Marta Nicolo
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXVI, n. s,, n. 1, giugno 2016
Il 2 giugno di quest’anno ricordiamo non solo i settant’anni della nostra Repubblica, ma anche i settant’anni trascorsi da una delle più alte esperienze collettive vissute e mai prima sperimentate, l’Assemblea costituente.
L’Italia era passata dalla dittatura alla democrazia attraverso una lacerante guerra civile che, oltre a numerose vittime, aveva causato anche la disgregazione del sistema politico tradizionale e il dissolversi delle istituzioni. Quando, il 2 giugno del 1946, il referendum istituzionale e le elezioni per l’Assemblea costituente sancirono la nascita della Repubblica italiana e diedero il via ai lavori per la stesura della Carta costituzionale del nuovo stato democratico, i “padri fondatori”, protagonisti di questa delicata fase di transizione, furono investiti del compito di ricostruire e ridisegnare il tessuto democratico del Paese. L’esperienza politica dell’Assemblea va letta in continuità con la parentesi della Resistenza, intesa come il momento massimo in cui il “il senso del dovere” si sostituì a ogni altro impulso, anche a quello della sopravvivenza personale.
L’Assemblea, oltre alla responsabilità della ricostruzione del sistema politico, aveva anche il compito di individuare gli antidoti contro il male che aveva cancellato la democrazia dal Paese. Con questo slancio ideale e con questi obiettivi nacque la nostra Costituzione. Ma, nel ricordare i settant’anni da questi importanti traguardi, non possiamo non soffermarci anche sui protagonisti di quei giorni e dare loro il giusto riconoscimento, uno fra tutti
il presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini.
Terracini era un avvocato, un uomo di grande cultura politica, che si era contraddistinto fin da giovane per la sua tenacia. Cresciuto nella Torino bene, si era avvicinato a poco a poco all’impegno politico, trasformando l’indignazione per la situazione politica del tempo in intransigenza nella lotta contro il fascismo. Fondatore, con Bordiga e Gramsci, del Partito comunista d’Italia, subì una lunga persecuzione da parte degli apparati repressivi del regime fascista e trascorse circa quindici anni tra carcere e confino. Al termine del conflitto fu eletto deputato del terzo collegio di Genova all’Assemblea costituente, di cui divenne subito vicepresidente.
Nell’autunno dello stesso anno entrò a far parte del comitato di redazione dei diciotti costituenti. I suoi interventi si soffermavano in particolare sui diritti e i doveri dei cittadini, sui principi fondamentali e sui rapporti tra Stato e Chiesa. Nel 1947, in seguito alle dimissioni dalla carica di presidente di Giuseppe Saragat, Terracini venne eletto al suo posto con larga maggioranza. Ricordando la sua elezione, Terracini si esprime in questi termini:
«Accettai l’incarico con enorme contentezza, e fui particolarmente lieto dell’enorme rivincita che mi prendevo nei confronti di tutto il passato. La sola ambizione che mi sollecitava in quel momento era in ogni modo quella di assolvere bene anche questo mio compito». E così fece. Uno statista e giurista come Vittorio Emanuele Orlando lo definì un grande presidente, «un presidente nato perfetto». Terracini dimostrò di saper condurre i lavori
della Costituente nella fase più drammatica e convulsa, quella apertasi in seguito alla crisi dei governi di unità antifascista.
Terracini va ricordato, oltre che per l’intelligenza sopraffina e l’inconfondibile arte oratoria, proprio per la tenacia e l’autonomia di pensiero. Fin da giovane aveva dimostrato la sua rettitudine e la sua irrinunciabile onestà intellettuale, anche a costo di ingrate emarginazioni e drammatici contrasti. Nel 1939, dal confino, aveva criticato aspramente e coraggiosamente il patto Molotov-Ribbentrop e per questo era stato espulso dal Pci. L’espulsione dal partito che aveva contribuito a fondare e il divieto formale dei compagni di rivolgergli la parola erano stati per lui motivo di tremenda amarezza e causa di «sofferenze morali di molto superiori a quelle inflittegli dalla prigionia». Nonostante questo, per tutto il periodo del suo allontanamento forzato non aveva mai smesso di scrivere, intervenendo puntualmente sulle questioni che il partito si trovava ad affrontare e interpellando Togliatti e l’allora classe dirigente comunista per tentare di ottenere l’annullamento della decisione di espulsione, senza però indietreggiare mai dalle sue posizioni. Comunista espulso dal partito ed ebreo perseguitato, Terracini nel 1943 era stato costretto a scappare in Svizzera, dove era stato internato per un paio di mesi in un campo di profughi italiani nei pressi della frontiera. Nel settembre del 1944 era poi riuscito a ritornare clandestinamente in Italia e, nonostante fosse stato isolato da anni, aveva insistito per fare la sua parte da partigiano nel governo della Repubblica dell’Ossola.
Terminato il conflitto, Togliatti, segretario del Partito comunista italiano nonché suo caro amico di gioventù, aveva finalmente deciso di archiviare il “caso” Terracini e riammetterlo nel partito. Il 26 aprile del 1945 Terracini si era quindi recato a Roma per incontrare Togliatti di persona. Questo il ricordo dello stesso Terracini: «Alzò il capo e riconosciutomi disse: “Ciao! Siediti. Sono subito da te”. E riportò gli occhi sulle carte che stava esaminando. Come se ci fossimo visti la sera prima». Erano passati diciannove anni dal loro ultimo incontro.
Finiva così il suo lungo isolamento, come se fosse passato appena un giorno, come se l’oltraggioso biennio dell’espulsione non avesse lasciato segni. Terracini decise di evitare di parlare con i compagni della triste vicenda che aveva vissuto e si tuffò nel lavoro con entusiasmo.
Questa la tempra di un padre fondatore, la tenacia di un uomo che dopo aver vissuto negli anni della guerra il carcere, il confino e l’espulsione dal proprio partito, aveva deciso di dedicare fin dal primo giorno di pace tutta la sua energia alla ricostruzione del tessuto democratico del Paese. Nelle sue parole vanno cercate le ragioni del suo atteggiamento: «Io ho sempre pensato che al singolo, per alto che sia il suo impegno e per quanto grande
sia la capacità di agire, non è dato di incidere sulla realtà se non si unisce agli affini, ai simili, agli uguali […]. Per questo io ho sempre voluto restare nell’ambito di una forza organizzata nella quale, e per il cui tramite, il mio pensiero potesse divenire azione efficiente […]. Questa è la chiave di comprensione della mia condotta. Non ho mai voluto e non voglio essere un pensatore solitario, non amo il destino delle anime belle».
Umberto Terracini fu, oltre che il presidente della Costituente, una delle intelligenze determinanti per la storia del suo partito e del suo Paese. Confermato senatore della Repubblica fino al termine della sua vita, fu strenuo difensore dei diritti civili e il primo a occuparsi del dramma delle persecuzioni ebraiche e dedicò la propria vita a combattere l’antisemitismo. Si impegnò ogni giorno della sua attività politica affinché la nostra Costituzione avesse piena attuazione, convinto che la storia è maestra di vita soltanto quando si traduce in convincimenti e azioni volte a operare nella realtà, perché ogni uomo possa vivere nella libertà e nella giustizia.
Forse è tempo di riconoscere con maggiore giustizia a Terracini il ruolo che gli spetta, iniziando con il ricordo delle parole che, in quanto presidente dell’Assemblea costituente, pronunciò il 22 dicembre 1947 a Roma in seguito alla votazione che sancì la nascita della Carta costituzionale, parole che racchiudono tutto il senso del suo agire e del suo concepire la politica: «L’Assemblea ha pensato e redatto la Costituzione come un solenne
patto di amicizia e fraternità di tutto il popolo italiano, cui essa lo affida perché se ne faccia custode severo e disciplinato realizzatore. E noi stessi, onorevoli deputati, colleghi cari e fedeli di lunghe e degne fatiche, conclusa la nostra maggiore opera, dopo aver fatta la legge, diveniamo i più fedeli e rigidi servitori. Cittadini fra i cittadini, sia pure per breve tempo, traduciamo nelle nostre azioni, le maggiori e le più modeste, quegli ideali che, intraprendendo il voto delle larghe masse popolari e lavoratrici, abbiamo voluto incidere nella legge fondamentale della Repubblica.
Con voi mi inchino reverente alla memoria di quelli che, cadendo nella lotta contro il fascismo e contro i tedeschi, pagarono per tutto il popolo italiano il tragico e generoso prezzo di sangue per la nostra libertà e per la nostra indipendenza; con voi inneggio ai tempi nuovi cui, col nostro voto, abbiamo aperto la strada per un loro legittimo affermarsi.
Viva la Repubblica democratica italiana, libera, pacifica ed indipendente!».