Claudio Dellavalle
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XVI, n. 2, agosto 1996
Il 2 giugno 1946 gli italiani vengono chiamati a compiere un atto politico fondativo del nuovo sistema politico: l’espressione, attraverso il voto, delle scelte di ordine generale. La partecipazione è molto elevata. Due sono le questioni sul tappeto: la prima riguarda la scelta istituzionale, quale debba essere la forma dello Stato, se una monarchia (quella monarchia) o una repubblica, una forma nuova da inventare e costruire. La risposta è risicata ma non equivoca: vince il desiderio di cambiamento dopo l’esperienza altamente drammatica della guerra.
La seconda questione riguarda la scelta dei rappresentanti che dovranno elaborare la nuova carta costituzionale. In realtà il passaggio è molto più complicato di quanto non appaia, poiché in esso arriva ad una prima conclusione un insieme di problemi che si sono aperti con crescente intensità nel corso della guerra e radicalmente approfonditi con le vicende dell’armistizio l’8 settembre 1943. Perciò i 12 giugno 1946 non solo si sceglie un’assemblea che deve scrivere il testo della Costituzione, ma si definisce il volto del sistema politico legittimando, attraverso l’espressione del consenso popolare, i partiti antifascisti che tale consenso hanno richiesto. Dal voto viene definito il peso che i partiti hanno nella società italiana e i reciproci rapporti nell’arengo politico. Con il voto viene confermata sul piano formale quella centralità che i partiti sono venuti assumendo nel corso della guerra e nel primo dopoguerra.Qui non importa definire le modalità specifiche con cui il processo si realizza; importa piuttosto coglierne i tratti complessivi che possiamo sintetizzare come un processo di politicizzazione della società italiana, quel processo che si era avviato nel primo dopoguerra e che, interrotto o deformato dall’affermazione del fascismo, ora riprende e giunge a compimento.
Dal voto del 2 giugno i partiti, meglio i partiti di massa, vengono “riconosciuti” come le strutture portanti del nuovo sistema politico; di più, tutto il sistema Paese deve ristrutturarsi in funzione della nuova dislocazione del potere, che prima traeva forza e legittimazione dall’istituzione monarchica e che ora trae forza e legittimazione dai partiti, espressione e mediazione della volontà popolare. Non è un passaggio di poco conto poiché accentua il carattere polimorfo del sistema e rende meno visibile e più conflittuale il centro del potere. Rende anche più problematica la definizione dell’unità del Paese, ma nello stesso tempo modernizza il sistema e lo rende adatto ad accogliere i processi di trasformazione che la guerra ha messo in movimento sul piano interno e su quello internazionale.
Il fatto, spesso sottolineato, che i partiti trovino una scarsa definizione all’interno della carta costituzionale deriva dal ruolo fondante dei partiti rispetto al nuovo sistema: essi vengono prima del dettato costituzionale, ne costituiscono il presupposto. Questo dato ha due implicazioni di rilievo: la prima è costituita dal fatto che la piattaforma antifascista, che tiene insieme i partiti, non è solo un denominatore comune che “contiene” le diverse opzioni politiche sulla base di un rifiuto condiviso del fascismo, ma contiene una comune progettualità democratica di cui la Costituzione sarà la forma più alta e compiuta. La seconda è che la classe dirigente filtrata dai partiti e soprattutto da quella straordinaria esperienza costituita dalla lotta clandestina ha un ruolo rilevantissimo nella definizione delle regole della nuova democrazia. Quell’esperienza concorre in modo decisivo a formare un “comune sentire” da cui nasce il testo costituzionale che per cinquant’anni sarà la legge fondamentale in grado di accogliere e contenere le profonde trasformazioni della società italiana.
Non era un esito scontato, come non era scontato che il Paese non venisse travolto da una deriva disgregatrice, dopo il dramma dell’ 8 settembre. Nel corso della guerra e nei mesi immediatamente successivi non erano mancati gravi segnali di una possibile crisi disgregativa dell’unità nazionale, dal separatismo siciliano alle tensioni che attraversano le campagne e le città italiane al Nord, come al Centro e al Sud, alla periferia, e in particolare sul confine orientale, ma anche nelle grandi città, dove tra le macerie sembrava impossibile recuperare una vita normale. Bruciavano le lacerazioni della guerra civile, le divisioni imposte dal fronte di guerra su tutto il territorio, le differenze sociali acuite da livelli di povertà diffusi, le opzioni politiche contrapposte. Riemergevano accanto a quelle create dalle contingenze belliche, differenze più lontane, storiche, di culture e mentalità non ancora superate da percorsi unitari troppo brevi per trasformarsi in processi di integrazione irreversibili. Ad uno sguardo analitico sembravano prevalere le ragioni di differenziazione e di conflitto rispetto a quelle di unità e di tenuta sociale. E, su tutto, il peso di una sconfitta che feriva, per il modo con cui era stata “gestita”, senza dignità e coraggio morale. Pesava, infine, l’impossibilità a richiamarsi ad un passato della nazione che comunque era stato inquinato da istanze autoritarie e dall’esperienza del fascismo, fatto responsabile delle macerie materiali e morali della guerra.
E tuttavia il Paese non si arrende alle molte ragioni della crisi e della frammentazione, ma reagisce con uno straordinario scatto di vitalità che ha due spinte di fondo: quella di un organismo che non vuole cedere ai pericoli che lo insidiano e che si butta nell’opera di ricostruzione, quasi per esorcizzare un passato da cui ritiene di non avere più nulla da recuperare. È un vitalismo cieco, ma efficace, senza un progetto consapevole che non sia l’allontanarsi dal disagio e dal bisogno al di fuori di ogni controllo che ne rallenti la spinta. Qui insiste in nuce quella forma di liberismo privatistico che la classe dirigente economica perseguirà nei fatti e nei comportamenti più che nelle dichiarazioni programmatiche e nelle teorizzazioni accademiche, ma che trova consenso e consonanze nei comportamenti di larghi strati di ceti medi urbani e rurali e, a un livello più basso, negli strati più poveri della popolazione.
L’altra spinta viene invece dagli strati più politicizzati del mondo del lavoro dipendente (operai, tecnici, braccianti, mezzadri) e della cultura, che non senza tensioni, ma anche senza fratture significative, assumono la ricostruzione come un obiettivo proprio, dentro una strategia che coniuga rinascita nazionale a obiettivi di emancipazione sociale. Non era mai successo nella storia dell’Italia unitaria, se non nelle forzature retorico-autoritarie del regime fascista, che le “classi subalterne” venissero chiamate dalle proprie strutture politiche di riferimento (partiti e sindacato) ad assumere responsabilità rispetto ai fini generali della nazione, pagando un prezzo non irrilevante in termini di vantaggi immediati, ma rispondendo in termini sostanzialmente positivi all’esigenza primaria della ricostruzione.
Questo punto, che è stato oggetto di lunghe discussioni ed analisi sotto il profilo delle coerenze interne del movimento operaio italiano, e stato invece poco valutato in termini di riflessi nell’impianto della democrazia e del dettato costituzionale, così
come i movimenti interni alla società italiana, lungo gli assi a cui sopra si accennava, sono stati poco considerati perché presto travolti dalla contrapposizione comunismo-anticomunismo che ha irrigidito gli schemi di lettura della società del dopoguerra. Viceversa ci pare questo un punto di vista irrinunciabile in cui insistono le ragioni dell’impianto costituzionale così come si è venuto configurando nell’elaborazione della Costituente, se è vero, come è vero, che la parte più originale della Costituzione riguarda proprio la presenza di quelli che per brevità chiamiamo i diritti sociali. La presenza di questi diritti, e comunque di un’attenzione alla società civile, rappresenta l’elemento di innovazione rispetto allo Statuto albertino e più in generale rispetto ad una concezione della Costituzione quale era stata elaborata dal pensiero e dalla tradizione liberale. Questa concezione, mentre salvaguardava i diritti dell’individuo, restringeva l’intervento dello Stato a poche funzioni, risolvendosi la società civile nei comportamenti dei singoli da sottrarre all’intervento dello Stato. In realtà la società civile coincide con le élites che detengono il potere, qualunque tipo di potere in una società semplificata in cui i diritti di cittadinanza sono fortemente limitati dalle barriere di censo e di cultura. Per sintetizzare uno Stato semplice per una società semplice, o meglio semplificata. Il problema dell’allargamento della cittadinanza, che è il tormento principale dello scorso secolo e che si riverbera nei furori ideologici e nei drammi delle guerre mondiali del nostro secolo, comporta un’apertura nei confronti della società civile che lo Stato liberale non può contenere perché implica una torsione troppo forte dei principi fondanti la stessa concezione dello Stato. Sarà necessaria la contaminazione di altre linee di pensiero e di esperienze storiche conflittuali e drammatiche perché il principio di eguaglianza possa essere accolto e coniugato insieme a quello della libertà.
Nell’esperienza italiana la nascita di un sistema democratico risulta particolarmente problematica per le contraddizioni e le insufficienze del processo di modernizzazione del Paese da un lato, e per i limiti di una classe dirigente che nelle sue principali componenti vive come minaccia tale processo, che implica l’immissione nella sfera della politica di quote crescenti di classi subalterne. Non è questo un problema che riguardi solo l’Italia; nel nostro Paese, tuttavia, esso assume una rilevanza particolare fino a dare vita a soluzioni autoritarie sul piano politico con la sostanziale connivenza di larga parte del personale politico e amministrativo liberale, e di alcune istituzioni, a cominciare dalla monarchia, che avrebbero dovuto funzionare da garanti al di sopra delle parti e che invece furono parziali e partigiane.
Dunque il passaggio 1943-1948 risulta essere veramente innovativo, in certo qual modo rivoluzionario, non solo perché liquida il fascismo, ma perché rispetto al passato imposta in termini nuovi il rapporto Stato-cittadino. Certo, più sul piano dei principi e del dettato costituzionale che non nella concretezza della quotidianità, dove il cittadino è spesso penalizzato da robuste correnti di continuità provenienti dallo Stato fascista e da quello liberale. E tuttavia quei principi e quella carta stanno lì a ricordare che un’altra strada e possibile e può essere percorsa, realizzando ciò che nella Costituzione c’è già. La durezza dello scontro politico e ideologico indotto dalla guerra fredda rese poco chiaro questo dato di fondo, che solo ora, dopo la caduta di preclusioni insuperabili all’interno del sistema politico, formalmente democratico e contemporaneamente impossibilitato a funzionare realmente come una democrazia, appare nella sua evidenza. Il problema vero non è inventare chissà quali marchingegni costituzionali per superare un’anomalia di funzionamento che non deriva tanto da insufficienze strutturali della carta costituzionale, ma da un anomalo funzionamento del sistema politico.
Il problema vero è riportare alla normalità il sistema politico, mettendo su basi positive il rapporto Stato-cittadino. Con questo non si vuole sostenere che non ci siano parti della Costituzione che richiedano un aggiornamento e un adattamento alle trasformazioni conosciute in cinquant’anni dalla nostra società, ma questi aggiornamenti non possono riguardare né i principi ispiratori né la struttura pensata dai costituenti, perché è prima necessario che i cittadini italiani imparino a vivere appieno la loro Costituzione e, prima ancora, che imparino a conoscerla a fondo.