Il discorso pubblico sul Settantesimo: spunti, osservazioni e riflessioni

Enrico Pagano

articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXV, n. s., n. 1, giugno 2015

La visita di Sergio Mattarella alle Fosse Ardeatine, avvenuta all’indomani della sua elezione alla presidenza della Repubblica, a distanza di qualche mese può essere letta come l’apertura virtuale delle celebrazioni del settantesimo anniversario della Liberazione. Fino a quel momento il riscontro mediatico della ricorrenza appariva tenue e comunque oscurato se confrontato con il concomitante centenario della prima guerra mondiale; le preoccupazioni per una commemorazione in tono minore si accompagnavano alla sensazione che il mondo politico nazionale, con la relativa indifferenza sul tema, relegasse ad una dimensione inadeguata la commemorazione del momento fondativo della democrazia e della libertà in cui il nostro Paese ha vissuto negli ultimi sette decenni. Ancora una volta, dopo Pertini, Scalfaro, Ciampi e Napolitano, è toccato alla più alta carica dello Stato rimettere al centro della memoria pubblica l’attenzione per il doloroso e impegnativo processo attraverso cui l’Italia ha ritrovato la sua unità e ha conquistato la libertà e la democrazia, come ha rilevato Giovanni De Luna nell’intervista pubblicata nel quotidiano “la Repubblica” del 23 aprile, in cui ha definito il Quirinale, ieri e oggi, «un argine al crescente anti-antifascismo, in una dimensione di attivismo stridente con il silenzio in materia del ceto politico».

Il 24 aprile, alla vigilia delle manifestazioni che si sono svolte in tutto il Paese e dell’eccezionale (perché mai verificatosi in precedenza) evento televisivo proposto dalla Rai, che ha mandato in prima serata sul principale canale uno speciale sulla Liberazione condotto da Fabio Fazio dalla piazza del Quirinale, Mattarella ha ribadito in un’intervista ad Ezio Mauro la lettura istituzionale della presidenza della Repubblica sul tema, muovendosi rispetto ai suoi predecessori in linea di continuità contenutistica, a partire dall’affermazione di una prospettiva inclusiva della qualifica di “resistenti” capace di estendersi dai partigiani «ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere e a tutte le donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o in città».

In ordine ai tentativi di diminuzione della portata storica e politica del fenomeno, il presidente ha ribadito l’utilità della Resistenza come dimostrazione al mondo della volontà di riscatto degli italiani dalla dittatura e dalla guerra di conquista, che fu riconosciuta dagli Alleati e pesò sul tavolo della pace, consentendo di aprire in autonomia una nuova fase storica, caratterizzata dalla discussione e dall’approvazione del testo costituzionale, la cui genesi è imprescindibile dalla precedente lotta di liberazione e la cui definizione rappresenta l’esito della ricerca di un ordine risolutivo dei temi della convivenza civile stravolti dal regime e dalla guerra. Una Costituzione che si basa sull’antifascismo, riconosciuto come valore identitario della politica italiana, ricordando la definizione che Aldo Moro riferiva al suo partito, la Dc, sottolineandone il carattere «popolare, democratico e antifascista» e che ha consentito nelle difficoltà della storia repubblicana la tenuta istituzionale nonostante le spinte eversive del terrorismo, dello stragismo e dei disegni golpistici, sconfitti senza sospendere le libertà e i diritti civili. Contrastando il mito della Resistenza tradita, giudicato privo di fondamento storico reale e servito ad avvalorare posizioni ideologiche pseudorivoluzionarie di rifiuto e rottura rispetto all’ordine democratico costituzionale, Mattarella ha rimarcato «la profonda e pacifica rivoluzione sociale» attuatasi in Italia grazie alla Costituzione, che ha permesso a territori e fasce un tempo escluse di crescere radicalmente, anche se con disuguaglianze e divari ancora oggi incolmati.

Intervenendo sulle polemiche di stampo revisionista che hanno indebolito il valore della Resistenza Nell’opinione comune, Mattarella riconosce la presenza nella storia della lotta di liberazione di atti di violenza ingiustificata, vendette, eccidi ma ne sottolinea il carattere di deviazione grave e inaccettabile rispetto agli ideali originari, mentre i campi di sterminio, la caccia agli ebrei, le stragi di civili, le torture erano lo sbocco naturale di un’ideologia totalitaria e razzista. In accordo con la citazione di Calvino, secondo cui i caduti della guerra tra fascisti e partigiani erano «tutti uguali davanti alla morte non davanti alla storia», il presidente ha tracciato un solco netto tra le ragioni dei contendenti, ma, riprendendo le considerazioni dello storico cattolico Pietro Scoppola, ha invitato gli italiani a individuare il momento fondante di una storia e una memoria condivisa nella Costituzione, nata dalla Resistenza, «che ha consentito libertà di parola, di voto e addirittura di veder presenti in parlamento esponenti che contestavano quella stessa Costituzione nei suoi fondamenti» e che ha costituito il punto d’inizio di conquiste di democrazia, libertà e giustizia cui oggi pochissimi italiani si sentirebbero di rinunciare. Ha dedicato ampi spazi al tema dell’anniversario della Liberazione anche il quotidiano torinese “La Stampa”, il cui direttore Mario Calabresi ha definito il Settantesimo «una grande occasione per voltare pagina» grazie alla fine delle liti ideologiche conseguente al riflusso dell’onda lunga della guerra fredda. Nell’inserto speciale pubblicato il 25 aprile, Umberto Gentiloni è intervenuto in ordine alla contrapposizione tra la lettura dell’autosufficienza della Resistenza nel processo di liberazione e la tesi opposta che ne attribuisce il merito esclusivamente alla controffensiva lanciata dagli Alleati verso il cuore della Germania nazista, cioè tra le basi del mito resistenziale, da un lato, e la sua sistematica demolizione dall’altro. Gentiloni, rimarcando il carattere pluralistico insito nella Resistenza di volontà di rinascita di un Paese che aveva avuto la responsabilità dell’invenzione e della diffusione del fascismo, sostiene la necessità di liberarsi dal peso di una contrapposizione limitata ai confini della polemica interna facendo incontrare la lotta partigiana con il contesto generale della guerra, il piano nazionale con quello internazionale, operazione capace di consentire, finalmente, la collocazione degli albori della Repubblica nel nuovo ordine mondiale e di proiettare la Resistenza italiana all’interno di un conflitto che chiama in causa gli equilibri internazionali, i concetti di sviluppo, progresso, modernità e la stessa nozione di civiltà. Rispetto a questo ampliamento di orizzonti e prospettive interpretative stridono le argomentazioni ribadite da Giampaolo Pansa sullo stesso giornale, con cui il giornalista casalese ha proposto il refrain del proprio repertorio polemico basato sull’interpretazione riduttiva della lotta di liberazione ad un affaire tra due minoranze, ha ribadito l’accusa alla retorica resistenziale di aver accreditato la ferocia soltanto ai fascisti e riaffermato la lettura della Resistenza garibaldina come primo tempo a cui sarebbe succeduto un secondo tempo di lotta per la rivoluzione. A proposito di Pansa e del revisionismo è da citare quanto riferisce Sergio Luzzatto in un’intervista rilasciata a “il manifesto” incentrata in gran parte sulla polemica seguita alla pubblicazione del suo controverso libro “Partigia”: rivendicando il dovere di fare fino in fondo i conti con la storia e di «scandagliare i versanti più o meno oscuri della storia dei partigiani», Luzzatto sostiene che «la migliore storiografia degli istituti della Resistenza lo fa da tanti anni, almeno dalla fine degli anni Ottanta. Solo che è condannata ad un respiro locale e allora le uniche cose che restano sulla scena del grande pubblico sono i lavori di chi, per esempio il famoso Giampaolo Pansa, in realtà è il primo a sapere che in quegli istituti della Resistenza si fa storia in un modo molto simile a quello che ho cercato di praticare io»[1]. A proposito delle tesi cosiddette revisionistiche, non si può che concordare sull’affermazione che la ferocia non era peculiarità fascista e che ci sono stati episodi truci ascrivibili ai partigiani, i quali, peraltro, erano cresciuti e si erano formati nella particolare pedagogia del regime fascista, che in gran parte li aveva anche esercitati, in guerra, in azioni di rastrellamento di altri partigiani sulle montagne balcaniche. Immaginare che soltanto una delle due parti in lotta avesse il monopolio della violenza appare quantomeno ingenuo: non lo è invece il rovesciamento della prospettiva e, come scrive Giovanni De Luna, la riduzione del racconto ad un catalogo di orrori senza profondità storica, lo svilimento della Resistenza a basso esercizio di macelleria con conseguente interdetto culturale lanciato contro la lotta armata partigiana. Sulla necessità di tornare a coltivare il valore della Resistenza come scelta etica e disponibilità a mettere in gioco la propria esistenza per la collettività si sono espressi lo stesso De Luna e Zagrebelsky: lo storico parla di “bisogno del 25 aprile” in tempi privi di pedagogia politica, nei quali l’espunzione della Resistenza dal pantheon nazionale avrebbe come conseguenza una carestia di esempi morali; il giurista, nel discorso pronunciato al cimitero monumentale di Torino, mette in guardia dall’assunzione dell’opportunismo come virtù politica, tendenza ricorrente in chi colloca l’identità italiana nella disponibilità ad ogni compromesso pur di assicurarsi una vita tranquilla, e dal revisionismo etico che porta a considerare tanto il fascismo quanto l’antifascismo come estremismi e a dimenticare la Resistenza, relegandola, insieme al fascismo, «ad una nota a piè di pagina della storia italiana». Sul tema dell’attualità dell’antifascismo, Zagrebelsky propone una distinzione tra fascismo “storico” e fascismo “perenne”, di cui il primo è stata una manifestazione spaziotemporale, e insiste sulla necessità di contrapporre la fratellanza al nazionalismo, il dovere dello studio e dell’impegno nel lavoro al culto della forza, l’aspirazione alla pace al culto della guerra, l’uguaglianza alla visione gerarchica della società, l’aspirazione alla vita alla ricerca della “bella morte”. Nel panorama dell’appassionato dibattito civile sui valori del 25 aprile pare utile riportare le considerazioni in prospettiva pedagogica apparse nel “Corriere della Sera” a firma di Aldo Cazzullo, il quale, dopo avere stigmatizzato l’uso politico che si è fatto della Resistenza impugnandola per cause magari anche legittime ma estranee alla lotta al nazifascismo, individua il vero avversario di una visione finalmente corale della lotta di liberazione non tanto nelle equiparazioni impossibili quanto nell’indifferenza del mondo giovanile, sostenendo che «i giovani, a parte qualche fanatico male informato, non hanno nulla contro la Resistenza; molti però non sanno cosa sia», per concludere che «siccome ogni generazione ha la sua guerra da combattere, e quella contro la crisi e il degrado morale del nostro paese è ancora da vincere, tocca a noi – ora che i resistenti se ne stanno andando – trasmettere il loro patrimonio morale ai nostri ragazzi».

Caustica la conclusione cui giunge Gianpasquale Santomassimo ne “il manifesto” a proposito della ricorrenza, in toni apertamente contrastanti rispetto al clima generale: facendo precedere le sua valutazioni dall’opinione di un gigante della finanza globale che giudica le costituzioni antifasciste europee nate dopo la seconda guerra mondiale un ostacolo per l’integrazione dei sistemi economici europei, lo storico attribuisce al 25 aprile il carattere di una mesta cerimonia degli addii, in cui, se non è più messo in discussione l’ossequio esteriore alla Resistenza, i partecipanti ai vari cortei vivono la stessa situazione descritta in una poesia di Brecht, inconsapevoli che alla loro testa marcia il nemico.

Cristina Cenci, nel saggio “Rituale e memoria: le celebrazioni del 25 aprile”, pubblicato nel 1999[2], si sofferma sul giudizio di una parte della storiografia secondo cui la festa della Liberazione avrebbe le caratteristiche di una “festa debole”. Tale debolezza, derivata dal confronto rispetto al modello tipico e ideale di festa nazionale che si imposta su coesione e integrazione della comunità, amore super partes ed ecumenicità, risulterebbe particolarmente pesante a causa del gravame di contrapposizioni, conflitti, identità di parte, divisioni della memoria che insistono sulla ricorrenza, oltre ad altre motivazioni di ordine storico-politico e socio-culturale. La necessità di celebrare l’esperienza partigiana, come riporta Santomassimo nel citato articolo, aveva preso forma, ancor prima della conclusione degli eventi, con l’istituzione fissata per il 18 aprile del 1944 della “giornata del partigiano”. Dopo la Liberazione si aprì il dibattito tra le forze politiche sulla scelta della data da celebrare come festa nazionale per la Liberazione: rispetto alla proposta di festeggiare il giorno della resa definitiva dei tedeschi e la fine della guerra prevalse la scelta di commemorare il 25 aprile in quanto giorno dell’insurrezione generale proclamata dal Clnai, valorizzando così in una dimensione attiva il ruolo della Resistenza e della classe dirigente che vi si era forgiata. Fu conseguentemente emanato il decreto luogotenenziale n. 185 del 22 aprile 1946, firmato dal principe Umberto e proposto dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, in cui si riportava: «A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano il 25 aprile del 1946 è dichiarato festa nazionale». In quell’occasione il luogotenente, futuro “re di maggio” ma destinato all’esilio dopo il referendum del 2 giugno, scrivendo alle Forze armate affermava che «quando un popolo in così aspro travaglio non cede di fronte alla immensità della sciagura e alle avversità del destino, ma trova nelle fibre profonde della stirpe il coraggio per non disperare e la forza per lottare ancora, quel popolo può alzare la fronte davanti a tutto il mondo e affermarsi degno di un migliore avvenire». A sua volta De Gasperi, presidente del Consiglio, in un telegramma inviato alle celebrazioni ufficiali milanesi dichiarava: «L’eroica lotta sostenuta dai partigiani rappresenta un notevolissimo contributo alla resurrezione della patria che si avvia con consapevolezza alla democrazia nella giornata anniversaria dell’insurrezione liberatrice». Un anno dopo, la celebrazione ufficiale si tenne a Roma sul piazzale del Campidoglio, preceduta da una funzione religiosa all’Ara Coeli: quella volta De Gasperi rese omaggio «alle numerose forze della Resistenza che scacciarono il nemico e liberarono la patria» e sottolineò come «la virtù della Resistenza deve essere virtù di oggi: si dovrà resistere contro ogni sfiducia e ogni scoramento per superare le difficoltà attuali e per far sì che si affermino i principi democratici». Parole che marcano la pluralità, la complessità e l’articolazione dei fenomeni che si riassumono nella parola “Resistenza”. La classe dirigente del Paese, in quei frangenti, era consapevole che, di fronte al tragico bilancio della seconda guerra mondiale, se c’era un profilo perché l’Italia si presentasse conservando un minimo di dignità al tavolo della pace, di fronte agli Alleati, era dovuto principalmente alla ribellione messa in atto nel territorio occupato dai tedeschi e che si trovava sotto la formale autorità neofascista della Repubblica sociale; il 25 aprile nacque come festa corale e identitaria, inclusiva dei contributi cattolici, comunisti e laici, militari e civili e come momento di ostensione dell’orgoglio collettivo per la liberazione conquistata e non regalata da terzi. La guerra fredda, la fine del clima di concordia interpartitica, l’esplosione dell’anticomunismo e il conseguente arroccamento da parte del mondo partigiano garibaldino posero fine precocemente a questa fase idilliaca e, probabilmente, segnarono irreversibilmente il destino di debolezza della festa nazionale della Liberazione. Nel clima elettorale del 1948, sottolinea Santomassimo, la rottura dell’unità antifascista ha trasformato la Resistenza da risorsa a «fardello e complicazione», facendo irrompere e prevalere il profilo della guerra civile, anzi, della guerra fratricida, secondo una definizione deprecativa in voga fino agli anni sessanta; una situazione che derivava, aldilà delle contingenze politiche, dalla persistenza di mentalità, culture e consuetudini ereditate dal fascismo, la cui metabolizzazione era lenta e difficoltosa. Il terzo anniversario della Liberazione, a una settimana dalle elezioni del 18 aprile 1948, fu preceduto dal divieto governativo di organizzare pubblici cortei e di partecipare alle manifestazioni con qualsiasi divisa. La manifestazione nazionale che si svolse a Milano fu gravata da incidenti e scontri, nei quali perse la vita un carabiniere: sul palco degli oratori al Castello Sforzesco soltanto Longo ricevette applausi dalla folla, mentre Ferruccio Parri, che intervenne sul pericolo insito nell’appropriazione della Resistenza di una parte politica, non poté portare a termine la sua orazione ed Enrico Mattei rinunciò alla partecipazione. L’evento sanciva la divisione e la fine della condivisione della festa: si sarebbe aperta a breve la stagione dei processi ai partigiani e la divulgazione dell’immagine della Resistenza sanguinosa ed efferata responsabile delle foibe e del triangolo rosso. Nel 1949, in occasione del quarto anniversario, lo stesso Ferruccio Parri, scrivendo ne “La voce repubblicana”, constatava che le celebrazioni avevano perso in gran parte lo spirito che avrebbe dovuto animarle. Scriveva infatti l’ex presidente del Consiglio: «Si sopportano con educata rassegnazione le declamazioni di rito; e l’oratoria d’occasione scivola senza presa sullo spirito degli ascoltatori indifferenti o smemorati o maligni. Più attento pubblico hanno i detrattori, cioè i responsabili ed i colpevoli della disfatta e della rovina». Parri lamentava inoltre che gli italiani non sapessero nulla della Resistenza e aggiungeva che «purtroppo quello che fu sforzo di tanta parte del popolo italiano sulle vie della libertà e della giustizia per sollevarsi dallo stato di plebe, per riscattare la nazione dal suo ventennale abito di servitù, è stato eroico, sì, ma quanto difficile e quasi innaturale». Denunciava, ancora, la persistenza di un groviglio di idolatria, feticci nazionalistici e pregiudizi di ogni razza dovuto al fascismo, responsabile anche del radicamento di un corporativismo e provincialismo bene accetto ad una borghesia paesana grande e piccola, intimamente refrattaria ad idee liberali e al costume democratico, che si manteneva anche nell’Italia repubblicana. Oltre a questi elementi interni, contribuiva al deterioramento dell’immagine e della considerazione della Resistenza una situazione internazionale in cui queste stesse forze rappresentative di un sottostrato fascista della vita italiana cercavano una sorta di rivincita attraverso la visione del Patto atlantico come una specie di «ridotto entro il quale ricostruire a spese dell’ingenuo zio d’America un’Italia nazionalista e paternalista, e quindi autarchica e corporativa» da un lato, e dall’altro non giovava l’indebita appropriazione da parte comunista di tutto il merito della lotta e di tutti i valori che vi si erano manifestati. In questo clima, concludeva Parri, «viene fatto di sentire che per stornare il comunismo, solito fantasma, anche un ritorno di fascismo sarebbe da auspicare» e questo aveva per conseguenza l’«anatema sui partigiani, sui combattenti della Resistenza, sui volontari della libertà, sui Caduti, sui martiri, sui carcerati, sui deportati»; un ultimo accenno, non meno significativo, Parri lo riservava alla magistratura che aveva assolto troppo facilmente i brigatisti neri responsabili di efferatezze. Altre parole avrebbe voluto scrivere in quell’occasione Ferruccio Parri, ma incombeva su di lui il dovere di un richiamo e di un appello alla nazione perché non fossero rinnegate, prima ancora che le ragioni del comune operare, prima ancora che gli esempi, le tradizioni e l’insegnamento del comune passato, le comuni speranze di una vita migliore, di una vita più degna.

La celebrazione del 25 aprile come anniversario della Liberazione fu definitivamente istituita con la legge n. 260 del 27 maggio 1949. Il quinto anniversario della Liberazione fu l’occasione per l’inaugurazione di un tentativo di ritorno ad una dimensione corale, almeno esteriormente: a Roma si svolse una manifestazione cui presero parte esponenti politici del governo, della maggioranza e della minoranza, della sinistra e della destra democratica. Mentre gli oratori si alternavano al Teatro Adriano, che aveva una capienza di quattromila posti ben presto occupati, piazza Cavour si riempì di folla. Intervenne Bonomi, già presidente del Comitato di liberazione nazionale, insieme al vicepresidente del Senato Enrico Molè, che lesse un telegramma inviato dal presidente della Repubblica. Le parole che risuonarono nei discorsi tenuti per l’occasione ribadirono il significato unitario della celebrazione, antidoto necessario ai troppo facili oblii e presupposto per riaffermare che la svalutazione o la denigrazione dei dati storici e morali della Resistenza non potevano aver campo nell’Italia democratica, che la storia non si poteva cancellare e che ritorni di tirannide non erano concepibili né ammissibili. Bonomi ricordò l’impossibilità dell’indifferenza nella lotta mortale nella quale si decidevano i destini del mondo: o l’oppressione nazifascista con il suo folle sogno di dominio universale, o la libertà e la democrazia dei popoli liberi conciliati in una fraterna e pacifica gara di civiltà. L’Italia doveva scegliere e infatti scelse. L’infelice formula usata nel comunicato del 25 luglio 1943, “la guerra continua”, si trasformò, presso le avanguardie della democrazia italiana, nella consapevolezza che la guerra sarebbe sì continuata, ma come «guerra fra il bene e il male, fra la tirannia e la libertà». Continuava Bonomi: «Perché questo nostro secondo Risorgimento possa dare tutti i suoi frutti, occorre che esso sia conservato integro nella memoria della Nazione e sia custodito con la cura gelosa di chi ha un tesoro che non deve lasciar disperdere. Ha l’Italia – si chiede con accento severo – compiuto sempre questo suo dovere? Tutti i nuovi Italiani, pur nelle legittime contese di parte, e prima di trascendere alle intolleranze che sono essenzialmente antidemocratiche, devono sentire la comune origine spirituale, dovrebbero ricordare il comune patrimonio sentimentale che ci congiunse un giorno». Un appello rimasto inascoltato, a causa di un clima politico ancora fortemente permeato di spiriti antipartigiani. Il clima tendeva comunque a modificarsi e già dal 1953 si assistette a cerimonie celebrative di compromesso, in cui le rappresentanze partigiane continuavano ad essere marginali ma non del tutto escluse. In occasione del decennale, il 22 aprile 1955, il presidente della Camera Giovanni Gronchi, pochi giorni prima dell’elezione alla presidenza della Repubblica, pronunciò un discorso celebrativo in cui tra l’altro dichiarava: «Il pensiero della Resistenza non può né deve immiserirsi – come da qualche parte si è andato tentando – in una specie di macabro bilancio delle vittime delle varie parti. Tentativo miserando, perché di un fatto che ha tale ampiezza e così complessa significazione spirituale prima che politica, sarebbe veramente confonderne le dimensioni e sminuirne il valore pretendere di identificarne la misura storica e morale coll’unilaterale elencazione di taluni eccessi che sono episodi marginali, e rifiutandosi faziosamente di apprezzare quali fossero l’anelito e l’ansia di rinnovamento da cui il movimento di liberazione fu ispirato e condotto. Ogni guerra civile – ed il popolo italiano fu allora veramente costretto ad una guerra civile – ha i suoi orrori ed i suoi errori, ha le vittime dall’una e dall’altra parte, per tragiche incomprensioni o per scoppio improvviso di settarismi e di istinti di violenza. Ma non in questo si è materiato il grande fatto storico che domina in Italia l’ultimo biennio della guerra […] una lotta come quella della liberazione, continuando il solco impresso nella feconda generosa terra della nostra compagine nazionale dal primo risorgimento, fu un moto popolare nel senso più largo ed effettivo della parola».

La svolta nel paradigma celebrativo fu definitiva dopo la battaglia popolare che mise fine all’esperienza clerico-fascista del governo Tambroni e ripristinò, come spiega Santomassimo, la centralità del binomio Resistenza-antifascismo nel discorso pubblico, cui non corrispose tuttavia lo sviluppo di un serio dibattito sulle responsabilità storiche collettive, come accadde invece in Germania, dove si ebbe l’avvio della lotta alla rimozione del passato nazista e della messa in stato di accusa della generazione dei padri; in Italia, invece, si configurò un giudizio bonario e minimizzante sulle colpe del regime. Il paradigma celebrativo instauratosi negli anni sessanta fu nuovamente messo in discussione dall’avvio del dialogo con il Msi operato da Bettino Craxi negli anni ottanta e, negli anni novanta, dalla tendenza alla legittimazione della nuova destra, estranea e ostile alla Resistenza, che relegò l’antifascismo sulla difensiva, costretto a battaglie di retroguardia come quella del revisionismo, anche se dimostrava ancora vitalità con l’organizzazione di manifestazione imponenti come nel 1994 a Milano o con il sostegno vincente al referendum che nel 2006 bocciava il progetto berlusconiano di revisione costituzionale in senso presidenziale.

La storia del 25 aprile merita certamente più attenzione e profondità di quanto sia stato possibile restituire in queste pagine, così come la riflessione sul significato civile e culturale della ricorrenza, dopo le luci della ribalta del Settantesimo, dovrebbe portare ad una migliore consapevolezza nelle istituzioni e nel mondo politico in generale della necessità del rispetto e della conoscenza della storia e alla convinzione che, senza la coscienza del nostro passato, vengono meno i presupposti per essere pienamente cittadini di questo Paese e per sentirsi figli legittimi di una Costituzione di cui dobbiamo essere orgogliosi, che senza la Resistenza non avrebbe avuto la stessa intensa e straordinaria bellezza.


Note

[1] Nell’intervista curata da Cesare Martinetti compaiono due citazioni che ci riguardano territorialmente: una riguarda le «malefatte della banda Moranino», la seconda chiama in causa Cesare Bermani come fonte di un episodio che sarebbe accaduto in Valsesia in cui due ausiliarie ritenute spie sarebbero state uccise facendo loro esplodere una bomba a mano nella vagina. Sul primo tema, lungi dall’addentrarci nell’occasione in questioni dai contorni impervi ma che richiederanno prima o poi un’analisi più scientifica a fronte della lapidaria damnatio memoriae riservata a Gemisto, si ritiene doveroso almeno ricordare che Moranino era prima comandante e poi commissario politico di una divisione partigiana composta da tre brigate, che contava su più di mille uomini e che vantava una storia durata almeno diciannove mesi, dall’ottobre del 1943: di questo stiamo parlando e non di un capobanda. Sul secondo aspetto vale la pena citare integralmente la fonte da cui Pansa trae la notizia; in proposito Cesare Bermani scrive: «Mi racconta, per esempio, Angelo Razzano “Elo”, di avere visto uccidere da parte di partigiani donne fasciste, legandole e dilaniandole mediante l’introduzione di una bomba a mano nella vagina» (Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, vol. II, Borgosesia, Isrsc Bi-Vc, 1995, p. 74). Mancano nella fonte i riferimenti alle due ausiliarie e al luogo in cui sarebbe avvenuta l’orribile esecuzione. Forse Pansa, consapevole della debolezza della citazione, ha ritenuto di aggiungere di suo alcune circostanze su vittime e luogo dell’esecuzione, a conferma che più della verifica delle circostanze storiche al giornalista casalese interessa l’effetto orrido, funzionale a impressionare il lettore più che a informarlo. Una tecnica comunicativa di straordinaria efficacia, ma intellettualmente sleale.

[2] Il saggio è contenuto nel volume Leonardo Paggi (a cura di), Le memorie della Repubblica, Scandicci, La Nuova Italia, pp. 325-378.

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