Laura Manione (a cura di)
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXVI, n. s., n. 2, dicembre 2006
Nel 1946 la storia “alta” intersecò fatalmente i piani su cui si svilupparono le vicende locali. Defluendo, come in un sistema di vasi comunicanti, gli effetti degli avvenimenti che scombinarono l’Italia per poi restituirle un nuovo assetto debordarono dai grandi centri per ricadere sulla provincia, equilibrando peculiarità territoriali e caratteri nazionali.
In ambito fotografico si innescò un processo simile: gli echi della complessa riflessione sviluppatasi nelle principali città italiane, intorno al recupero del realismo come elemento fondante l’immagine, furono percepiti e interpretati con chiarezza anche nei centri minori.
Così, mentre Federico Patellani, grazie alla sua ricerca, realizzava “Napoli” e “Baracche di Baggio”, Luigi Crocenzi – prediligendo la forma del fotoracconto – pubblicava in “Politecnico” di Vittorini la sequenza “Occhio su Milano”, Luciano Giachetti e Adriano Ferraris – adottando i modelli del fotogiornalismo – registravano e diffondevano le loro cronache vercellesi. Tre esempi estrapolati dal contesto italiano, in cui la refrattarietà all’estetizzazione o all’enfatizzazione retorica dell’immagine, assieme alla sperimentazione di un linguaggio finalmente esente da prescrizioni dittatoriali, concorsero – pur con evidenti diversità di caratura – a ripristinare nel Paese la funzione civile della fotografia.
Questa nuova stagione, destinata a una lunga durata, favorì temi tratti da un contesto spesso contrassegnato dal dramma della povertà, dalle lacerazioni provocate dalla guerra o dalla fatica della ricostruzione, ma squarciato a volte da eclatanti manifestazioni di speranza o straordinari abbandoni alla leggerezza. Nello specifico, i Fotocronisti Baita seppero inquadrare con acutezza le varie componenti di una città che era chiamata al proprio riassetto amministrativo, alla grande svolta politica e referendaria, a un lento reinserimento nel mondo del lavoro, al desiderio corale di sostituire la disillusione con l’aspettativa.
Esaminando il materiale scattato nel ’46, occorre fare una distinzione tra gli scatti dedicati alla vita istituzionale e amministrativa e quelli rivolti a un’ampia descrizione della società; nel primo caso – complice la committenza giornalistica rappresentata principalmente da “L’amico del popolo” – vi è difformità quantitativa tra i servizi fotografici collegati alla sinistra e quelli riguardanti le restanti forze di governo. È comunque necessario sottolineare che, al di là delle ragioni determinate dall’affidamento degli incarichi, sullo sbilanciamento politico dei fotocronisti pesò l’esperienza partigiana vissuta nelle brigate “Garibaldi”, di ispirazione comunista; basti pensare che, fino al 1948, anno in cui si interruppe il sodalizio fra i due, Giachetti e Ferraris timbrarono le loro fotografie con i nomi di battaglia “Lucien” e “Musik”. Nelle fotografie di comizi affollati, di manifesto consenso, di personaggi passati dalla clandestinità alla vita pubblica, fino a quelle scattate per educare i vercellesi al gesto del votare, si ravvisa – e si legittima, in fondo – il compiacimento dei due giovani fotocronisti nel rintracciare gli esiti concreti della lotta anche ideologica sostenuta durante la Resistenza.
Ciò premesso, è proprio al materiale politico che, nella mostra realizzata dall’Archivio fotografico Luciano Giachetti – Fotocronisti Baita e dall’Istituto, con la partecipazione del Comitato della Regione Piemonte per l’affermazione dei valori della Resistenza e dei principi della Costituzione repubblicana e nel relativo catalogo[1], viene affidato il compito di introdurre e in parte svolgere il significato sostanziale del titolo. Percorrendo l’intera sezione, costituita da una nutrita sequenza di immagini (di cui qui si pubblica una selezione)[2], si percepiscono – attraverso l’analisi degli approcci fotografici ai soggetti – le profonde mutazioni intervenute nei rapporti sociali a un solo anno dal termine del secondo conflitto mondiale. A cominciare dagli scatti eseguiti ai personaggi politici durante i comizi, dove – per effetto delle nuove pulsioni realiste – alle “apparenze congelate” di stampo retorico-fascista si sostituirono visi fissati a distanza ravvicinata nei momenti di maggiore trasporto e mobilità; istantanee in cui risultò possibile – come scriveva Gombrich – “fare astrazione dal movimento e tuttavia produrre un’immagine convincente non solo della maschera, ma anche della faccia, dell’espressione viva”[3].
E la stessa vivacità la si rintraccia moltiplicata all’infinito nei volti e nelle posture spontanee della gente che affollava le piazze, ma si intuisce pure in chi sta dietro all’obiettivo quando – per citare un esempio – con uno scatto liberamente irrisorio trasformava l’affissione di un manifesto propagandistico in uno sberleffo triviale alla monarchia.
Nell’anno della Repubblica, queste sono le immagini che ne segnarono il concepimento, ancor prima che la nascita effettiva; attestarono visivamente i principi di democrazia e partecipazione collettiva a cui si ispira la Costituzione; prestarono la grammatica fotografica alle comunicazione di nuovi concetti.
Di una completezza eccezionale, rispetto ai limiti rilevati in precedenza, il materiale che tratteggia il profilo sociale della città e del suo territorio.
In questo vasto ed eterogeneo insieme, il nucleo più importante è rappresentato dalle fotografie di lavoro: la ripresa delle attività produttive dopo la tragica parentesi bellica spinse i fotografi a intraprendere una vera e propria ricognizione delle realtà occupazionali vercellesi. A tale proposito, su tutte, vanno ricordate le ricche sequenze dedicate alle mondariso, lavoratrici che, durante il regime, accumularono un pesante credito con la fotografia. Protagoniste negli anni trenta di coraggiose battaglie contro le riduzioni di salario, figure al tempo stesso incompatibili con la politica di sbracciantizzazione ed essenziali al funzionamento della produzione risicola – incentivata poiché meno costosa dell’importazione del frumento – le mondine comparvero sporadicamente nelle immagini dittatoriali. Il risveglio realista, nel dopoguerra, decretò la loro reintroduzione nel panorama fotografico: Giachetti e Ferraris, proprio a partire dal 1946, le affiancarono per anni, fino alla loro progressiva scomparsa, registrando con rigore – e senza scadere nella facile rappresentazione oleografica – le loro difficili condizioni di vita.
Accanto alle immagini di lavoro, si dispone una lunga teoria di scatti riservati al faticoso ripristino della normalità e al graduale dispiegarsi di un temperamento territoriale imbrigliato dall’omologazione fascista. L’obiettivo dei Fotocronisti Baita esplorò capillarmente la vita dei vercellesi – dal tempo libero allo sport, dalle condizioni esistenziali alle espressioni di fede religiosa – insistendo più sui microeventi generati dalla quotidianità che sulle manifestazioni corali.
Quasi a voler compensare, dopo gli anni terribili appena trascorsi, il frastuono con i toni pacati della conversazione intima, i contorni netti dell’uniformazione con la varietà delle sfumature, l’eccezionalità che scardina con la consuetudine incoraggiante, soffermando lo sguardo su soggetti a cui la fotografia si apprestava a riconsegnare fisionomia e dignità.
Scriveva Zavattini: “Tutto è interessante, a saperlo vedere con quel po’ di emozione, di slancio, che non manca mai quando si capisce che tutto quello che succede non succede invano, ha sempre un peso, una conseguenza, è sempre una manifestazione dei rapporti tra gli uomini e, se non disturba l’espressione grossa, è sempre storia […].
Noi siamo sicuri che con tutte le vostre immagini del Nord o del Sud mattutine o notturne, festose o drammatiche, ci aprirete davanti la nostra penisola come un libro e noi lo sfoglieremo metro per metro, faccia per faccia e ci direte, meglio dei giornali come stanno le cose in Italia”[4].
Note
[1] ⇑Piero Ambrosio – Laura Manione (a cura di), 1946, l’anno della Repubblica. Immagini dei Fotocronisti Baita, Vercelli, Archivio fotografico Luciano Giachetti – Fotocronisti Baita, 2006.
[2] ⇑Tutte le immagini pubblicate furono scattate a Vercelli. © Archivio fotografico Luciano Giachetti – Fotocronisti Baita.
[3] ⇑Ernst. H. Gombrich, La maschera e la faccia. La percezione della fisionomia nella vita e nell’arte, in Ernst. H. Gombrich – Julian Hochberg – Max Black, Arte, percezione e realtà, Torino, Einaudi, 1978.