Il Presidente Sergio Mattarella a Varallo per il 25 aprile
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXVI, n. 1, giugno 2016
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha scelto Varallo per la celebrazione del 71° anniversario della Liberazione. Un evento straordinario, che ha richiamato alla memoria di molti il 9 settembre 1973, quando fu consegnata nelle mani del sindaco Sergio Peretti la medaglia d’oro al valor militare per la lotta di liberazione, evento che abbiamo ricordato nel 2013 con un convegno e la successiva pubblicazione degli atti in un numero monografico della rivista. La visita del capo dello Stato ha avuto origine nella scelta di ricordare le esperienze delle repubbliche partigiane, fenomeni di sottrazione temporanea di territori italiani al controllo dell’occupante tedesco e all’autorità illegittima della Repubblica sociale operati dal movimento partigiano, a testimonianza del potenziale propositivo della Resistenza, che si presentava non solo come forza di contrasto alla guerra nazifascista ma anche come laboratorio sperimentale della democrazia dimostrando di possedere progetti istituzionali solidi e consapevoli. In Valsesia, tra il 10 giugno e la prima decade di luglio del 1944, ci fu l’esperienza della zona libera che per durata, estensione territoriale e qualità delle iniziative può essere annoverata nel contesto delle repubbliche partigiane, pur non avendo assunto l’architettura istituzionale che ebbe, ad esempio, il governo dell’Ossola tra il 10 settembre e il 23 ottobre dello stesso anno.
L’itinerario del Presidente nella sua visita in Valsesia ha avuto come prima tappa il cimitero di Varallo, dove ha deposto una corona al muro dei fucilati, luogo di plurime esecuzioni di partigiani operate dai militi fascisti delle legioni “Tagliamento” e “Pontida” tra l’aprile e l’agosto 1944. Successivamente Mattarella ha raggiunto piazza Vittorio Emanuele II e il Teatro civico, i luoghi della festa della Liberazione nei giorni immediatamente successivi alla fine della guerra: questa volta il balcone del teatro ha ospitato la Rai per la trasmissione in diretta dell’evento, ma lo storico Enzo Barbano, socio fondatore dell’Istituto, non ha trascurato di ricordare Cino Moscatelli e gli altri capi partigiani che da quello stesso luogo pronunciarono le prime orazioni pubbliche dopo la Liberazione. Prima della cerimonia ufficiale il Presidente ha incontrato i rappresentanti del governo e del parlamento, il presidente della Regione Piemonte e gli oratori: in questa occasione il direttore dell’Istituto, Enrico Pagano, gli ha consegnato un originale del primo numero de “La Stella Alpina”, il giornale clandestino partigiano che fu progettato durante il periodo della zona libera ma fu pubblicato nel successivo mese di ottobre, a causa del precipitare degli eventi con il ritorno in valle di nazisti e fascisti ai primi di luglio.
Alle ore 11 è cominciata la cerimonia ufficiale all’interno del teatro, gremito da autorità civili, militari e religiose, dai rappresentanti delle associazioni partigiane e combattentistiche d’arma, dagli studenti delle scuole varallesi. Il sindaco di Varallo, Eraldo Botta, ha portato i saluti istituzionali della città medaglia d’oro al valor militare per la lotta di liberazione, presentando al Presidente il patrimonio della città e l’impegno dell’amministrazione verso l’Istituto per la storia della Resistenza che ha inaugurato la propria sede in città nel 2005, quando era sindaco l’on. Buonanno. Sono intervenuti successivamente Carlo Cerli, presidente dell’Unione montana dei Comuni della Valsesia, Bruno Rastelli, presidente della sezione Varallo-Alta Valsesia e del Comitato provinciale di Vercelli dell’Anpi, ed Enrico Pagano, direttore dell’Istituto, prima del discorso ufficiale del Presidente Mattarella.
Nel pomeriggio il Presidente ha visitato il comune di Rassa, altro luogo della memoria resistenziale, essendo stato rifugio dei partigiani della 2a brigata “Biella” durante il rastrellamento scatenato da nazisti e fascisti sulle montagne del Biellese orientale dal 20 febbraio ’44 e teatro di una delle più cruente stragi tra il 12 e il 13 marzo, quando trovarono la morte in combattimento, per fucilazione o per le conseguenze delle ferite riportate, diciotto partigiani. La giornata valsesiana del Presidente Mattarella si è quindi conclusa con la visita al Sacro Monte di Varallo.
Un giorno storico per Varallo e la valle, per le istituzioni e la sezione cittadina dell’Anpi, per i partigiani valsesiani, ma anche per l’Istituto, coinvolto nella cerimonia ufficiale con l’incarico affidato al direttore Enrico Pagano di pronunciare l’orazione che ha preceduto il discorso di Mattarella e seguito gli interventi degli altri oratori. Apriamo questo numero della rivista pubblicando integralmente i testi di tutte le orazioni, nell’ordine di presentazione.
Carlo Cerli, presidente dell’Unione montana dei Comuni della Valsesia
Signor Presidente, l’Unione montana dei Comuni della Valsesia che oggi rappresento raccoglie l’eredità della comunità montana e dell’antico Consiglio di Valle, la cui assemblea deliberò all’unanimità nel 1970 di avanzare al Ministero della Difesa l’istanza di concessione alla Valsesia della medaglia d’oro al valor militare per la lotta di liberazione. Il 14 luglio del 1971 il Presidente della Repubblica emise il relativo decreto e fu disposto il conferimento della medaglia d’oro, consegnata il 9 settembre 1973, che oggi impreziosisce il gonfalone della Città di Varallo, ma che è patrimonio comune di tutta la valle.
La data che ho appena ricordato è suggestiva: il 9 settembre del 1943, esattamente trent’anni prima, si riuniva per la prima volta il Centro valsesiano di Resistenza, un organo clandestino in cui si incrociavano varie personalità di diversa storia e orientamento politico, concordi tuttavia nel condurre azioni di promozione e sostegno alla lotta contro il nazismo e il fascismo, di assistenza e solidarietà ai prigionieri alleati e ai militari sbandati che in quei giorni si aggiravano in valle. La concordia avrebbe caratterizzato il movimento partigiano valsesiano nei venti mesi della guerra di liberazione: benché inquadrati nelle formazioni garibaldine, tra i partigiani di Moscatelli c’erano orientamenti politici diversi tra loro. I liberali lottavano a fianco dei cattolici, i socialisti dei comunisti e, addirittura, nella brigata “Osella” il ruolo di commissario politico fu affidato a un sacerdote, don Sisto Bighiani. Quello spirito derivava dall’aver vissuto la tragica esperienza della guerra, dalla consapevolezza del dolore che si produce ingiustamente in un conflitto, dalla volontà di ricostruire un Paese libero in un mondo di pace.
Quella concordia, a distanza di settanta e più anni da quegli eventi storici, resta un valore cui dobbiamo riferirci per affrontare le sfide del nostro tempo, memori del nostro passato, che non può essere né cancellato né confuso, orgogliosi dei valori democratici sanciti dalla Costituzione che ha raccolto e suggellato l’eredità della lotta di liberazione.
In quella guerra la Valsesia, estremo lembo del territorio italiano, ha saputo ergersi a protagonista, raccogliendo la sfida che la storia le ha proposto e dando dimostrazione di come, anche da posizione marginale, si possa partecipare alla costruzione di processi storici fondamentali, in questo caso la ricostruzione dell’Italia e l’avvio della costruzione di una Europa finalmente in pace, dopo secoli di conflitti tra gli stati.
La Sua presenza oggi a Varallo, signor Presidente, ci consente di ripristinare la memoria di quei giorni, quando i figli di questa terra di fronte all’emergenza estrema non si sono chiesti che cosa avrebbe dovuto fare la patria per loro, ma che cosa essi avrebbero potuto e dovuto fare per la patria, e hanno agito di conseguenza.
Lo stesso dobbiamo fare noi, cittadini e amministratori della Valsesia, impegnandoci a rinnovare gli insegnamenti che l’esempio della storia ci tramanda, di cui dobbiamo essere fedeli custodi e coraggiosi interpreti.
Signor Presidente, le giunga il ringraziamento più profondo e sincero da tutta la valle, che oggi rappresento, per avere scelto di essere qui con noi e per avere rinnovato nelle nostre anime il giusto orgoglio per la nostra bella medaglia.
Bruno Rastelli, presidente della sezione Varallo-Alta Valsesia e del Comitato provinciale di Vercelli dell’Anpi
Signor Presidente, è un onore per me poterle dare il benvenuto a nome dei partigiani e delle sezioni Anpi della Valsesia, in modo particolare della sezione di Varallo, città medaglia d’oro per la Resistenza, che quest’anno ha il privilegio di ospitare la festa nazionale della Liberazione.
Un doveroso saluto e applauso va ai partigiani presenti e a tutti quei valorosi comandanti e partigiani delle brigate valsesiane, idealmente con noi oggi.
Signor Presidente, già nel suo discorso di insediamento lei parlò alla nazione di libertà, parità di genere, diritti e pace. Sono parole fondamentali che vorremmo sempre sentire da chi rappresenta le nostre istituzioni.
Come da lei dichiarato, dobbiamo ricordare che la Resistenza, prima che fatto politico, fu soprattutto rivolta morale e sociale. Questo sentimento, tramandato da padre in figlio, costituisce un patrimonio che deve permanere nella memoria collettiva del Paese.
Esattamente un anno fa abbiamo celebrato il 70° anniversario della Liberazione di Milano con una grande manifestazione che ha coinvolto tutte le sezioni Anpi valsesiane. In quell’occasione i nostri partigiani hanno potuto sfilare per le vie della città applauditi da un mare di folla commossa.
Quella folla immensa ci ha ricordato che la storia dell’Italia repubblicana è stata possibile grazie alla Resistenza. Questo solo fatto dovrebbe essere sufficiente per fare della lotta partigiana una prerogativa indiscutibile della nostra identità nazionale.
All’epoca i partigiani lottavano per una nuova società fondata su quei principi fondamentali che sono stati poi sanciti dalla nostra carta costituzionale e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Lottavano per un’Europa libera e unita.
Oggi però questo fondamentale passaggio della nostra storia viene profondamente messo in discussione e, con esso, i valori e i principi che l’hanno generato. L’Italia e l’Europa sono attraversate da una nuova ondata di xenofobia e razzismo. Questo è il motivo per cui noi, oggi, siamo chiamati a una strenua difesa dei valori che la Resistenza ci ha tramandato, prima tra tutte, l’eguaglianza, fonte di libertà e giustizia, l’eguaglianza come diritto e come dovere di accettazione dell’esistenza dell’altro.
Non dimentichiamo mai che la negazione dell’altro, del diverso da sé è stata una formula portante dei regimi nazifascisti. Purtroppo non è così strano che proprio l’Italia, un Paese risorto sulle ceneri del regime fascista, abbia riluttanza a reagire ai problemi del razzismo, dell’omofobia, della discriminazione femminile e faccia fatica a individuare nella propria storia e nella propria memoria gli anticorpi per risolverli.
Un popolo senza memoria non ha futuro. È dunque fondamentale oggi mettere al centro della nuova resistenza il recupero, la salvaguardia e l’attuazione del principio di eguaglianza in un’umanità formata da uomini e donne, dove ognuno concorre all’evoluzione umana con uguale importanza.
Dobbiamo combattere, noi tutti, contro qualsiasi forma di pregiudizio, discriminazione e persecuzione. Dobbiamo allontanare la tentazione sempre presente di pensare e creare il nemico utile per una nostra coesione interna. L’odio non può essere un’opinione, ma uno spettro che riemerge dal profondo di un animo umano indebolito da particolari contingenze storiche che non può e non deve essere considerato.
Ci appelliamo quindi a una nuova cultura dei diritti fondamentali, che possa rinascere in Italia, in Europa e percorrere il mondo in forme nuove e far parlare lo stesso linguaggio a persone lontane.
Riteniamo che il diritto ad avere diritti rimanga il presidio più forte contro ogni forma di totalitarismo.
Presidente, ancora una volta guardiamo con fiducia alla nostra Costituzione, vero e proprio programma politico generato soprattutto con il sacrificio dei partigiani e che oggi ancora di più va difesa da ogni forma di modifica che ne metta a repentaglio lo spirito democratico.
Ci auguriamo che il 70° anniversario della nascita della Repubblica e del suffragio universale che quest’anno celebriamo possa essere l’occasione per vedere finalmente concretizzata quell’unificazione ideale del Paese e dell’Europa, per la quale i nostri partigiani hanno lottato e hanno sacrificato la propria vita.
Enrico Pagano, direttore dell’Istituto per la storia della Resistenza
…erano sporchi, laceri, disorientati. Stranieri in un Paese straniero, nemici in un Paese virtualmente nemico. Qui in Valsesia i primi giunsero all’alba del 9 settembre 1943, li trovarono i sacerdoti varallesi sulla balconata della parrocchia di San Gaudenzio. Qualcuno li aveva indirizzati alla ricerca di ospitalità e assistenza presso la Chiesa, l’unica istituzione che in quei frangenti potesse garantire loro aiuto. Erano i militari alleati provenienti dai campi di prigionia, le cascine della pianura, che dopo l’armistizio si trovarono in libertà, alla ricerca di una via per raggiungere la Svizzera passando dalle nostre montagne.
Non avevano scarpe per affrontare gli impervi sentieri che avevano rappresentato nei secoli la strada verso l’Europa per molti emigranti valsesiani, non avevano giacche per ripararsi dalle temperature d’alta quota, avevano fame e non sapevano dove andare. Furono accolti, assistiti e guidati, a centinaia, verso Alagna, Macugnaga e la Svizzera: ad aiutarli gli uomini del Centro valsesiano di Resistenza, la Chiesa, le guide alpine e la solidarietà della popolazione, che contribuì a fornire quanto necessario per intraprendere la traversata delle Alpi e che rivedeva nei volti smarriti di quei giovani i propri figli, fratelli e mariti mandati a combattere nei Balcani, in Russia, in Africa, di molti dei quali non si avevano più notizie da tempo.
Avrebbero dovuto essere considerati nemici, concentrare su di sé l’ostilità della gente che era stata educata alla guerra da vent’anni di regime fascista… ma la popolazione, in gran parte, era già da tempo oltre la guerra, desiderava la pace e non riusciva ad odiare quegli uomini, nemmeno di fronte alla considerazione che qualche anno o qualche mese prima forse avevano sparato contro soldati italiani…
Alcuni di quei prigionieri ricambiarono l’assistenza scegliendo di rimanere in Valsesia e portarono il loro contributo all’organizzazione militare delle prime bande partigiane.
Come dimenticare, tra questi, la figura divenuta leggendaria del sottufficiale australiano Frank Jocumsen, presente fra i partigiani valsesiani dalle origini del movimento fino alla fine del 1944?
Fu una scelta che per alcuni ebbe esiti fatali: chi si sofferma a leggere le lapidi che costellano il nostro territorio, trova incisi, insieme ai nomi dei caduti italiani, quelli di soldati australiani, britannici, neozelandesi, come Frederick Miller, William Brown, James Mc Cracken fucilati al cimitero di Varallo nella primavera del 1944 dai militi fascisti della “Tagliamento”.
Il battaglione, e poi legione, “Tagliamento” rese molto difficili i primi mesi della guerra partigiana: era un reparto della Guardia nazionale repubblicana specializzato nella repressione della guerriglia, sperimentato contro quella jugoslava nei Balcani. Fu in Valsesia dal 20 dicembre del 1943 agli inizi di giugno del 1944 e si rese protagonista di molte stragi, arresti e deportazioni, incendi e distruzioni di case: si possono ricordare le esecuzioni del 22 dicembre a Borgosesia, Crevacuore e Cossato, gli eventi di Rassa del 12 e 13 marzo, le ripetute fucilazioni al muro del cimitero di Varallo e a Borgosesia, le stragi di Curino e Mottalciata, rispettivamente l’8 e il 17 maggio.
Tale era il clima di quel tempo, ma nonostante le ripetute tragedie si registrarono adesioni crescenti alla Resistenza, che raggiunsero l’apice nel mese di giugno del ’44, in coincidenza con il periodo della zona libera.
C’è da riflettere su questo aspetto e trarne conclusioni importanti: fino a quel momento la Resistenza sembrava una scelta molto rischiosa, se non perdente. Eppure l’afflusso di reclute nel movimento partigiano fu più alto proprio nel momento in cui esso aveva alle spalle più insuccessi che vittorie.
E non erano soltanto i giovani valsesiani a fare la scelta della Resistenza: mi piace ricordare, in quest’occasione, l’esperienza di un giovane studente partenopeo, Luigi Castriota Scanderbeg, arrestato dai tedeschi dopo le 4 giornate di Napoli, evaso nei pressi di Udine dal vagone ferroviario che lo stava conducendo prigioniero in Germania, nuovamente arrestato, processato a Bologna e costretto ad aderire all’esercito della Repubblica sociale, da cui disertò per presentarsi al comando partigiano della Valsesia libera, deciso a fare parte delle formazioni di Moscatelli.
Luigi pagò l’inesperienza dei luoghi: fu catturato ad Alagna e fucilato insieme a quattordici altri partigiani, tra cui otto carabinieri, il 14 luglio del 1944.
Il padre, scrivendo a Moscatelli dopo la fine del conflitto, chiedeva se il figlio fosse morto da eroe e il comandante partigiano, per consolare il dolore di quell’uomo, rispondeva affermativamente. L’eroismo di quel giovane consiste nelle scelte scomode e rischiose compiute in vita, quando era tutt’altro che scontato l’esito del conflitto, e coerentemente ripetute: questo, più che il contegno di fronte alla morte, è quanto rende forte la memoria dei caduti della Resistenza.
E dentro a quel mondo partigiano ricco di contributi forestieri mi piace ricordare anche le parole che scriveva a Moscatelli nel gennaio del 1945 un giovane della classe 1921, proveniente dalla Sua terra, signor Presidente, Giacomo Picciolo, di Milazzo: «Caro Cino, da tempo, incontrandomi spesse volte con dei miei concittadini siciliani, ho potuto notare che scambiare fraternamente qualche parola in dialetto provoca un certo senso di sollievo e suscita spontaneamente la domanda: perché non ci uniamo insieme noi tutti siciliani? perché non formiamo un gruppo?…
l’idea si amplia guardando il fine di un tale gruppo, dopo la guerra, al ritorno in Sicilia. Se torniamo a casa sparsi, così come siamo adesso nelle file garibaldine, prevedo che resterà solo un ricordo di questa vita e di questo movimento popolare garibaldino, di cui adesso facciamo parte qui in Piemonte; se invece si costituisce adesso qui un gruppo garibaldino di siciliani, esso poi si trasporterà compatto in Sicilia, e non si dileguerà ma si rafforzerà e continuerà lo svolgersi di tale movimento popolare». Giacomo non tornò in Sicilia, il suo sogno di continuare l’impegno politico nella terra d’origine svanì con la sua morte in combattimento, a Borgosesia, il 15 marzo 1945.
Furono molti i giovani del Sud che presero parte alla Resistenza in Piemonte: oltre seimila fra caduti, partigiani, patrioti e benemeriti. È in atto una ricerca che coinvolge il coordinamento degli istituti storici della Resistenza del Piemonte insieme ad alcuni importanti istituti meridionali, con l’obiettivo di restituire un quadro d’insieme e approfondimenti analitici utili a rafforzare l’interpretazione della Resistenza come fenomeno nazionale, evidenziando contributi e culture confluite in essa da ogni parte d’Italia. I partigiani siciliani, ad esempio, si ispiravano intensamente alla lotta risorgimentale e trasferivano quegli ideali nel movimento resistenziale: il giornale murale della brigata valsesiana “Osella”, diretto dal palermitano Riccardo Jacch, era intitolato “Novelli picciotti”, esplicitando una corrispondenza inequivocabile fra la gioventù siciliana attiva nelle guerre ottocentesche per l’unità d’Italia e quella contemporanea impegnata nella lotta di liberazione. Nella lettera di Giacomo Picciolo citata, in riferimento alle trame separatiste che minacciavano all’epoca la Sicilia, si legge: «I garibaldini del 1860 l’hanno unita col sangue l’Italia e i garibaldini di oggi, siciliani, sebbene lontani materialmente dalla loro isola ma vicini spiritualmente non potranno permettere ciò; essi ritorneranno in Sicilia, lo spero, e continueranno la lotta fino alla fine, perché la Sicilia è Italia».
La Sicilia è Italia… Una straordinaria corrispondenza con quanto troviamo scritto in un documento destinato alla pubblicazione nel giornale partigiano clandestino “La Stella Alpina”, dove si dice che la Valsesia del giugno 1944 «è l’Italia libera». In quella definizione si ripone la sintesi utile a comprendere tutto il valore simbolico della prima e temporanea liberazione della Valsesia, laboratorio in cui si avviò la sperimentazione delle future pratiche di libertà del Paese.
Guardando a quell’esperienza dentro la storia generale della guerra di liberazione, a distanza di più di settant’anni siamo in grado di giudicare meglio i contorni e le caratteristiche degli eventi che si svolsero in questa valle, in Piemonte e nelle altre regioni italiane, e dovunque ci fu opposizione all’occupazione e alla prepotenza tedesca. Dobbiamo finalmente essere consapevoli che la prospettiva per valutare la storia della Resistenza non può limitarsi alla dimensione locale, e non è sufficiente nemmeno allargare lo sguardo alla dimensione nazionale e all’orizzonte della guerra civile interna. La Resistenza italiana fu parte viva della storia d’Europa, un capitolo importante della storia della Resistenza europea al nazismo, preludio alla costruzione dell’Unione Europea, l’unica realtà che è stata in grado di garantire a lungo la pace nel nostro continente. Questo ci insegnano i fatti storici e di questo dobbiamo essere convinti soprattutto in una congiuntura come l’attuale, in cui il corso della storia europea potrebbe imboccare una strada senza uscita, che ci porterebbe inevitabilmente al ritorno ad un oscuro e conflittuale passato.
Signor Presidente, a nome dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea che ha sede a Varallo, che ebbe come presidenti figure della Resistenza come Cino Moscatelli ed Elvo Tempia e che è parte della rete dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia intitolato a Ferruccio Parri, Le esprimo la più profonda gratitudine per la Sua presenza che oggi rende onore non solo alla nostra terra e ai protagonisti della Resistenza valsesiana, ma a tutta la Resistenza italiana e degli italiani, inclusi i militari che si opposero ai tedeschi già dalle ore immediatamente successive all’annuncio dell’armistizio, come la divisione “Acqui” a Cefalonia e in altre isole greche, come la divisione “Granatieri di Sardegna” nella battaglia di Porta San Paolo a Roma, per citare gli esempi più noti, anche se a lungo trascurati; inclusi gli internati militari che, fatti prigionieri dai tedeschi, preferirono la detenzione nei lager del Reich piuttosto che continuare a combattere per il nazismo, scelta che fu pagata con grande sofferenza e numerosi casi di morte per stenti o maltrattamenti; inclusi, infine, coloro che combatterono il nazismo fuori dal nostro Paese in altri movimenti partigiani, come gli uomini della divisione “Garibaldi” in Jugoslavia.
Tutti, meritoriamente, riconoscibili come partecipi del processo storico che portò alla conquista della democrazia, alla promulgazione della nostra bellissima Costituzione, alla nascita dell’Unione Europea, tre talenti che la storia del Novecento ci ha affidato e che tutti insieme dobbiamo non soltanto custodire, ma, come recita uno slogan del giornale partigiano “La Stella Alpina”, memori del passato e degni dell’avvenire, dobbiamo mantenere fruttiferi.
Grazie Signor Presidente e grazie alle donne e agli uomini della Resistenza!
Orazione ufficiale del Presidente della Repubblica
Rivolgo un saluto a tutti i presenti, alle genti della Valsesia, al sindaco di Varallo e a tutti i sindaci, al presidente dell’Unione montana, al presidente della Regione Piemonte, alle autorità presenti, ai parlamentari, agli oratori di questa mattina che ringrazio per le loro considerazioni, a partire dal presidente dell’Anpi, figlio del sindaco della Liberazione di questa città.
Un saluto particolare ai bambini e ai ragazzi che sono qui con noi oggi: è soprattutto loro questo giorno di festa che sono lieto di celebrare per tutta Italia, qui in questa città e in questa splendida valle.
La festa della Libertà, la festa della Liberazione. Del giorno che vide Sandro Pertini annunciare, da Radio Milano Libera, la fine della guerra, il recupero dell’unità nazionale, l’avvio di un nuovo cammino democratico. Libertà che è nata qui, su queste montagne, con la prima “zona libera”, anello di quelle repubbliche partigiane che hanno segnato la volontà di riscatto del popolo italiano; vere e proprie radici della scelta che il voto del 2 giugno 1946 avrebbe sancito.
Ricordiamo, in questo 2016, i settanta anni dal referendum istituzionale in cui gli italiani e le italiane – queste ultime per la prima volta al voto – vennero chiamati a decidere tra monarchia e repubblica.
È un filo che segna il legame tra la Resistenza, il nuovo carattere dell’Italia democratica e l’ordinamento repubblicano. È sul 25 aprile, su questa data, che si fonda, anzitutto, la nostra Repubblica.
È nel percorso, arduo ed esigente, che va dall’8 settembre 1943 alla Liberazione, che troviamo le ragioni della ripresa d’Italia. Un’Italia divisa fra il Regno del Sud e il governo Badoglio, l’amministrazione alleata nel Mezzogiorno, il Terzo Reich che occupava, a partire da Napoli, il resto d’Italia, annettendosi addirittura l’Alto Adige, il Friuli e la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia, sino alla sciagurata avventura di Salò. Un’Italia che aveva perso l’unità, così faticosamente conquistata con le guerre d’indipendenza. Un’Italia che aveva visto sfumare la propria indipendenza. Un’Italia devastata dalla guerra nelle sue macerie materiali e sfregiata da vent’anni di dittatura fascista nelle sue macerie morali, con la perdita, anzitutto, della libertà.
Contro tutto questo si levarono le coscienze limpide del nostro Paese: patrioti antifascisti che non avevano mai smesso di credere in un futuro migliore; militari abbandonati a se stessi dopo l’armistizio, che difesero il senso dell’onore e la Patria onorarono con sacrificio, talvolta con vero e proprio eroismo; donne e uomini, nelle città e nelle campagne, che non avevano mai smesso di credere che ogni persona va rispettata e che la sua dignità non può mai essere violata né per ragioni di razza, né per ragioni di religione, né per ragioni di pensiero, né per ragioni di genere, né per ragioni di condizione sociale.
Lì – dalle loro convinzioni e dai loro comportamenti – è nata la Repubblica.
Dalla necessità di trasfondere l’anima autentica del Paese nell’ordinamento dello Stato. Di riannodare l’idea di Italia, così oltraggiata, ai sentimenti del suo popolo. Di conferire significato alla condizione di cittadinanza, come forma di integrazione civica e democratica, nel passaggio da “sudditi” a “cittadini”.
Il 2 giugno 1946 divenne così la conclusione di un percorso e, allo stesso tempo, un punto di partenza.
Punto di partenza, per lo sviluppo di quel confronto che avrebbe poi condotto, un anno e mezzo dopo, alla Costituzione, con i suoi valori personalisti e solidaristici.
Conclusione di un percorso, legato alla idea mazziniana, nel Risorgimento (e condivisa da Gioberti), di un patto nazionale dettato da una Costituente, essenziale per la nuova Italia unita.
Un percorso di transizione costituzionale, infine, svoltosi dopo il 25 luglio 1943 e che fu formalizzato nell’accordo tra il Comitato di liberazione nazionale e la Corona, nel gennaio 1944, dopo il Congresso di Bari delle forze antifasciste e la dichiarazione di Vincenzo Arangio-Ruiz: «Il patto fra re e popolo ha perduto il suo vigore e vale, invece, il principio che ogni potere venuto dal popolo al popolo ritorni».
La popolazione, stremata dal fascismo e dalle sue guerre, guardava già da tempo oltre il conflitto, a conferma dell’avvenuto divorzio tra regime e nazione.
Il diffuso desiderio di pace e di libertà portava all’aspirazione condivisa di dar vita ad una nuova Italia che, lasciando alle spalle le atrocità vissute, guardasse a un futuro ricco di speranza e di progresso.
È stata la promessa realizzata dalla Repubblica in questi settanta anni!
La scelta repubblicana del popolo italiano reagiva alle sofferenze di una guerra prolungata: la sfiducia nei confronti della dinastia regnante doveva travolgere, con questa, l’istituto monarchico, che pure era stato strumento della unificazione italiana.
Restituire sostanza allo Stato, dissoltosi nell’estate del 1943, significò sceglierne una nuova forma, lontana dal concepirlo come padrone e oppressore dei suoi cittadini, ed espressione, invece, dei diritti dei singoli e delle comunità.
Questo il messaggio del costituzionalismo della Resistenza: realizzare un ordine politico e sociale incarnazione di valori ben diversi da quelli dell’autoritarismo fascista ma che non erano neppure quelli ottocenteschi della nazione e dello Stato liberale.
Un ordine che, sull’esempio delle repubbliche partigiane, avrebbe guardato alle autonomie locali e sociali del Paese come a un patrimonio prezioso da preservare e sviluppare.
Dispersa l’identità, annullati i vincoli di solidarietà nazionale con l’avventura del regime fantoccio di Salò, il loro recupero si manifestò con un assetto che faceva tesoro della grande lezione della lotta delle democrazie contro il nazifascismo: a unire, o a contrapporre, non sarebbe stata più la logica di patrie arroccate su se stesse, bensì la comunanza di ideali di una comunità nazionale, impegnata a sostenere una nuova visione della comunità internazionale. Una visione incentrata sull’ideale dell’Europa e su quello delle Nazioni Unite.
Travolte, tra il 1943 e il 1945, le istituzioni legali, le popolazioni dettero vita autonomamente, con le “zone libere”, dalla Valsesia all’Ossola, alle Langhe, all’Oltrepò pavese, alla Carnia, alla Repubblica del Vara in Liguria, a quella di Montefiorino, ad altre e diverse istituzioni, modellate su principi inediti e orientate all’affermazione di valori democratici.
La Resistenza interpretava, in questo modo, il sentimento del Paese.
Un sentimento che, prima ancora che politico, veniva dalla consapevolezza della comune appartenenza al genere umano; dalla ribellione all’orrore delle stragi, delle leggi razziali e della persecuzione degli ebrei, dell’ideologia del sopruso e dell’esaltazione della morte.
La Resistenza era, così, nel cuore degli italiani, prima ancora che nel loro impegno. La partecipazione dei cittadini tornava al centro di ogni iniziativa, con la carica rivoluzionaria che questo comportava: un bene che sarebbe divenuto cardine costituzionale.
La democrazia è proprio questo: essere protagonisti, insieme agli altri, del nostro domani.
Ecco perché siamo qui oggi, in Valsesia, a celebrare il 25 aprile e, con esso, gli imminenti settant’anni della Repubblica.
Scriveva Piero Calamandrei: «Se volete andare nei luoghi dove è nata la nostra Repubblica, venite dove caddero i nostri giovani. Ovunque è morto un italiano per riscattare la dignità e la libertà, andate lì perché lì è nata la nostra Repubblica».
A Cefalonia, come a Sant’Anna di Stazzema, Boves, Porta San Paolo a Roma, Marzabotto, le Fosse Ardeatine, la Risiera di San Sabba, nelle camere a gas, nei campi dove vennero rinchiusi gli internati italiani, ne troviamo la conferma.
Ci parlano i fucilati di piazza Martiri a Borgosesia, quelli al cimitero di Varallo, a Rassa, i morti del ponte della Pietà a Quarona (e oggi, qui, abbiamo, in fra Malagola, un eccezionale testimone di quell’eccidio).
Riposano qui i carabinieri uccisi ad Alagna, i prigionieri di guerra australiani, britannici e neozelandesi che si unirono alla Resistenza e qui trovarono la morte ad opera dei reparti tedeschi e delle brigate nere.
Su questi monti, in queste valli, con il sacrificio del sangue è stata scritta la parola libertà.
Quasi tremila partigiani combattenti, cinquecento caduti, hanno rappresentato il tributo pagato in Valsesia, a nome dell’intera collettività nazionale, per la nuova Italia.
Comandanti di prestigio come Cino Moscatelli ed Eraldo Gastone, entrambi, poi, parlamentari della Repubblica, seppero condurre, con sagacia, una campagna di guerriglia, a stretto contatto con la popolazione, sino a scacciare temporaneamente l’occupante.
«Congiunte virtù militari e civili – recita la motivazione della medaglia d’oro – opponevano all’aggressore la forza invincibile dell’amore per la libertà e per l’indipendenza della Patria».
Fu il momento della diffusione dei Comitati di liberazione nazionale nei comuni, nelle fabbriche, destinati a diventare un’efficace amministrazione-ombra clandestina, banco di prova delle capacità di governo, delle capacità di ricostruzione del popolo italiano.
E, da quelle esperienze, la Valsesia democratica generò una assemblea di popolo: quel Consiglio di Valle che, sorto nel 1946 sotto l’impulso determinante di Giulio Pastore, doveva giocare un ruolo fondamentale nella ricostruzione materiale e civile di queste montagne e imporsi come modello nazionale: riprova dell’importanza del contributo che dalle periferie alimenta la vita democratica di tutta Italia.
Cari giovani, quella storia, quelle storie ci interpellano ancora oggi.
Ci dicono che è possibile dire no alla sopraffazione, alla violenza della guerra e del conflitto.
Ci dicono che è possibile dire no all’apatia, al cinismo, alla paura.
Ci dicono che esistono grandi ideali e sogni da realizzare per cui vale la pena battersi e che vi sono buone cause da far trionfare.
Anzitutto la causa della verità, invocata, non a caso, dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro, in opposizione a tesi revisioniste di comodo, nel corso della sua visita, nel 1994, a Borgosesia, in occasione del 50° anniversario della “zona libera”.
Qualcuno osserva che, senza il contributo delle forze alleate, la Liberazione sarebbe stata assai più aspra e dagli esiti incerti.
L’unione delle democrazie fu decisiva ma, per la nostra libertà fu decisivo anche il contributo del nostro popolo.
Del resto, ammoniva, sin dal Risorgimento, Giuseppe Mazzini, rivolgendosi ai tanti che speravano nell’intervento francese: «Più che la servitù temo la libertà recata in dono».
Ecco perché è sempre tempo di Resistenza.
È tempo di Resistenza perché guerre e violenze crudeli si manifestano ai confini d’Europa, in Mediterraneo, in Medio Oriente.
E, ovunque sia tempo di martirio, di tirannia, di tragedie umanitarie che accompagnano i conflitti, lì vanno affermati i valori della Resistenza.
Non esiste una condizione di “non guerra”. O si promuove la pace e la collaborazione o si prepara lo scontro futuro.
Per questo è stata lungimirante la scelta di quegli statisti che, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, ricostruirono l’Europa nell’integrazione politica ed economica.
I patimenti sofferti hanno fatto sì che l’Italia (e con lei altri paesi europei), scegliesse la strada del ripudio della guerra.
A chi come i partigiani qui presenti – ai quali rivolgo il ringraziamento della comunità tutta intera – seppe interpretare il desiderio di pace del popolo italiano, va riconosciuto un merito storico.
Settant’anni di pace ci sono stati consegnati dai nostri padri.
A noi spetta il compito di continuare, di allargare il sentiero della concordia dentro l’Unione Europea e ovunque l’Europa può far sentire la sua voce e sviluppare la sua iniziativa.
Le missioni di pace della comunità internazionale, alle quali responsabilmente partecipiamo, stanno a testimoniare la nostra sensibilità e la nostra coerenza.
Non ci può essere pace soltanto per alcuni e miseria, fame, guerre, per altri: queste travolgerebbero anche la pace di chi pensa di averla conseguita per sempre.
Di questo dobbiamo essere consapevoli e dobbiamo operare di conseguenza.
Come non sostenere la battaglia della liberazione dei popoli, anzitutto dal terrorismo, che affigge e destabilizza interi paesi dell’Africa e del Medio Oriente e si riverbera in Europa?
Come reagire alle ingiustizie e alle violenze se non, ancora una volta, attraverso la tenace costruzione di un ordinamento internazionale che applichi il principio fondamentale della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo: «Tutti gli uomini sono uguali»?
Il patto di cittadinanza determinato dalla scelta repubblicana ci ha permesso di crescere in coesione sociale, affrontando sfide, anche drammatiche, in questi sette decenni, eppure oggi è necessario essere consci che è la dimensione internazionale, a partire dall’Unione Europea, quella in cui vengono messi alla prova i motivi ispiratori della nostra convivenza.
La Resistenza e la Repubblica, insieme con i movimenti di lotta antifascista degli altri paesi europei, sono diventati storia e identità del nostro popolo. Hanno generato un ordinamento costituzionale che ci ha permesso di sviluppare diritti, opportunità, responsabilità diffuse.
Oggi questa sfida riguarda l’Europa: per svolgere i suoi compiti è necessario che si consolidi un ordinamento europeo in grado di farne davvero un soggetto attivo di cooperazione e giustizia nel mondo globalizzato.
Nella storia comune che abbiamo saputo costruire in questo dopoguerra, è legittimo e giusto guardare ai contrasti che ci hanno accompagnato con la saggezza della corresponsabilità di cui ci siamo caricati.
Il 25 aprile 1945 e i giorni immediatamente successivi segnarono il ritorno alla democrazia in Italia, la sconfitta del nazifascismo in tutta Europa, la possibilità che il nostro Paese e tutta l’Europa sviluppassero in pace.
C’è motivo di festa, dunque, oggi, per la rifondata identità italiana ed europea, per fare memoria della insurrezione generale proclamata dal Comitato nazionale di liberazione Alta Italia, che portò a scacciare il nemico dalle principali città del Nord.
Una festa che appartiene a tutti gli italiani amanti della libertà.
Viva la Valsesia, con la sua medaglia d’oro al valor militare!
Viva la Repubblica!
Viva l’Italia!