Intervista a Giovanna Michelone

Marta Nicolo (a cura di)[*]

articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXIII, n. s., n. 1, giugno 2013

 

Mi chiamo Giovanna Michelone, abito a Vercelli e sono nata il 24 marzo del 1927.
A quindici anni ho iniziato a lavorare alla Châtillon, dove da anni lavorava anche mio padre. Mio padre in fabbrica frequentava un gruppo di uomini che avevano conosciuto
il confino ed erano stati in prigione. Questi uomini venivano spesso a casa mia, però mio padre non li faceva entrare in casa: loro venivano, bussavano alla porta, mio padre usciva, bisbigliavano qualcosa tra loro poi mio papà lasciava che si allontanassero per poi prendere la giacca e seguirli. Io non sapevo dove andavano e cosa facevano, ero giovane e lui cercava di tenere la famiglia lontana da queste cose, forse per proteggerci. Gli incontri diventavano sempre più frequenti e a volte ritardava, veniva a casa tardi e mia mamma si preoccupava e la sentivo dire: «Ah, sta’ a vedere che questa volta l’hanno preso, questa volta l’hanno messo dentro, sta’ a vedere che non ritorna più».
Io ne soffrivo tantissimo e avevo paura per mio padre. Così un giorno decisi di andare nel reparto dove lavorava alla Châtillon per vedere chi erano questi uomini. Mi presi la “mezz’ora” e rasentando i muri per non farmi vedere lasciai il mio reparto. Raggiunto quello di mio padre, entrai nella camera dove questi uomini stavano trascorrendo la loro mezz’ora di riposo. Li guardai in silenzio e mi accorsi che stavano studiando un sistema per coinvolgere gli operai e organizzare uno sciopero per il mese di marzo, era il ’43.
Mi accorsi subito che erano ben organizzati e con compiti ben divisi. Tra di loro: Mimi Facelli (il sorvegliato speciale), Carlo Bernabino, Sandro Rigolino, Nino Baltaro, Enrico Casolaro (che noi comunemente chiamavamo il Riccu), Vittore Domiglio, Giuseppe Rosso e mio padre. Il gruppo scoprii poi che aveva anche uomini fuori come Carlo Cerruti, Giovanni Celoria, il geometra Maceraudi e l’avvocato Patoja, un antifascista che si interessava di tenere i contatti con la Camera del commercio e con la mutua. Poi c’erano i
contatti anche nei paesi, con il Biellese, con Trino Vercellese, Gattinara, e a Rive, nei paesi qui limitrofi alla città di Vercelli. Perché loro, tutti i vecchi antifascisti, tutti gli uomini che prima della nascita del fascismo erano nelle cooperative, nelle case del popolo, loro non si son mai persi di vista. È per quello che dico che nella fabbrica noi la Resistenza non è che l’abbiamo cominciata nel ’43, dopo l’8 settembre, ma da sempre grazie a questa organizzazione.
Riuscirono a organizzare lo sciopero del ’43. Non fu uno sciopero classico, cioè non uscimmo fuori dallo stabilimento, ma ci adoperammo per un sabotaggio all’interno dello stabilimento fermando i reparti. I reparti erano tutti legati a catena, se se ne bloccava uno, automaticamente si fermava l’intera produzione. Bloccammo così prima l’aspatura, poi il reparto della torcitura, delle rocche e così via. Uscimmo fuori in cortile mentre la direzione ci incitava a ritornare ai nostri posti di lavoro. Noi operai allora avevamo il blocco della paga ed eravamo pagati proprio poco. Ricordo che io prendevo 0,75 lire all’ora mentre gli uomini ne prendevano tre. Insomma, le paghe erano proprio minime, minime, minime. Grazie allo sciopero riuscimmo ad ottenere una paga superiore. Qualcosa in più, non tanto, ma qualche centesimo in più riuscimmo a ottenerlo.
Poi l’organizzazione interna di questo gruppi di uomini continuò e si riunirono sempre più frequentemente perché volevano fondare un partito o meglio un fronte della libertà. So che dopo il 25 luglio si trovarono ancora e intensificarono queste riunioni sotto la torre dei Tizzoni. E ricordo che riuscirono a prendere contatto con Biella e con Torino. […]
Poi venne l’8 settembre e ricordo che ero in fabbrica e vennero gli uomini nel reparto e ci invitarono a uscire perché era finita la guerra e Badoglio aveva firmato l’armistizio. Ci fu una fiumana, si riversavano tutti, un vero e proprio serpentone per le vie della città. Andammo tutti verso piazza Cavour e ricordo che dissi tra me e me: «Ma cosa stiamo a fare adesso qui? Nessuno parla, nessuno dice niente».
Poi vedemmo che davanti alla prefettura c’era un gran fermento. Tre operai erano entrati a parlare col prefetto perché volevano chiedere la liberazione di Francesco Leone e anche delle armi per combattere contro i tedeschi ed eventualmente difendere la città. Questi tre operai erano Giovanni Michelone (mio padre), Carlo Bernabino e Mimi Facelli. Non ebbero però grandi risposte. Fu una giornata molto intensa che ci caricò di alte aspettative.

Dal giorno dopo iniziammo a organizzarci. Carlo Bernabino si diede da fare per coordinare le donne nello stabilimento. Ricordo che mi chiese se volevo e se me la sentivo di entrare nella Resistenza. Io appena sentii quella parola gli risposi: «Sì sì, si immagini, senz’altro!».
A Vercelli Angelo Cavalli, un impiegato del Credito italiano, era responsabile della stampa clandestina e si interessava a tutto lui. Noi avevamo una macchina con cui si ciclostilavano manifestini e il mio primo incarico fu proprio quello. Il primo giorno ricordo che venne a prendermi Carlo Bernabino e mi portò al camposanto per presentarmi ad un gruppo di persone: Bianca Grasso, Olga De Bianchi, Maria Scarparo e l’architetto Guido. Fu lui che ci istruì e che ci disse di cosa avevano bisogno i partigiani. Ci parlò francamente dei pericoli a cui andavamo incontro e quali sarebbero diventati i nostri compiti. Fu la nostra prima riunione, lì al camposanto.
In principio io conoscevo solo il gruppo della Châtillon ma poi, man mano che passò il tempo, presi contatto con altre ragazze. Avevamo diviso la città virtualmente in quattro angoli. Io mi interessavo della fabbrica, di corso Palestro e di Porta Casale.
Nel frattempo nelle fabbriche i tedeschi intensificarono la lavorazione. Ricordo che volevano che producessimo di più, sempre di più. Ci furono anche problemi con le materie prime che non erano più buone, e in fabbrica avevamo le mani sempre più rovinate, tutte con dei problemi di pelle. E ricordo che ci facevano fare anche le docce perché ci obbligavano a lavarci e a metterci in ordine per evitare che ci contagiassimo perché l’acido solforico che c’era in fabbrica e che veniva adoperato per la lavorazione era scadente
e procurava problemi per la salute degli operai.
Il Cln e gli operai della Châtillon ci dissero di sabotare un po’ la lavorazione, di non fare tutto questo sforzo di produzione, perché dicevano che il nostro filato andava a finire in Germania e veniva adoperato per fare i paracadute degli aviatori. Mi chiesero se potevamo bloccare la lavorazione. Mi misi d’accordo con le ragazze del reparto per tentare di far qualcosa insieme ma fu impossibile. In un primo momento erano sembrate tutte entusiaste poi quando fu l’ora di fermare le macchine ci ritrovammo solo in cinque. Il caporeparto, Rodelli, che era uno squadrista di prim’ordine, mi riprese e mi denunciò alla questura. Mi diedero tre giorni di sospensione. Tre giorni di sospensione allora erano una quindicina di centesimi, fu dura, proprio dura.
Qualche tempo dopo mi proposero di sostituire Maria Malinverni. Malinverni era la compagna di Nino Baltaro e faceva la staffetta. Cercavano sempre di far ruotare le staffette perché poteva suscitare sospetti vedere sempre la stessa donna che superava i posti di blocco. Accettai e inizialmente mi affiancarono a lei per imparare. Lasciavamo la bicicletta in una trattoria dopo Biella e andavamo su a San Sudario alla cascina Zona in val del Molino. Ci incontravamo con il comando di “Primula”, la 182a brigata dove Nino Baltaro era il commissario politico e Ugo Anselmo il vicecommissario di Primula. Quando io presi un po’ di conoscenza della zona, Maria Malinverni si fermò in montagna con Nino e io iniziai ad andare su da sola.
Intanto a Vercelli presi dei contatti con dei ragazzi perché volevamo fondare il Fronte della gioventù. Ricordo che veniva giù una ragazza di Torino che si chiamava Anna Cinanni, nome di battaglia era “Cecilia”, lei era un’organizzatrice. Tra di loro anche Ugo Donati, Sergio Mauri, Ugo Anselmo e Nino Luparia, tutti studenti universitari. Io amavo stare con questi ragazzi perché avevano un modo critico di analizzare la politica. Andavamo fuori, in campagna, la domenica pomeriggio, come fossimo un gruppo di amici. Con noi anche Luigina Fracasso che poi sposò il Nino Luparia. Leggevamo insieme “l’Unità”, “Il Partigiano”, “Il pugno” e “Baita”. Ecco, ricordo che con loro si faceva proprio l’ora politica. E a noi che fino allora avevamo sempre e solo sentito a scuola gli imperativi credere, ubbidire, combattere, ci aprivano la mente. Noi non avevamo mai avuto a scuola la possibilità di discutere e confrontarci. A noi ragazzi era stato impedito. La guerra e Mussolini in qualche modo ha impedito alla mia generazione di vivere la gioventù, ce l’hanno rubata. Anche le piccole cose, come quando a mezzanotte uscivamo dal lavoro ed eravamo costretti a fare la strada più breve e anche se avessimo voluto fermarci a prendere una boccata d’aria e scambiarci due parole tra di noi non avremmo potuto. Dovevamo rientrare in fretta perché se ci prendeva la ronda su una strada diversa da quella giusta per arrivare a casa erano grane. E ricordo che ci saremmo fermate, avremmo voluto fermarci volentieri, magari su una panchina di corso Palestro con quegli alberi secolari che erano
una meraviglia.
Una sera di settembre erano le due di notte, sentimmo un gran vociare in cortile e delle voci chiamavano il nome di mio padre. Vennero in casa e lo portarono via. Ricordo che come lui uscì di casa una signora di Milano, che era sfollata lì, venne a casa nostra e ci aiutò bruciare tutti i documenti di mio padre. Il giorno dopo mia mamma preparò un po’ di biancheria per mio padre e mi disse di portarla ai carabinieri. Quando tornai in fabbrica i compagni di mio padre si avvicinarono a me e mi dissero che saremmo dovuti andare
via di casa anche noi. Andammo a Rive, il paese del mio nonno paterno. Mio padre fu messo in prigione ma gli andò bene. Perché la notte che fecero la retata portarono via oltre lui diverse personalità di Vercelli. Uomini che in certo qual modo avevano una posizione in città. Il Cln quindi organizzò una spedizione da Milano e riuscirono a farli liberare tutti e tra questi anche mio padre, l’unico operaio. […]
A Natale gli uomini ci chiesero di fare un ultimo sforzo. Dovevamo mandare su della roba ai partigiani. Ci demmo veramente da fare. Le donne del mio cortile si misero a disfare le maglie vecchie per fare guanti e sciarpe e mandammo su un sacco di roba.
Nel mese di febbraio ci fu la disgrazia a Sala Biellese, dove rimase ucciso il Primula. Fu un enorme dispiacere. Ci sentimmo improvvisamente tutti un po’ orfani.
[…] Poi venne il 25 aprile e dire che fu una gioia è dire niente. È stata un’esplosione proprio. Eravamo tutti fuori, le mamme, tutte che si abbracciavano. Ma la cosa che più mi è rimasta impressa è stata l’illuminazione, è stata bella la Liberazione, è stata una gioia immensa. Ma quando dopo un po’ di giorni hanno illuminato la città, per la prima volta dopo cinque anni a me non pareva vero, mi pareva il sole, come se ci fosse il sole in città. Dopo cinque anni di oscuramento quasi c’eravamo dimenticati come questa città poteva essere di notte. E quando l’hanno illuminata abbiamo preso tutte le biciclette noi giovani, abbiamo fatto il giro per la città, non finivamo più di girare, per vederla, per ammirarla.
Non ci pareva vero di ritrovare la luce.


Note

[*] L’intervista qui pubblicata è uno stralcio tratto dalla più ampia videointervista raccolta da Marta Nicolo ed Enrico Pagano a Vercelli il 25 maggio 2012, nell’ambito del progetto “Memorie di Piemonte”.

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