Anna Cardano[*]
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XL, n. s., n. 2, dicembre 2020
Una foto e una lettera
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona[1] sono noti da sempre a chi si è occupato delle persecuzioni antiebraiche sia in ambito novarese che vercellese. Insieme a Bertie Sara Kaatz[2], ebrea nata in Polonia e residente a Novara dal 1942, la cui storia è emersa più tardi e continua a essere poco conosciuta, sono i “sommersi” arrestati in città il 19 settembre 1943, spesso dati per assassinati nella stessa data. La loro sorte dopo quel giorno è ancora parzialmente ignota. Qui vorrei aggiungere qualche tassello a questa storia, nell’ambito di una più vasta ricerca in corso, avendo come riferimento soprattutto i fondi archivistici conservati all’Archivio di Stato di Novara, in particolare quelli della Prefettura (Divisione Gabinetto), quelli dell’Archivio storico del Comune di Novara, e in misura minore quelli relativi all’ospedale psichiatrico, e poi i registri del cimitero novarese, conservati negli uffici del cimitero stesso. Alcune notizie provengono dai fondi Egeli[3] e da quelli dell’Archivio di Stato di Torino e altre informazioni utilizzate si trovano in archivi privati[4] o provengono da testimonianze orali[5].
Nel 2014 stavo effettuando una ricerca all’Archivio di Stato di Novara sul comportamento delle amministrazioni pubbliche nell’applicazione della legislazione antiebraica, finalizzata anche a un possibile utilizzo didattico con i miei studenti, quando mi è arrivata una raccomandata postale da Alzano Lombardo contenente una fotografia in bianco e nero di Giacomo Diena, al quale si poteva dunque dare un volto, riportante in calce la dedica «Al mio unico amore», la firma Giacomino e la data del 2 agosto 1931. Sul retro era timbrato il nome di uno studio fotografico molto noto a Novara, quello dei fratelli Lavatelli, e una scritta successiva a matita «moroso zia Irene». La busta ricevuta conteneva anche un foglio ingiallito, scritto a matita in tre date diverse, l’11 ottobre 1943, il 20 ottobre 1943 e il 14 novembre 1943, e piegato tre volte fino a raggiungere la dimensione di un biglietto da visita. Riportava la firma di Giacomo Diena e un breve saluto dello zio materno Amadio Jona alle sorelle novaresi. È dunque evidente che né Diena né lo zio Jona erano morti lo stesso giorno dell’arresto. Diena segnalava come indirizzo del mittente «Carceri giudiziarie Torino». I due uomini erano quindi in carcere a Torino da quasi due mesi, dopo l’arresto del 19 settembre 1943, e dal 20 ottobre non erano più riusciti ad avere notizie dei loro familiari rimasti in città, Marianna Jona, madre di Diena, e sua zia materna Dolce, neppure tramite gli amici da cui speravano aiuto. Nel testo viene citata «la cara Irene», cioè Irene Cantoni (1897-1976), la donna novarese a cui la lettera era destinata e che l’avrebbe poi conservata per tutta la vita insieme alla foto. Dallo scambio di e-mail e telefonate con il nipote di Irene, Giuseppe Cantoni, oggi residente ad Alzano Lombardo ma di origini novaresi, ho appreso che la famiglia Cantoni voleva assicurarsi della futura conservazione a Novara di quei documenti.
Con le dovute cautele che occorrono quando si ha a che fare con memorie di bambini, ho saputo che suo nonno paterno Giuseppe, da cui aveva ereditato il nome, mediatore di risi e poi titolare di una trattoria in centro città, era appunto amico del Diena, che frequentava assiduamente la loro casa di corso della Vittoria, anche per far visita ad Irene. Diena è ricordato come un signore distinto, elegante e gioviale, con il distintivo degli invalidi della prima guerra mondiale portato sempre sulla giacca. La zia paterna del mio interlocutore, Irene, si era dedicata alla famiglia, al padre e agli altri fratelli, dopo aver perso la madre in giovane età, e lavorava in casa come ombrellaia. Uno dei suoi fratelli, Aldo, azionista, si era invece trasferito nel 1936 a Bergamo, con la famiglia, e lì avrebbe poi collaborato con la Resistenza come informatore. Il piccolo Giuseppe era cresciuto in una famiglia antifascista e ricorda che sia il nonno Giuseppe che il padre Aldo, tornando per questa ragione da Bergamo, dopo l’arresto del Diena avevano cercato sue notizie. Nel dopoguerra fu poi Irene, oltre ovviamente alla Comunità israelitica di Vercelli, a chiedere notizie di Giacomo e dello zio Amadio Jona al Comitato ricerche deportati ebrei, con sede a Roma, come risulta anche dalla documentazione conservata al Yad Vashem di Gerusalemme. Sarebbero dunque stati deportati in Germania, «presumibilmente», come riportano alcuni documenti degli anni cinquanta, ma senza alcuna indicazione certa sulla loro fine. Tornerò in seguito su questo punto.
In questi decenni la figura del Diena, considerato come uno di famiglia, è stata ricordata sia dal ramo della famiglia Cantoni rimasto a vivere a Novara, che in quello trasferitosi nel Bergamasco, nelle giornate del 2 novembre, del 25 aprile, e in seguito anche del 27 gennaio, Giorno della Memoria. Dopo la morte di Irene, la foto e la lettera erano state conservate da Giuseppe Cantoni.
La famiglia Diena-Jona e il suo radicamento a Novara
La ricerca di Liliana Picciotto sugli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah rileva che essi costituiscono l’81 per cento degli ebrei presenti allora sul territorio, senza sostanziali differenze tra ebrei italiani e stranieri[6]. Perché dunque Giacomo Diena non si salvò, nonostante fosse stato invitato a mettersi in salvo la sera del 18 settembre 1943? Diverse testimonianze, come quelle di Benvenuta Treves e di Ines Muggia, ebree novaresi che riuscirono a evitare l’arresto, riportate nella bibliografia già citata e in particolare in “Novara ebraica”, ci raccontano infatti dei messaggi che furono fatti pervenire agli ebrei novaresi grazie alla moglie del ragionier Celso Muggia, a sua volta avvisata da un ristoratore novarese che aveva raccolto l’informazione del previsto rastrellamento da un funzionario della Questura. Celso Muggia si era già allontanato da qualche giorno da Novara, era amico del Diena e certo il messaggio era attendibile. Riferisce la figlia Ines Muggia: «La cosa che ancor oggi mi rattrista è pensare che il povero ragionier Diena non cercò nemmeno di mettersi in salvo, convinto che il suo servizio alla Patria lo avrebbe in qualche modo tutelato»[7].
Sul suo passato militare il Diena contava dunque parecchio, tanto che aveva sperato di ottenere la discriminazione prevista per gli ebrei con meriti speciali, anche se questa non era mai arrivata. Probabilmente a influire sulla scelta fu anche la sua condizione familiare: mamma e zia anziane e malandate, così come lo zio Amadio Jona che, seppure residente a Torino[8], era spesso in casa con loro. Lui stesso inoltre era claudicante: uno spostamento del nucleo familiare non era affatto semplice e d’altra parte si sentiva integrato nella città in cui abitava da decenni. Il tono della lettera inviata a Irene Cantoni dalle carceri giudiziarie di Torino ci mostra così tutta la sua disperazione (le sottolineature, l’uso delle maiuscole e la punteggiatura sono così come nel manoscritto):
Scrivete veloci notizie per carità
E pregate per noi e ricordateci
Torino 11/10/43 XXI
Carissime mamma e zia
Nell’inviarVi il Buono per la legna da ardere che presto ne avrete bisogno, mi raccomando di non lasciarlo scadere bisogna andare tutti i primi giorni del mese a pagarle e pregare che la portino a casa. Hai pagato l’affitto di casa? Nella mia del 1o corr vi domandavo se avete già ricevuto il carbone, vi domandavo notizie della vostra salute, e vi pregavo dei saluti della casa, ma fin’ora non ho ricevuto vostre care notizie. Scrivetemi presto.
La cara Irene credo che verrà da voi, pregatela a nome mio di aiutarvi e di scrivermi. /omissis/
Irene hai fatto quanto ti pregavo nella mia del 1o corr? Spero di sì e ti ringrazio il papà come sta? /…/ Scrivimi e ricordami bacioni tuo Giacomo”, /…/.
Carissime tutte
Tralascio perché sono disperato, non mi raccapezzo più, solo vi prego di avervi cura di farvi forza e di pregare per noi qui che il Buon Dio ci faccia ritornare tra di voi al più presto possibile. /…/.
Più avanti troviamo anche un laconico saluto dello zio Amadio, allora settantanovenne, in data 14 novembre 1943:
Care Sorelle,
Oltremodo addolorato vi mando mie buone notizie e cari saluti a tutti e baci
aff. Amadio.
Per provare a capire lo sconcerto dei due uomini, occorre risalire a decenni prima e intravvedere le speranze di una famiglia con radici nell’Astigiano (gli Jona) e nel Torinese (i Diena), che a fine Ottocento decide di trasferirsi a Novara[9].
Il primo a giungere in città il 1 marzo 1891, dopo il trasferimento da Fossano, è Amadio Jona (registrato spesso come Amedeo), nato ad Asti il 4 dicembre 1864, che si stabilisce in via dell’Archivio, alla Casa Barabino dove viveva il negoziante Neemia Jona, con la moglie, la figlia, la madre (vedova del precedente capofamiglia Abramo Jona) e una cameriera. Il gruppo, arrivato da Milano, si sposterà poi a Mantova, conferma questa della frequente mobilità e intraprendenza di queste famiglie. Ritengo opportuno addentrarmi in questi particolari per segnalare che, come ben documentato in “Novara ebraica”, la presenza di ebrei a Novara non era residuale, anche se ostacolata per varie ragioni da diffidenze delle istituzioni e della cittadinanza.
Nel foglio di famiglia appena descritto il giovane Amadio è indicato come orefice e «congiunto» degli altri Jona. Amadio sceglie di fermarsi a Novara, la sua bottega da orefice è in pieno centro, in via Omar 2, dove nelle guide commerciali della città risulta un’attività di lucidatore di argenti e preziosi; probabilmente convince sorelle, cognato e nipoti a raggiungerlo a Novara nel 1899.
A partire dal 1906, il Comune di Novara forma un successivo foglio di famiglia, il n. 2120, nel quale è ora capofamiglia lo stesso Amadio fino al 1909, quando si sposa con la novarese Giovanna Binda, formando una nuova famiglia; solo dopo la sua morte Amadio porterà a Torino la residenza.
A Novara non è dunque stata una presenza fumosa ed evanescente. Alcuni discendenti della moglie conservano ancora oggetti come portagioie, bilance da orefice e altri strumenti del suo lavoro, riportanti il suo nome.
Non va sottovalutato il fatto che la professione di Amadio, corrispondente allo stereotipo dell’ebreo avaro, usuraio e ricco, di cui la propaganda antiebraica faceva grande uso, potrebbe in seguito aver influito sul suo mancato rilascio dopo l’arresto, a differenza di altri fermati, nonostante nel 1943 avesse settantanove anni, forse proprio per una sopravvalutazione della sua ricchezza.
Dopo il matrimonio di Amadio il foglio di famiglia n. 2120, poi aggiornato con i censimenti del 1911 e 1921, comprende le sue sorelle Dolcina e Marietta, casalinghe, nate rispettivamente nel 1861 e nel 1853 ad Asti, il genero Saulle Diena (registrato dal 1909 come capofamiglia), originario di Carmagnola, sarto, marito di Marietta, e i loro figli Giacomo Diena, nato a Torino il 5 agosto 1887, indicato come scolaro e poi come commesso di negozio, e Gabriella, di un anno più giovane, scolara, domiciliata in seguito a Milano dal 1916, e poi trasferitasi definitivamente nel 1923. Al suo arrivo a Novara Giacomo aveva dunque dodici anni. La famiglia risiede prima in via Carlo Alberto e poi dal 1921 in piazza Sant’Agata 2, in affitto nella casa Stoppani, dove avverrà l’arresto del 19 settembre 1943. L’abitazione è situata a pochi passi dalla sede della Banca popolare di Novara dove Giacomo era impiegato. Il foglio n. 2120 registra anche la morte di Saulle, avvenuta a Novara nel 1924. Tra la nascita di Saulle nel marzo 1848, anno che segnò in Piemonte l’emancipazione degli ebrei, e le leggi razziste del 1938, che causarono la morte del figlio pochi anni dopo, passano solo alcuni decenni, attraversati da una speranza che poi si tramuta in tragedia.
Saulle Diena, così come la moglie Marietta e la cognata Dolcina (Dolce) Jona, è sepolto nel cimitero ebraico di Novara. La morte delle due donne, rispettivamente nel gennaio e nel dicembre 1944, sarà accuratamente registrata in tutti gli elenchi di ebrei prodotti dall’amministrazione comunale e dagli altri enti competenti, e del loro seppellimento c’è traccia anche nei registri del cimitero novarese di quell’anno.
Dopo il 1938 era stato costituito per la famiglia Diena-Jona un ulteriore foglio di famiglia con la vistosa scritta rossa «razza ebraica», stampigliata in maiuscolo, che attraversava diagonalmente ogni sua pagina. Come se non bastasse, la stessa scritta era poi stata riportata a mano sotto ogni nome. In questo nuovo foglio risulta capofamiglia proprio Giacomo Diena, registrato come impiegato e come percettore di una pensione governativa, da ex combattente, che gli verrà poi tolta in applicazione della legislazione antiebraica. Le altre componenti rimaste nella famiglia sono mamma Marietta e zia Dolcina. Il foglio sarà tenuto attivo anche dopo la morte della due donne, perché la morte di Giacomo non sarà mai certificata. Requisita la casa da parte degli occupanti nazisti, non è noto dove esse si siano nascoste e come siano vissute nei pochi mesi successivi.
In ottemperanza alla normativa nazionale, gli uffici del Comune di Novara ricevevano dalla Prefettura continue sollecitazioni all’aggiornamento sulla presenza ebraica, che avveniva mensilmente e doveva rilevare anche le variazioni avvenute fuori città, per ebrei italiani e stranieri che comunque risiedevano a Novara. L’aggiornamento continua fino al marzo 1945 con una nota laconica che non riporta variazioni rispetto al mese precedente. In questi rapporti viene così registrata la nascita a Cocconato dell’ultima figlia della famiglia Toscano, Fabrizia, nel settembre 1943, mentre ovviamente nei mesi successivi non si dà alcuna notizia della scomparsa di Jona, Diena e Kaatz. Le variazioni mensili riguardano spesso ebrei stranieri, o decessi e arrivi di ebrei all’Ospedale maggiore e all’ospedale psichiatrico, dove nel settembre 1943 c’è un consistente numero di pazienti provenienti da Villa Turro a Milano[10], colpita dai bombardamenti. Spesso però, sia l’Ospedale maggiore che lo psichiatrico registravano appositamente gli ingressi in modo incompleto. Ospedali, manicomi e istituti per anziani erano luoghi dove più facilmente si potevano nascondere le persone, ma, se qui avessero trovato protezione le due anziane sorelle Jona, certamente sarebbe stato inopportuno registrare la loro presenza, visti i fatti del 19 settembre, anche se una circolare ministeriale del 10 dicembre 1943 esentava dall’arresto i malati gravi e gli anziani ultrasettantenni.
Giacomo Diena: la prima guerra mondiale, le leggi del 1938-39, la discriminazione mancata
Nel clima di partecipazione alle vicende italiane e sulla scia di un entusiasmo risorgimentale che lo accomunava a tanti cittadini italiani ebrei che presero parte alla prima guerra mondiale, Giacomo aveva deciso di presentarsi come volontario[11] al Distretto militare di Torino, da cui dipendeva per nascita, ed era stato arruolato come soldato di leva di prima categoria nel 92o reggimento di fanteria il 2 giugno 1915.
Meno di un mese dopo viene ferito gravemente al fianco destro «trattenendo un compagno colto da convulsioni epilettiche» durante un’operazione militare: ferita e trauma che incideranno fortemente sulla sua salute, rendendolo claudicante per tutta la vita. Riceve il distintivo d’onore per mutilati e il relativo brevetto n. 23999 in data 30 marzo 1923, viene assegnato alla quinta categoria nell’esercito e mandato in congedo (iscritto nel ruolo 71 B della forza in congedo presso il Distretto militare di Novara). Giacomo Diena è dunque «autorizzato a fregiarsi della medaglia commemorativa della Grande Guerra e del distintivo d’onore del mutilato»[12]. Percepisce come invalido una pensione di guerra che nel 1938 aveva il valore di 150 lire mensili. Già dal 1920 il suo nome compariva nell’elenco degli invalidi di guerra della città di Novara[13], predisposto dalla Rappresentanza provinciale per la protezione ed assistenza agli invalidi di guerra. Del suo pur breve passato militare va molto fiero e indossa appunto tale distintivo, evidente anche nel ritratto fotografico. Ma, come già detto, questo passato non gli servirà per salvarsi.
Come gli altri familiari, è iscritto alla Comunità israelitica di Vercelli.
Dopo avere svolto la professione di commesso di negozio, il 12 ottobre 1927 viene assunto come impiegato dalla Banca popolare cooperativa di Novara con uno stipendio mensile di 600 lire (valore nel 1938), presso la quale, dopo quasi sedici anni, risulta ancora in servizio al momento dell’arresto[14]. Come è noto, si tratta di una banca con un ruolo fondamentale nella società e nell’economia novarese, evidente anche dai numerosi intrecci tra i ruoli dirigenziali nel Pnf e quelli dell’istituto di credito[15]. Fino al settembre 1943 Diena e gli altri dipendenti ebrei avevano comunque continuato a lavorare; in seguito invece troviamo notizia delle cessazioni dal servizio e delle confische delle competenze dovute ai dipendenti ebrei, effettuate dal Servizio beni ebraici nel 1944[16].
Per quanto riguarda il periodo precedente il settembre del 1943, dall’indagine comunale inviata alla Prefettura nel febbraio del 1939 con parere favorevole alla discriminazione[17], si apprende che l’11 novembre 1931 Diena si era iscritto al Pnf nella Centuria Mutilati: era dunque un cittadino dalla virtuosa condotta politica e morale, a detta delle autorità. La nota del Comune continua con un appunto sulle condizioni economiche del Diena: «Non possiede beni immobili e non dispone di capitali», ma l’anziana madre e la zia materna «dicesi dispongano di qualche capitaletto in denari e titoli di Stato depositati presso Istituti di credito», ricchezze sopravvalutate, come vedremo, e intestate in realtà allo zio Amadio Jona.
Quando l’8 dicembre 1938 in città appaiono i manifesti con l’obbligo di denuncia di appartenenza alla razza ebraica, da effettuarsi entro novanta giorni, Giacomo Diena non aspetta, e già il 16 dicembre, come capofamiglia, firma la lettera di appartenenza alla razza ebraica per sé, per la madre e per la zia, ottenendo poi dal Comune di Novara apposita ricevuta dopo dodici giorni. Non avrebbe certo potuto negare la sua identità (come è noto, un censimento amministrativo dei cittadini ebrei era stato fatto all’insaputa degli interessati già nei mesi precedenti). Gli ingranaggi amministrativi della persecuzione sono molto efficienti e veloci: l’Ufficio anagrafe trasmette la denuncia dei Diena-Jona all’Ufficio di stato civile il 4 gennaio 1939, e da quel momento i loro nomi appaiono in tutti i numerosi elenchi, costantemente aggiornati, di ebrei residenti in città, predisposti dal Comune per obbligo di legge, poi trasmessi a Prefettura, Questura e al Centro di mobilitazione dell’Ufficio politico investigativo della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che continuano a richiamare i comuni al rispetto della normativa razzista fino al 1945. Si tratta di elenchi con molte annotazioni a matita, passati di mano in mano da uffici e funzionari pubblici: calcolare le ore di lavoro dei dipendenti pubblici prodotte dalla legislazione razzista al servizio di persecuzione e sterminio ci porta a riflettere sulle responsabilità italiane, mai del tutto acquisite nella consapevolezza pubblica.
Subito dopo l’autodenuncia, Diena presenta richiesta di discriminazione sulla base dell’art. 14 del regio decreto legge 17 novembre 1938, che alla lettera “b” elencava una serie di categorie per le quali, su documentata richiesta al ministro dell’Interno, non si applicava la normativa antiebraica. Tra queste era previsto il caso di «mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola»[18], e lui si illude quindi di essere protetto.
Il Comune di Novara nel frattempo, «in ottemperanza all’art. 19 della Circolare amministrativa 22 dicembre 1938 XVII N. 9270», aveva trasmesso l’autodenuncia del Diena al Comando del Distretto militare di Novara in data 21 gennaio 1939, e il Distretto militare di Torino provvede ad aggiornare il suo foglio matricolare[19] mediante una carta velina incollata e sovrascritta sulla scheda, con cui si procede alla collocazione del Diena da congedo illimitato a congedo assoluto «perché appartenente a razza ebraica, dal 1 gennaio 1939». Come si vede, tutto procede velocemente, in pochi giorni[20] e, curiosamente, appena sotto il foglio di velina, appare una annotazione precedente con cui si è «concessa dichiarazione di aver tenuto buona condotta e di aver servito con fedeltà e onore» nell’esercito.
Tra i numerosi elenchi di ebrei della Provincia, che allora comprendeva sia Novara che il Verbano-Cusio-Ossola, e del Comune di Novara che sono stati visionati, uno, prodotto dalla Provincia di Novara e riportante in alto il timbro della Questura, è particolarmente interessante, perché precede di un solo anno i fatti del 1943. Si tratta di un duplice elenco[21] abbinato di nomi: la rubrica A, riporta i nomi «degli ebrei e dei nati da matrimonio misto considerati di razza ebraica residenti nella giurisdizione alla data del 31 luglio 1942 XX»; la rubrica B riporta invece i nomi «dei nati da matrimonio misto considerati non appartenenti alla razza ebraica per decisione Ministeriale o per non definita loro posizione da parte del Ministero residenti nella giurisdizione alla data del 31 luglio 1942 XX». La pubblicazione è a stampa (tipografia Miglio di Novara), quindi si era ritenuto necessario produrne diverse copie per fornire i vari uffici che gestivano le politiche razziste. Le due rubriche riportano i soliti dati anagrafici e le professioni, ma rivelano anche altro.
La rubrica A consente di individuare gli estremi degli atti di “discriminazione”, oltre ovviamente a quelli relativi all’«appartenenza alla razza ebraica», o ad altre decisioni ministeriali (sono ad esempio indicati gli ebrei stranieri internati e quelli che hanno presentato l’autodenuncia in altre città). Le due rubriche presentano i nomi in ordine alfabetico nella prima colonna, e come in un moderno file Excel, un’apposita colonna mostra gli incroci con altri ebrei congiunti inseriti nella stessa rubrica, oppure presenti in quella B, in modo che la situazione del gruppo familiare, soprattutto nel caso di famiglie miste, non sfugga di mano.
Allo stesso modo la rubrica B, che apparentemente sembrerebbe essere quella dei “salvati” ma è piuttosto un limbo delle indecisioni, riporta i dati dei congiunti presenti nella A con la relativa parentela e gli eventuali estremi dei certificati di «non appartenenza alla razza ebraica».
Da tali rubriche emerge che gli ebrei presenti nella rubrica A sono 61, 13 dei quali discriminati. Dei 61 registrati, 32 sono residenti a Novara, dove i discriminati sono 7 (il 22 per cento): Diena è registrato con A 26, la madre con A 76 e la zia con A 75. Accanto al nome di Diena non è segnalato nessun decreto di “discriminazione”.
Nella rubrica B i nomi presenti sono 77 per la provincia, di cui 5 discriminati. Tra i 77 nomi, 13 sono di Novara (e tra questi, 3 persone, cioè il 23 per cento, hanno registrato un decreto di «non appartenenza alla razza ebraica»).
Si può anche rilevare che, sebbene gli atti di “discriminazione” si fossero spesso definiti nei primi mesi di applicazione della normativa razzista, molti casi (come quello del Diena) non ebbero risposta, o, nel caso di coppie miste, cominciò un rimpallo tra uffici e richiedenti, sempre più smarriti, alla ricerca di linee di ascendenza, certificati di battesimo, e altri atti, che durò anni e si protrasse in alcuni casi fino alla fine della guerra, con una discussione infinita e cavillosa tra presupposti di razzismo biologico e altri di tipo culturale, che lasciavano spazio anche a fenomeni di concussione.
Nell’analizzare questi dati sulla presenza ebraica, come ufficializzata negli atti amministrativi, occorre anche ricordare che nel 1942 si è ormai lontani dalla situazione del 1938. Per restare al caso di Novara, un precedente elenco predisposto dal Comune, purtroppo non datato, risalente al primo periodo della legislazione antiebraica, riporta una sessantina di nomi, mentre qui, pur sommando quelli presenti in entrambe le rubriche (cosa che di per sé pone problemi nei casi di famiglia mista), si arriva per Novara città a un massimo di quarantacinque nomi (stranieri compresi). Essere in una di queste rubriche rappresentava comunque uno stigma, i matrimoni misti richiamavano l’idea temutissima della contaminazione tra ariani ed ebrei. Ovunque i residenti ebrei sono diminuiti, chi ha potuto, dopo il 1938, è emigrato altrove.
I controlli continuano e si incrementano ancora di più col passare del tempo. A pochi mesi dal rastrellamento del settembre 1943, l’Ufficio politico investigativo della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale di Novara, con una nota del 20 novembre 1942, prot. 1201, riportante in alto a destra la scritta “Riservatissimo”, chiede ai podestà «di voler fornire un elenco completo dei cittadini italiani di razza ebraica attualmente residenti in questa città» e aggiunge: «L’elenco degli ebrei stranieri è già in possesso di questo ufficio, trasmessogli dalla R. Questura».
Dopo il rastrellamento, la presenza ebraica è ormai quasi inesistente. È prova di ciò la rassicurazione che il Comune di Novara invia al prefetto il 17 dicembre 1943[22] sulla requisizione delle opere d’arte di proprietà ebraica: il Comune afferma di avere notificato la disposizione alle «quattro famiglie di ebrei ancora residenti in questo Comune», cioè quelle di Dina Donato, Lunel Clelia, Dei Mazziniano e Dei Ines (tutti nominativi presenti nell’elenco B), perché: «Le altre famiglie o persone ebree, già qui residenti, o si sono trasferite da tempo altrove, o sono state internate dalle Autorità militari germaniche. I loro appartamenti sono stati occupati dalle autorità suddette o da famiglie di razza ariana». Apprendiamo dunque che ci sono stati internamenti, e non solo di ebrei stranieri.
La presenza di questi elenchi a cui fare riferimento nel lavoro amministrativo, e quindi l’abitudine a specificare sempre la razza di ogni cittadino (per avere un’edicola, per fare il militare, per assumere incarichi pubblici professionali, per sposarsi, per insegnare e molto altro ancora) aveva creato una mentalità che considerava tali indicazioni come assolutamente normali. Ancora il 12 settembre 1960 il prefetto di Novara, scrivendo al questore e al comandante dei carabinieri[23], espone le lamentele contenute nella circolare n. 793 del Ministero dell’Interno (8 settembre 1960) sul fatto che «gli Organi di P.S. conservano ancora e utilizzano fascicoli relativi ad informazioni e ad accertamenti compiuti, a suo tempo, in esecuzione dell’abrogato R.D. 17.11.1938 n. 1728, nei confronti di persone di origine ebraica» e continuano a usare espressioni come «di razza ebraica» o «già considerato di razza ebraica». Il prefetto chiede di essere rassicurato che i fascicoli personali di quel periodo siano usati solo per i benefici previsti dalla legge n. 96 del 1955 a favore dei deportati politici e razziali. La necessità di tale circolare ci dice molto del radicamento di abitudini razziste nell’amministrazione pubblica.
Tornando al Diena, e al 1938, come quasi tutti gli ebrei di Novara anche lui, già nel mese di dicembre, chiede la deroga di legge per poter mantenere alle sue dipendenze la domestica ariana che si occupava di sua madre e di sua zia, allegando il certificato medico del dottor Paolo Pietra[24]. Il prefetto autorizza «temporaneamente», chiedendo all’ufficiale sanitario del Comune di Novara di controllare se davvero le due donne necessitassero di assistenza continua. La risposta è positiva e dal gennaio 1939 la domestica ariana può rimanere. Forse questa concessione può avere illuso il Diena su un possibile ammorbidimento delle autorità rispetto alle politiche antiebraiche.
Tra il 1939 e il 1943 non risultano altri documenti che spieghino la ragione della mancata conclusione del provvedimento di “discriminazione” a favore del Diena e nessuna annotazione relativa a iter in corso (presente invece per altri nominativi) risulta su tutti gli elenchi di ebrei visionati. E così, pensando ingenuamente di essere in salvo, quella domenica 19 settembre 1943, il cinquantaseienne Giacomo Diena diventa una facile preda e viene arrestato dalle forze di occupazione tedesca da pochi giorni presenti a Novara, sulla base degli elenchi di ebrei residenti in città forniti dalla Questura. Prelevato dall’abitazione di piazza Sant’Agata con lo zio Amadio, che aveva allora quasi settantanove anni, e lasciando al loro destino la madre e la zia, viene portato insieme ad altri ebrei alle scuole Morandi.
Giorgio Hasenbohler, in una testimonianza del 1983[25], riferisce che suo padre, un industriale di origini svizzere trasferitosi a Novara da tempo, che si esprimeva bene in tedesco, aveva portato beni di conforto in carcere e cercato più volte di intercedere a suo favore presso il Comando germanico[26], venendo infine minacciato di fare la stessa fine degli arrestati. L’industriale conosceva bene i Diena-Jona perché abitava al terzo piano nello stesso edificio in cui loro abitavano al primo. Giorgio Hasenbohler ricorda che i fascisti, all’inizio del 1944, avevano messo nella loro casa una squadra di torturatori, fatto per cui erano seguite altre inutili proteste di suo padre.
Tre giorni dopo, mercoledì 22 settembre 1943, un ufficiale delle Ss si presenta alla Banca popolare di Novara chiedendo di aprire le cassette di sicurezza degli arrestati. Dissuaso, tornerà il giorno successivo, ma la direzione della Banca fa in modo che l’operazione di apertura forzata avvenga alla presenza del notaio Nicolitti, che ne redige verbale[27].
Sulla rapacità apparentemente disordinata di queste razzie (contemporanee alle note stragi sui laghi d’Orta e Maggiore del settembre 1943) e sulle modalità dell’occupazione in questi primi giorni non mi soffermo. Se è vero che sono le Ss i primi carnefici di questa particolare storia, la complicità degli uffici che avevano predisposto la rete di controlli sugli ebrei è tutta italiana. Dal 30 novembre del 1943, come è noto, sarà poi la polizia italiana a occuparsi di arresti e deportazioni. Il rastrellamento novarese avviene in tempi precoci, quando i diversi compiti tra autorità d’occupazione e autorità della Rsi non sono ancora bene stabiliti.
I decreti di confisca dei beni di Giacomo Diena e Amadio Jona sono stati effettuati alcuni mesi dopo, l’11 maggio 1944 (n. 01463) e il 19 maggio 1944 (n. 01498), come risulta dal Servizio Beni ebraici[28] nel suo accertamento eseguito il 31 luglio 1944 relativo ai sequestri effettuati in provincia fino a quel momento. Si segnala che al Diena viene confiscata la somma di 1.536,95 lire, competenze che la banca aveva assegnato all’ex dipendente alla fine del rapporto di lavoro, oltre a qualche titolo e ai mobili (la casa era stata utilizzata dagli occupanti come di consueto durante le requisizioni). Allo zio Jona, dichiarato “benestante”, vengono sequestrati titoli, azioni e un’importante rendita annua. I due non hanno proprietà immobiliari a Novara, ma a Torino, dove Jona risulta residente, la sua casa di via San Martino subisce analoga sorte. Sconcerta il carteggio, presente tra i documenti dell’Egeli, in cui l’amministratore del condominio torinese sollecita più volte le autorità competenti a effettuare quanto di dovere rispetto all’alloggio dell’ebreo Amadio Jona.
Dopo alcuni giorni di detenzione a Novara, Giacomo e Amadio vengono dunque trasferiti alle carceri giudiziarie di Torino nelle quali sono sicuramente presenti almeno dall’11 ottobre 1943 (prima data che risulta nella lettera citata all’inizio) al 1 dicembre 1943. Quest’ultima data è attestata da un altro elenco di ebrei[29] in cui compaiono i nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona, un passaggio di consegne che segna la loro uscita dal carcere di Torino e l’invio alla deportazione. Da controlli incrociati sulle altre persone in elenco con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[30], l’ipotesi più plausibile è che i due detenuti arrestati a Novara siano stati portati a Milano, a San Vittore, in attesa della partenza dal binario 21 per Auschwitz. Dei 19 nomi elencati nella lista, ben 13 risultano partiti col convoglio n. 5 formato a Milano e Verona il 6 dicembre 1943, giunto ad Auschwitz l’11 dicembre 1943. I prigionieri in partenza da Milano erano confluiti al carcere di San Vittore da Torino e da Genova. Un altro deportato della lista torinese risulta invece partito col convoglio n. 6, formato a Milano e Verona il 30 gennaio 1944, giunto ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Quest’ultimo convoglio aveva raccolto prigionieri provenienti da vari centri di raccolta provinciali e dalla frontiera italo-svizzera. Entrambi i convogli, sia il n. 5 che il n. 6, viaggiavano sotto sigla Rsha. Per altri tre deportati della lista torinese, nel volume citato si parla di immatricolazione dubbia e morte in data e luogo ignoti.
Per Diena e Jona, in assenza di documenti definitivi, possiamo quindi solo ragionare per probabilità. Morti in viaggio, oppure giunti a destinazione e poi subito eliminati? Alla Comunità ebraica di Vercelli risulta la lettera del Comitato di ricerche dei deportati ebrei (istituito dall’Unione delle Comunità israelitiche italiane) datata 25 ottobre 1945, nella quale si comunica che fino a quel momento nessuna notizia era giunta sui deportati Giacomo Diena e Amadio Jona. Come già visto, nemmeno Irene Cantoni era riuscita a sapere qualcosa di certo.
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona sono ora presenti su una targa scoperta il 17 gennaio 2019 a Novara a Palazzo Bellini, sede storica della Banca popolare di Novara dove il contabile lavorava[31].
Qualche notizia sulla più sommersa: Bertie Sara Kaatz
Bertie Sara Kaatz è la terza vittima della Shoah nella città di Novara, la meno conosciuta dei tre. A Novara non ci sono targhe o luoghi che ricordino la vicenda di questa giovane donna, ricostruita in “Novara ebraica”[32] qualche anno fa. Aggiungo solo qualche tassello che emerge dalle carte d’archivio, completandone i dati anagrafici nella speranza che anche Bertie sia presto ricordata a Novara. La famiglia Kaatz era arrivata a Novara da Milano, dove aveva presentato nel 1939 denuncia di appartenenza alla razza ebraica e si era stabilita in viale Roma, 8. Nei registri del Comune di Novara che aggiornano la situazione migratoria, nella settimana tra il 17 e il 24 giugno 1942 i nomi di Bertie Kaatz, nata a Breslavia (Polonia) il 26 febbraio 1912, e dei suoi genitori Ludwig Kaatz, nato a Schwerzen (Germania) nel 1878, e Augusta Oppler, nata a Pleschen (Polonia) nel 1878, risultano tra i richiedenti residenza stabile a Novara. Ludwig è indicato come «senza occupazione». Per tutti e tre si precisa che sono di razza ebraica. Nella rubrica A[33] realizzata dalla Provincia di Novara sugli ebrei presenti in provincia, di cui si è detto sopra, risalente al luglio 1942, i componenti della famiglia Kaatz sono invece registrati come apolidi e benestanti. Evidentemente erano giunti in Italia per sfuggire alle persecuzioni in Polonia e forse con l’intenzione di emigrare negli Stati Uniti, dove viveva il fratello. Così sostiene Sandra Taccola[34], nipote di Margherita Rho, la portinaia del palazzo in cui abitavano. Sandra ricorda la madre di Bertie sulla sedia a rotelle, molto ammalata, e dalla nonna le furono negli anni seguenti raccontate le preoccupazioni di Bertie, che voleva trovarle una sistemazione e non partiva per questo. Essendo ebrei stranieri, avrebbero potuto essere individuati per l’internamento e, anche se ciò non accadde, è evidente il clima di paura in cui la famiglia viveva. Tutti e tre erano iscritti alla Comunità israelitica di Vercelli.
Un’altra volta, prima dell’arresto, nel palazzo erano stati fatti dei sopralluoghi da parte dei fascisti, ma i Kaatz si erano nascosti in casa della portinaia ed erano sfuggiti ai controlli; il 19 settembre invece tutta la famiglia viene arrestata. Bertie non tornerà più.
Seguirà lo stesso percorso di Giacomo Diena e di Amadio Jona, prima alle carceri giudiziarie di Torino, dove è detenuta insieme ad altre undici donne ebree arrestate nel Torinese, nel Vercellese e a Genova nel settembre e ottobre 1943, poi trasferita al carcere di Milano, come risulta dall’elenco datato 1 dicembre 1943 predisposto per il passaggio di consegna delle detenute dal carcere giudiziario di Torino[35] a quello milanese di San Vittore. Anche in questo caso, dai controlli incrociati sulle altre donne in elenco (dieci su dodici erano cittadine italiane), con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[36] e con le banche dati già citate, si può concludere che molto probabilmente anche Bertie sia partita da Milano per Auschwitz il 6 dicembre 1943, col convoglio n. 5, giunto a destinazione l’11 dicembre 1943. Poi, la fine.
Di certo per i genitori la situazione precipita, nonostante trovino ospitalità presso la casa di cura dell’Ospedale maggiore e alcune persone rimangano loro vicine. La portinaia Margherita sarà presente al seppellimento di Augusta Oppler il 10 dicembre 1943 al cimitero di Novara[37], insieme a Ludwig Kaatz, il quale morirà poi nell’ottobre successivo. I genitori di Bertie non furono comunque sepolti nel cimitero ebraico. Così come per Diena, il foglio di famiglia del Comune di Novara intestato ai Kaatz continuerà a rimanere attivo, come se Bertie fosse ancora viva anzi, dopo la morte di Ludwig e Augusta, è lei ad apparire intestataria del foglio stesso.
La triste vicenda di questa famiglia è emersa grazie a un carteggio postbellico tra Comunità israelitica di Vercelli e Istituto bancario San Paolo di Torino, che tentavano di prendere contatti col fratello di Bertie, Alexander Kaatz, che era stato in Italia al seguito delle truppe americane. Occorreva infatti restituirgli, in qualità di erede, i beni confiscati in precedenza alla famiglia. Il nome di Ludwig Kaatz risulta anche, appena dopo la Liberazione, in una nota[38] che il Comando dell’amministrazione alleata a Novara invia al prefetto Fornara il 21 maggio 1945, affinché vengano restituiti al più presto, agli ebrei elencati, i beni confiscati nel periodo nazifascista.
Come si vede, una lunga e terribile storia di elenchi.
Note
[*] ⇑ Devo ringraziare per la collaborazione a queste ricerche Rossella Bottini Treves, presidente della Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco; Paolo Cirri, della Fondazione Bpn per il territorio; Chiara Mangione, Giuseppe Cantoni, Sandra Taccola, Gianni Galli, l’Archivio di Stato di Novara.
[1] ⇑ Il nome di Giacomo Diena risulta sulla lapide commemorativa presente al cimitero ebraico di Vercelli; su quella del tempio ebraico appaiono i nomi di Amadio Jona e Giacomo Diena; solo recentemente (gennaio 2019) una targa con entrambi i nomi è stata apposta a Novara nel cortile interno della Banca popolare di Novara, nella sede storica di Palazzo Tornielli Bellini. I due nomi, presentati come vittime della Shoah in Italia, e dati come uccisi lo stesso giorno dell’arresto, compaiono in diverse fonti, tra cui Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), ricerca della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano, Mursia, 2a ed., 2002, e www.nomidellashoah.it, mentre l’ipotesi di una loro deportazione è già contemplata nella documentazione della Comunità ebraica di Vercelli, nelle ricerche di Gisa Magenes (“Fogli sensibili”, n. 3, ottobre-dicembre 1994), che data la morte del Diena in Germania al 1 novembre 1943, nella testimonianza di Giorgio Hasenbohler (“Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983) e in www.ushmm.org. Le ricerche successive contemplano entrambe le ipotesi. In ambito vercellese, sono anche ricordati da Alberto Lovatto in Deportazione memoria comunità. Vercellesi, biellesi e valsesiani nei lager nazisti, Milano, Franco Angeli, 1998.
[2] ⇑ La ricostruzione della vicenda di Bertie Sara Kaatz, iscritta alla Comunità israelitica di Vercelli, si trova in Rossella Bottini Treves – Lalla Negri, Novara ebraica. La presenza ebraica nel novarese dal Quattrocento all’età contemporanea, Novara, sn, 2005, pp. 86-93.
[3] ⇑ I documenti dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare dei beni ebraici espropriati a seguito delle leggi antiebraiche del 1938 sono conservati nell’Archivio storico Intesa Sanpaolo.
[4] ⇑ Archivio privato famiglia Cantoni, Alzano Lombardo (Bg), e Archivio privato famiglia Luca e Marcella Moia, Novara.
[5] ⇑ Giuseppe Cantoni, conversazioni del 23 maggio 2014 e del 24 gennaio 2016; Sandra Taccola, conversazione del 21 febbraio 2019.
[6] ⇑ L. Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1945, Torino, Einaudi, 2017, pp. 267-280.
[7] ⇑ R. Bottini Treves – L. Negri, op. cit., pp. 94-97.
[8] ⇑ Il motivo per cui Amadio Jona non si trova in nessun elenco di ebrei novaresi è dovuto al fatto che, dopo essere rimasto vedovo, aveva spostato la sua residenza da Novara a Torino, in una casa di proprietà in via San Martino, 10, come emerge dal fascicolo a lui intestato (Jona, Amadio, segnatura: 181 TO – GES 372 736) presente nel fondo Egeli già citato.
[9] ⇑ Le notizie biografiche riportate provengono dai Fogli di famiglia intestati a Jona Amadio, Saulle Diena e poi Giacomo Diena, Archivio di Stato di Novara (d’ora in poi Asn), fondo Comune di Novara, parte III, Anagrafe, cassetta VIII, Foglio di famiglia n. 2120; fondo Comune di Novara parte antica, Reg. 64, Fogli di famiglia n. 9610; fondo Comune di Novara, bb. 1395 e 1396 sulla popolazione novarese, b. 1398, con i fascicoli nominativi degli ebrei residenti a Novara; fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.
[10] ⇑ Asn, fondo Ospedale psichiatrico, registri d’ingresso uomini e donne per gli anni di riferimento.
[11] ⇑ Archivio di Stato di Torino, Ruoli matricolari del Distretto militare di Torino, Ruolo matricolare di Giacomo Diena, classe 1887, registro 138, matricola 37584 bis.
[12] ⇑ Molte informazioni biografiche provengono dalla relazione predisposta dal Comune di Novara e inviata dal podestà al prefetto (prot. 1726 del 2 febbraio 1939) per dare parere favorevole alla discriminazione richiesta dal Diena.
[13] ⇑ Asn, fondo Comune di Novara, parte III, b. 1395.
[14] ⇑ Non è stato finora possibile controllare se esiste ancora il fascicolo personale di Giacomo Diena negli archivi della Banca popolare di Novara, al momento non disponibili e in fase di riorganizzazione dopo l’ingresso in Banco popolare di Milano.
[15] ⇑ Per questi aspetti, per la polemica tra Ezio Maria Gray e Aldo Rossini e per la normalizzazione della società novarese, si rimanda alle pp. 69-87 di Adolfo Mignemi, Caratteri del fascismo novarese, in Novara fa da sé. Atti del convegno di Belgirate 1993, Novara, Provincia di Novara-Isrn, 1999.
[16] ⇑ Asn, fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 189, Beni ebraici confiscati. In questi elenchi, accertamento delle confische di beni ebraici mobiliari e immobiliari al 31 luglio 1944, compaiono come dipendenti o ex dipendenti della Banca popolare di Novara, oltre a Giacomo Diena, anche Giordano Bruno Campos, Guido De Angeli, Camillo Ottolenghi.
[17] ⇑ Si veda la nota 13.
[18] ⇑ Regio decreto legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1798, “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”.
[19] ⇑ Si veda la nota 11.
[20] ⇑ Ciò avviene in applicazione dell’art. 15 del Rd 2111 del 22 dicembre 1938 e della circolare applicativa dell’anno successivo.
[21] ⇑ Asn, fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 426.
[22] ⇑ Asn, fondo Comune di Novara, parte III, b. 1398.
[23] ⇑ Asn, fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 379.
[24] ⇑ Diversi medici operano in tal senso a favore di queste richieste, certificando le necessità di varie famiglie: ricordiamo, oltre al dottor Pietra già citato, anche i professori Lupo e Lampugnani e i dottori Caccianotti, Cantoni, Baroffio, Viana (Asn, fondo Comune di Novara, b. 1398).
[25] ⇑ Si veda la nota 1, articolo ne “Il Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983.
[26] ⇑ Si vedano Carlo Gentile, Settembre 1943. Documenti sull’attività della Divisione Leibstandarte SS Adolf Hitler in Piemonte, in “Il presente e la storia”, n. 47, 1995, pp. 75-130, e i recenti studi dello studioso svizzero Raphael Rues.
[27] ⇑ R.G.N.N. 24.016 del 1 ottobre 1943.
[28] ⇑ Si veda la nota 16.
[29] ⇑ Dell’elenco, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[30] ⇑ L. Picciotto, Il libro della memoria, cit. Oltre ai nomi dei deportati, il libro contiene l’elenco dei trasporti alle p. 44 e seguenti.
[31] ⇑ La targa è nata dalla collaborazione tra Bpn, Cral e associazione “Noi della Bpn”, Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco, Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola “Piero Fornara”.
[32] ⇑ Si veda la nota 2.
[33] ⇑ Si veda la nota 21.
[34] ⇑ Si veda la nota 5.
[35] ⇑ Anche di questo elenco di prigioniere, analogo a quello di Diena e Jona per i detenuti maschi, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[36] ⇑ Si veda la nota 30.
[37] ⇑ Comune di Novara, Archivio del Cimitero, Registri dei seppellimenti, 1943 e 1944.
[38] ⇑ Asn, fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.