti, chi per Garibaldi, chi per la monarchia, chi per la repubblica – vengono ricomposte e superate sul campo di battaglia, dove tutti si sentono italiani. Qui il popolo è attore principale in quanto portatore di una rivoluzione che ne anticipa un’altra, quella delle camicie nere. Blasetti non può (o non vuole) uscire dalla logica fascista, basata sull’esaltazione dell’uomo- guida e della patria come valore intangibile, semina spunti critici che poi elude, lasciando alla forza delle immagini l’impressione di un Risorgimento completamente riuscito con il concorso di tutte le forze sociali. Si tratta di una lettura forzata e irrealistica. La storiografia ha da sempre sottolineato piuttosto il contrario: la frattura tra le élites intellettuali e le masse, poco coinvolte e non informate sulle finalità e sui metodi d’azione.
Convinto di ciò è sicuramente Visconti, che nei suoi film denuncia la mancata emancipazione del popolo, che si preferisce tenere asservito anziché educare politicamente. Per questo sia in “Senso” che ne “Il Gattopardo” il popolo non lo si vede quasi mai, ma se ne percepisce la scomoda presenza dietro agli “aggiustamenti” e ai compromessi trasformistici della classe dirigente.
Un’umanità misera, rassegnata, afflitta dalla dura dominazione borbonica è quella che appare agli occhi di Garibaldi durante la spedizione in Sicilia in “Viva l’Italia” (1961), di Roberto Rossellini. Girato per il centenario dell’Unità d’Italia, il film, per volontà del regista, punta a una ricostruzione storiografica realistica e precisa, evitando giudizi politici e ideologici. Ne viene fuori una messinscena documentaristica e cronachistica, non condivisa dagli sceneggiatori Franco Solinas e Antonello Trombadori, i quali insistevano per un collegamento analitico del passato con il presente. Nonostante questa impostazione didattica, “Viva l’Italia” propone passaggi critici interessanti. Dopo la vittoria di Calatafimi, Garibaldi è circondato e osannato dalla folla, al punto che c’è chi cerca di baciargli le mani in segno di riconoscenza. Allora lui esclama: «Come la tirannia vi ha ridotti», puntando il dito sul servaggio secolare a cui sono stati sottoposti i siciliani e indirettamente sulla spinosa questione meridionale. Nell’aggiungere poi: «Io sono un uomo come voi, che mangia e che dorme come voi, siamo fratelli», riconosce nell’uguaglianza sociale una condizione imprescindibile della futura Italia. È questo l’eroe che crede nel popolo e nella forza della democrazia. Anche Nicola Lombardo ricorda a un notabile di Bronte che il generale ha fatto editti che prevedono la distribuzione delle terre ai picciotti. L’altro però gli risponde che sono stati fatti per convincere i contadini a combattere, non sono nient’altro che “politica” e dunque non avranno mai efficacia. Garibaldi appare una figura in dissonanza con il Risorgimento ufficiale, specie se confrontato con quei “politicanti” che nel gestire le sorti del paese si preoccupano di fare solo i propri interessi. La “rivoluzione tradita” ritorna prepotentemente alla fine del film nell’incontro a Teano tra il generale e Vittorio Emanuele II. Il re rifiuta l’apporto militare dei garibaldini con la scusa che sono troppo stanchi e che di conseguenza è più giusto che a combattere siano i piemontesi. Le parole del re alle orecchie di Garibaldi suonano come una bocciatura e fanno venire in mente l’analogo rifiuto fatto a Ussoni dallo stato maggiore dell’esercito italiano prima della battaglia di Custoza, la famosa sequenza tagliata di “Senso”. Rossellini non commenta, ma le occhiate in cagnesco che si danno i garibaldini e i soldati sabaudi e lo sguardo perso e improvvisamente stanco del vecchio condottiero la dicono lunga sui due diversi modi di concepire la lotta risorgimentale. Che i democratici e il popolo siano i veri sconfitti lo sottolinea la sequenza successiva che mostra un Garibaldi deluso mentre mangia un boccone presso un povero contadino entusiasta di averlo accolto nella sua umile abitazione. Entrambi sono relegati ai margini della Storia (non a caso Garibaldi si ritirerà per qualche tempo a Caprera).
La massa popolare è protagonista a tutto tondo nel bene e nel male in “Bronte”. La questione è il modo di concepire la libertà. A spiegare in cosa consiste è Nicola Lombardo: piemontesi e siciliani hanno combattuto in suo nome, ma per i secondi essa significa pane, terra, giustizia. Vancini, in uno stile realistico, con la macchina da presa usata a mano continuamente addosso agli attori per attualizzare la vicenda, racconta, senza retorica né indulgenza, la rivolta contadina di Bronte e la successiva repressione. È vero che i picciotti hanno commesso omicidi orribili, impossibili da giustificare, ma la loro rabbia deriva dallo sfruttamento disumano e crudele dei “signori”. Il film presenta una situazione bloccata che esclude la via della legalità per giungere a una soluzione. I picciotti possono avere voce solo attraverso la violenza, che non risolve, anzi finisce per peggiorare le loro condizioni. Il processo finale e la repressione segnano sì la sconfitta dei contadini, ma soprattutto quella dello Stato, incapace di riformare il Sud e più in generale di costruire una società fondata sul diritto.
Questo pessimismo ideologico nei primi anni settanta caratterizza anche il cinema dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani. La rivoluzione risorgimentale è fallita, il nuovo regno ha imposto un potere autoritario, le masse con rassegnazione e inconsapevolezza si sono adattate al nuovo corso politico. Non si può che lasciarsi andare all’utopismo, l’unica dimensione possibile alla realizzazione di un processo democratico. Il socialismo utopistico è il vangelo di Giulio Manieri, il protagonista di “San Michele aveva un gallo” (1976)[6], un anarchico internazionalista che nell’Italia post unitaria si dà con energia alla “propaganda del fatto” di ispirazione mazziniana, consistente in azioni dimostrative, anche violente, in grado di suscitare scalpore e scuotere la gente dall’oblio coscienziale in cui il potere l’ha precipitata. Piccole rivolte per preparare la grande utopia dell’insurrezione generale. Il problema di Giulio Manieri è lo scarto tra sogno e realtà. Solo nella sua immaginazione si autoconvince che la sua lotta è tutt’altro che inutile e che la rivoluzione trionferà. Di fronte al plotone d’esecuzione per la pratica crudele della fucilazione simulata, pensa che la sua morte contribuirà in modo determinante alla vittoria della causa rivoluzionaria. Anche in cella d’isolamento, dopo che la condanna gli è stata commutata in ergastolo, vive in una dimensione di delirio utopico. Per sopravvivere alle dure condizioni carcerarie si inventa sedute politiche con i compagni di lotta, nelle quali ribadisce a se stesso la necessità di liberare i contadini del Sud e analizza enfaticamente la missione del rivoluzionario. Ma la realtà gli dimostra il contrario: i cittadini del comune di cui si è impadronito armi in mano non insorgono, anzi scappano da lui; i giovani carcerati che incrocia su una barca gli ricordano spietatamente che la sua strategia politica è fallita. Il suicidio finale di Giulio, se da un lato rappresenta la presa di coscienza dell’inutilità del proprio agire («noi abbiamo bruciato la nostra vita»), dall’altro simboleggia l’impossibilità di attuare la rivoluzione. L’utopismo è fine a se stesso, si deve piuttosto sperare nel socialismo scientifico, quello che organizzerà attraverso il sistema di fabbrica le masse operaie, come sostengono i sovversivi incontrati da Giulio in laguna. Ma forse nemmeno i due registi ci credono molto, visto il pessimismo che pervade il film, figlio della delusione di un’altra rivoluzione mancata, quella del Sessantotto.
I Taviani non si limitano a indagare le cause sociali e politiche dell’impotenza rivoluzionaria, le ricercano anche sul piano psicanalitico in “Allonsanfàn” (1974). Già ambientarlo nel 1816, in piena Restaurazione, appare una scelta calcolata e significativa: partire da lontano per risalire alle radici del fallimento del presente e per affermare che l’Italia ha sempre, chiaramente o velatamente, vissuto un clima restauratorio e reazionario. Il conte milanese Fulvio Imbriani, un giacobino appartenente alla setta dei Fratelli sublimi, rilasciato dal carcere va a rifugiarsi presso la famiglia. A contatto con la sorella e i nipoti ritrova le atmosfere di un tempo, la serenità della fanciullezza, la spensieratezza di un’esistenza libera da preoccupazioni e condizionamenti. Sente nascere dentro di sé il rifiuto dello spirito rivoluzionario, prova noia per i suoi compagni, «delle tremende abitudini», li definisce. Non è più come loro, lui è cambiato, vuole vivere accanto a chi gli vuole bene. È la seduzione del lassismo, dell’agiatezza interiore, dell’individualismo egoistico rispetto a una logica collettivista e partecipativa. La metamorfosi di Fulvio è sottolineata dal commento musicale: lo vediamo cantare beato con i famigliari “L’uva fogarina”, una canzone popolare che gli fa assaporare dolcezze che aveva dimenticato e che lo porta invece a dimenticare l’impegno politico. L’incapacità di agire deriva più da motivazioni interne che non esterne. Il compiacimento del riposarsi, della comodità, dell’adagiamento, diventa un ostacolo psicologico a lottare come dovrebbe fare un rivoluzionario. I Taviani individuano nel rilassamento della volontà la condizione essenziale dell’inazione, del lasciare che tutto resti come prima e nulla cambi, in ultima analisi della conservazione. Sotto questa accezione la Restaurazione è intesa dai due fratelli metaforicamente come uno stato d’animo. Loro stessi, come riporta Ermanno Comuzio[7], a tal proposito hanno dichiarato: «La Restaurazione non ci appare solo come quel fatto di potere e di classe che fondamentalmente è, ma anche come una forza che punta su quanto di regressivo, di restauratorio – e di inconfessato – è in noi, anche in chi combatte. Confessiamo questo inconfessabile: Fulvio è una parte di ciascuno di noi». Questo atteggiamento rinunciatario finisce per tradire le potenzialità ribellistiche del popolo. È quello che fa Fulvio e dietro di lui quella parte della classe nobiliare più illuminata, liberale e progressista. Invece di emancipare le masse e di istruirle alla lotta ha preferito molto più egoisticamente lasciarle nella loro ancestrale ignoranza. Non per niente tutta la vicenda di Imbriani è giocata su un continuo tradimento, in omaggio a “Senso” di Visconti, delle donne amate, dei Fratelli sublimi, della causa risorgimentale. La rivoluzione popolare può vivere solo nel sogno o nel mito, ma non si traduce mai in realtà. Lo si coglie nella bellissima sequenza del “saltarello” – una danza popolare ruvida, simbolo di rivolta, contrapposta all’ambiguità mielosa de “L’uva fogarina” – dove i contadini calabresi e i Fratelli sublimi cantano e ballano insieme avanzando verso la macchina da presa a coinvolgere lo spettatore. Però si tratta dell’immaginazione di Allonsanfàn, uno dei compagni di Fulvio. La realtà è un’altra: i contadini insorgono contro i cospiratori e aiutano i borbonici nella repressione. Dell’allegoria ribellistica e collettivistica del “saltarello” non resta che il tradimento del conte milanese, che pagherà a caro prezzo, ucciso da quegli stessi soldati da lui avvisati del tentativo di rivolta dei Fratelli sublimi.
Ciò che manca nella strategia risorgimentale, continuamente rimarcato nei film finora citati, è l’educazione civile e laica del popolo. Si deve allora ritornare a “Noi credevamo” di Martone, al quale è chiara l’importanza dell’azione pedagogica rispetto all’astrattismo rivoluzionario. Ne è lucida sostenitrice Cristina di Belgioioso quando attacca nel suo salotto alcuni “signori” che hanno con superbia classista definito i contadini gente ignorante e poco illuminata. «Fra i contadini bisogna vivere», puntualizza, al contrario di quello che fanno i suoi giovani amici aristocratici che si riempiono la bocca di sogni velleitari, ma si guardano bene dal mescolarsi con il proletariato verso il quale dovrebbe essere indirizzata la loro azione. Da questo atteggiamento elitario nasce l’emarginazione del popolo, la sua esclusione dalla lotta, quasi che il combattere per la liberazione d’Italia sia ancora una questione tra notabili da giocarsi nei palazzi e non nelle piazze tra la gente. La principessa è l’unica (alla fine del film lo sarà anche Domenico) a riconoscere fin da subito l’errore di prospettiva del movimento patriottico: ignorare che la democrazia deve passare inevitabilmente dalla formazione del popolo. Difatti ad Angelo ricorda che «per costituire un governo democratico non basta volerlo, è necessario che la popolazione sia pronta». Invece l’agire di uomini come Angelo è fine a se stesso, non verrà mai compreso dalla massa. Per la donna la vera rivoluzione sarà far capire al popolo quali «sono i confini che separano la schiavitù dalla libertà ben regolata » e renderlo consapevole dei suoi diritti e dei suoi doveri. Un riformismo illuminato, d’impostazione lockiana, pragmatico, che guarda a ciò che è e non a ciò che dovrebbe essere. Nei suoi occhi si intuisce che il rifiuto di questo moderatismo ideologico rischia di condannare alla sconfitta il fronte democratico e repubblicano, lasciando il campo a pericolose derive autoritarie. «Quando uso il verbo credere esprimo una speranza non già una convinzione», dice sommessamente la Belgioioso. Le sue speranze andranno deluse. Nelle didascalie finali si legge che nessuna autorità del nuovo Stato parteciperà, nel 1871, al suo funerale, tutti si sono già dimenticati di lei nonostante l’impegno che aveva profuso per la causa italiana. Ma le parole che Martone le fa pronunciare sono vive e sembrano chiedere più che all’Italia di ieri a quella di oggi di credere ancora una volta.
Note
[1] ⇑ Sergio Toffetti, in Nascita di una nazione? Il Risorgimento nel cinema italiano, in Da La presa di Roma a Il piccolo garibaldino, Roma, Gangemi, 2007, pp. 44-45, sostiene che in realtà tra i quattro uno non sarebbe Mazzini, ma piuttosto Crispi, che rappresenterebbe in modo più concreto il consolidamento del nuovo stato unitario.
[2] ⇑ Idem, p. 41.
[3] ⇑ Idem, p. 48.
[4] ⇑ La sequenza fu tagliata da Blasetti nell’edizione del 1951, quando ormai nel dopoguerra il clima politico era mutato.
[5] ⇑ All’epoca Mazzini si infuriò per l’atteggiamento di La Marmora, al punto che decise di riprendere la lotta clandestina.
[6] ⇑ Il film è stato prodotto nel 1972, ma problemi distributivi ne impedirono l’uscita nelle sale, che fu rimandata al 1976, sulla scia del successo di Allonsanfàn.
[7] ⇑ Ermanno Comuzio, Cinema, musica e Risorgimento, in Il Risorgimento in pellicola, Pordenone, Irrsae Friuli-Venezia Giulia-Cinemazero, 1991, p. 55.