Per una nuova didattica della Shoah. Riflessioni sull’esperienza formativa al Mémorial de la Shoah di Parigi

Marta Nicolo

articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXIII, n. s., n. 2, dicembre 2013

 

La Germania nazista, assecondata dalla complicità di molti, ha assassinato tra i cinque e i sei milioni di ebrei europei, tra il 1939 e il 1945. «La decisione di “far scomparire”[1]il popolo ebraico dalla faccia della terra, la determinazione nel decidere chi debba e chi non debba abitare il pianeta, una determinazione spinta alle estreme conseguenze, ha rappresentato la specificità di un’impresa volta a modificare la configurazione stessa dell’umanità[2]». Il crimine non è stato commesso solo da una squadra di assassini (si stima che sarebbero state coinvolte all’incirca un milione di persone, con gradi diversi di responsabilità), ma da una società. Il paradigma dell’annientamento dell’altro, del diverso, la Shoah.

La Shoah è stato un unicum, come ben sintetizza lo storico Enzo Traverso: «Il genocidio ebraico è il solo nella storia ad aver perseguito il fine d’un rimodellamento biologico dell’umanità, il solo completamente sprovvisto d’una natura strumentale, il solo in cui l’eliminazione delle vittime non fu un mezzo ma un fine in sé»[3]. Il fine di uccidere gli ebrei per reato di nascita. Gli ebrei colpevoli solo di questo, di esistere in quanto tali. Per questa ragione il progetto nazista appare in tutta la sua mostruosità, e segna la recente storia europea, quasi come una cesura fra un prima e un dopo.

La Shoah è un’enorme questione politica e antropologica. Politica, perché pone il problema di come un popolo civilizzato abbia scientemente deciso di eliminarne un altro; antropologica, perché rappresenta un momento di rottura all’interno della civiltà occidentale. Ma come rendere produttivo, da un punto di vista formativo, questo insegnamento? La storica Alessandra Chiappano sottolineava l’importanza di rendere necessaria e fondamentale l’individuazione dei modi e delle forme più adatti, senza ricadere nell’indicibile, che restituiscano alla Shoah il suo valore all’interno della storia del Novecento. L’assassinio del popolo ebraico deve essere insegnato in primo luogo come un evento storico, un evento che va necessariamente inserito nel contesto più ampio della storia europea. Ma è altrettanto vero che un insegnamento che si limiti alla mera ricostruzione cronologica dei fatti e che si riveli incapace di interrogare le radici del discorso antisemita, il peso dell’ideologia nazista e, più in generale, dell’irrazionale e della paura, ma soprattutto incapace di rimettere in causa le strutture politiche della nostra modernità, sarebbe votato al fallimento, col rischio di non far emergere ciò che rende la Shoah un crimine senza precedenti e di presentarla agli studenti come una violenza tra i tanti crimini contro l’umanità.

Per parafrasare il fortunato libro a cura di Enzo Traverso[4], è giusto domandarsi che cosa significhi veramente oggi “insegnare Auschwitz”, sottraendolo a una sorta di inevitabile understatement cui lo condanna una sua considerazione soltanto come mero, per quanto imprescindibile e fondamentale, argomento di studio? E, al tempo stesso, che cosa si deve apprendere come uomini, ancora prima che come studenti, insegnanti o studiosi, a partire dalla Shoah? «Chaumont intende l’“insegnare Auschwitz” come occasione pressoché irripetibile di più matura e definitiva affermazione del pensiero critico contro ogni forma di conformismo culturale e sociale: “[…] Auschwitz obbliga a un rapporto nuovo con la storia, un rapporto critico con la totalità del passato che ha fatto di noi quelli che siamo”. E l’obbligo nei confronti dell’estremo dell’orrore si adempie soltanto “col fatto di segnare una svolta nella storia”: “Se non riusciremo a presentare la memoria della Shoah in una configurazione davvero capace di convincere i nostri interlocutori che essa ha realmente l’importanza che le accordiamo, se fra trenta o cinquant’anni la Shoah non dovesse significare per le generazioni future molto più di Verdun […], la colpa sarebbe nostra e, al di là di ciò, si tratterebbe per tutto il genere umano di un’occasione perduta”»[5]. Ciò nonostante, scrive Traverso, è necessario collocare Auschwitz nel suo preciso contesto. Lo storico non deve lasciarsi sedurre dalle interpretazioni sovrastoriche del genocidio ebraico; se non si rende la Shoah oggetto di rigorosa analisi storico-documentale, che riguardi anzitutto il nazismo e la sua organizzazione ideologica, politica, militare e burocratica, si rischia di fallire l’interpretazione del fenomeno. Allo stesso tempo, lo storico Georges Bensoussan afferma che il pericolo che si prospetta in futuro, relativamente alla memoria della Shoah, non è il negazionismo, che rimarrà presumibilmente un fenomeno marginale, ma il revisionismo, che spinge verso la banalizzazione ed equiparando tutto a tutti cancella le caratteristiche che invece fanno della Shoah un crimine senza precedenti.

La sfida insita è quella di coniugare al contempo un insegnamento storico, basato su una conoscenza puntuale e rigorosa dei fatti, e un’educazione morale, centrata sulla riflessione attorno al nostro senso di responsabilità e alla nostra libera scelta. Serve ricostruire con assoluto rigore ogni evento all’interno di specifiche coordinate storiche, evitando con cura ogni forma di assimilazione sommaria che si presti a inevitabili e fuorvianti semplificazioni.

La precisione e il rigore sono indispensabili quando si fa storia per qualunque argomento, ma con la Shoah a maggior ragione perché ci troviamo di fronte a un evento che tutti, giovani e adulti, affermano di conoscere, ma che a ben guardare, ben pochi studiano e mostrano di avere compreso. Numerosi sono ancora gli errori di interpretazione e i pregiudizi, dovuti principalmente a una scarsa conoscenza storica e a una altrettanto scarsa comprensione politica, oltre che morale, dell’evento.

Laura Fontana, la responsabile italiana del Mémorial de la Shoah di Parigi, evidenzia come uno degli errori più frequenti sia quello di amalgamare il destino di tutte le vittime del nazismo, soprattutto quando si parla di deportazione e di lager. La storia del Terzo Reich è stata contrassegnata da numerosi crimini, con milioni di persone discriminate e perseguitate dal regime hitleriano. Ma la Shoah è la storia del genocidio degli ebrei, non dei campi di concentramento e nemmeno, in genere, della deportazione. Cita ad esempio il fatto che non ci sia mai stata nella politica nazista un progetto di deportare tutti gli omosessuali o tutti i testimoni di Geova di tutti i paesi dell’Europa occupata.

Un ulteriore equivoco in cui spesso si cade riguarda l’universo concentrazionario. I lager vengono istituiti fin dai primi mesi del 1933 per imprigionarvi e rieducare gli avversari politici. Negli anni seguenti vi saranno destinate altre categorie, come i criminali comuni, gli omosessuali, gli alcolizzati, i vagabondi, i testimoni di Geova, fino ai rom e ai sinti, ma è un errore confondere la politica di repressione del regime con la politica di persecuzione degli ebrei, che segue un percorso totalmente distinto.

Fontana spiega come in realtà i percorsi e soprattutto le ragioni della deportazione siano diversi. Il 90 per cento degli ebrei catturati dai nazisti viene condannato alla morte immediata, per fucilazione di massa nei territori dell’Urss o in appositi centri di messa a morte installati sul territorio polacco. Non sono lager in senso stretto, poiché le vittime vengono uccise per asfissia appena scese dai treni, non c’è selezione all’arrivo, né immatricolazione col tatuaggio e comprendono solo le strutture essenziali alle uccisioni sistematiche. Il punto è che la maggior parte delle vittime della Shoah non è mai entrata in un campo di concentramento: almeno un terzo, cioè circa due milioni di ebrei, soprattutto russi, vengono assassinati in fucilazioni di massa per opera dei battaglioni detti Einsatzgruppen, che non incominciano ad uccidere sistematicamente dopo l’invasione dell’Urss, cioè dal 22 giugno 1941, ma fin dall’aggressione alla Polonia. Centinaia di migliaia di ebrei muoiono ancora prima della deportazione, di fame, di malattia, di stenti, per le inumane condizioni dei ghetti; solamente nel ghetto di Varsavia, in meno di due anni, dal novembre 1940 al luglio 1942, muoiono almeno ottantamila persone, mentre a Lodz, dove le condizioni sono in un certo senso migliori poiché è il ghetto che i nazisti lasciano aperto fino all’agosto 1944 in ragione della sua alta produttività, muoiono di fame almeno cinquantamila persone[6].

«Lo ripeto non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. […] Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i “mussulmani”, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola noi l’eccezione […] Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi appunto; ma è stato un discorso “per conto di terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte»[7].

In ultimi analisi, non dimentichiamo che nell’insegnamento della Shoah si ripropone il nesso storia-memoria e il suo uso pubblico, che apre la strada a fenomeni di cecità involontaria e a ostacoli cognitivi. È fondamentale quindi evitare che l’insegnamento della Shoah si riduca a una serie di interventi tutti concentrati attorno al Giorno della Memoria e, a tale scopo, serve costruire un percorso armonico che parta almeno dall’ultimo anno della scuola primaria, ripercorrendo a grandi linee la storia degli ebrei, dalla diaspora fino all’emancipazione, per poi ragionare con basi solide sulla Shoah. Inoltre, concentrare l’insegnamento della Shoah in alcuni momenti canonici fa sì che si cada inevitabilmente nella celebrazione, che finisce per risultare quanto mai vuota e ripetitiva.


Note

[1] Heinrich Himmler, 6 ottobre 1943, discorso agli ufficiali delle Ss.
[2] George Bensoussan, Storia della Shoah, Firenze, Giuntina, 2013.
[3] Enzo Traverso, La singolarità storica di Auschwitz, problemi e derive di un dibattito , in Aa. Vv., Nazismo, fascismo, comunismo, a cura di Marcello Flores, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 304.
[4] E. Traverso (a cura di), Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
[5] Recensione di E. Vitale a E. Traverso, Insegnare Auschwitz, cit., in “L’indice”, n. 1, 1996.
[6] Laura Fontana, Comprendere e insegnare la Shoah: coniugare insegnamento politico e insegnamento morale, lezione per insegnanti disponibile all’indirizzo:
https://memoria.comune.rimini.it/news/comprendere-insegnare-shoah-coniugare-insegnamento-politico-insegnamento-morale.
[7] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1987, pp. 64-65.

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