Cristina Merlo[*]
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXIII, n. s., n. 2, dicembre 2003
Fonti
Lo studio della Comunità ebraica di Vercelli nel 1943 è stato condotto utilizzando varie fonti.
In un primo momento sono stati analizzati i documenti conservati all’Archivio di Stato di Vercelli: la documentazione di parte fascista, per quanto lacunosa, ha costituito il punto di partenza della ricerca. Essa consiste in una serie di fascicoli rintracciati tra le carte della Prefettura di Vercelli, che riguardano interamente la fase della persecuzione antiebraica dopo le leggi razziali[1].
In una seconda fase l’attenzione si è concentrata sui dati forniti dall’anagrafe di Vercelli[2] e successivamente sulle testimonianze dirette di alcuni componenti della Comunità ebraica vercellese del tempo e sulle informazioni fornite da Dario Colombo, che ha contribuito in modo consistente alla ricostruzione della storia della comunità vercellese, con descrizioni di fatti e persone particolarmente utili ad individuare singoli individui e gruppi familiari.
Il confronto delle fonti ha consentito di far luce sulle caratteristiche del gruppo ebraico vercellese al 1943, ma anche di allargare il campo della ricerca ai periodi precedente e successivo al 1943, rispettivamente per gli anni dal 1938 al 1943 e posteriori al 1943.
Profilo quantitativo del gruppo ebraico vercellese
Dall’analisi dei documenti disponibili risulta che a Vercelli nel 1943 vi erano 125 ebrei, di cui 56 uomini e 69 donne[3].
Nella popolazione ebraica vercellese prevalevano gli individui compresi tra i 51 e i 60 anni, precisamente 24 persone; 23 individui avevano tra i 31 e i 40 anni e 22 erano compresi tra i 61 e i 70 anni d’età. Relativamente scarsi risultavano invece essere i giovani, più numerosi nella fascia d’età tra i 21 e i 30 anni (14 individui).
I maschi erano più numerosi tra i 61 e i 70 anni e le femmine, invece, tra i 51 e i 60 anni d’età; l’età media era 42,06 anni, senza differenze significative fra maschi (42,08) e femmine (42,04).
Nel periodo precedente, dal 1938 al 1943, vi erano 138 individui, di cui 63 uomini e 75 donne, perlopiù nella fascia d’età compresa tra i 51 e i 60 anni (26 persone); 25 individui si trovavano tra i 31 e i 40 anni e tra i 61 e i 70 anni d’età; quindi è confermata la presenza relativamente scarsa di giovani: erano solo 14 gli individui tra i 21 e i 30 anni. I maschi erano più numerosi tra i 61 e i 70 anni e le femmine tra i 51 e i 60. L’età media, analogamente al 1943, è 42,06, leggermente più alta per le donne (42,86) rispetto agli uomini (41,11).
Dei 125 ebrei residenti nel 1943, 56 individui erano nati a Vercelli, i rimanenti nelle vicine città piemontesi[4]. Solo 21 provenivano da altre regioni: 5 dall’Emilia, 4 dalla Liguria, 4 dal Veneto, 4 dalla Toscana, 2 dall’Umbria, 1 dalla Lombardia, 1 dalla Campania. Altri 4 ebrei risultano nati all’estero e di altri 11 non si conosce il luogo di nascita.
Tra il 1938 e il 1943 i dati sono molto si-mili.
Il matrimonio
Nel 1943 gli uomini celibi erano 27, quelli sposati 29; tra le donne, 35 erano nubili e 34 sposate[5]. La maggior parte degli individui si sposava a Vercelli[6]; nella maggioranza dei casi la scelta del coniuge si orientava verso una persona che praticava la stessa religione: solo 13 individui, 7 maschi e 6 femmine risultano non appartenere alla “razza” ebraica[7]. I dati non sono sufficienti al fine di chiarire i motivi per cui venissero celebrati matrimoni misti: è comunque significativo che sempre di più il sentimento riuscisse a far superare le barriere rappresentate dalla diversa appartenenza religiosa. Questo, almeno, è quanto racconta Mario Pollarolo, a proposito dei suoi genitori, il padre cattolico e la madre ebrea.
Per quanto riguarda l’età del matrimonio, 40 persone si erano sposate tra i 21 e i 30 anni (rispettivamente 15 maschi e 25 femmine), altri 9 individui tra i 31 e i 40 anni (8 maschi e 1 femmina). Nelle altre fasce d’età inferiori e superiori a quelle appena rilevate, la frequenza dei matrimoni è scarsa o nulla.
Tra il 1938 e il 1943, 31 erano gli uomini celibi e 32 quelli sposati; 36 erano le nubili e 39 le donne sposate[8]. Il matrimonio per 30 casi venne celebrato a Vercelli[9]; i dati relativi alla scelta del coniuge vedono 7 maschi e 6 femmine non appartenenti alla “razza” ebraica. 44 individui si erano sposati tra i 21 e i 30 anni (17 maschi e 27 femmine); 10 individui, invece, tra i 31 e i 40 anni d’età (rispettivamente 9 maschi e 1 femmina). Anche in questo caso scarsa o nulla è la frequenza dei matrimoni per le classi d’età inferiori e superiori a quelle appena citate.
Le famiglie
I gruppi familiari erano 62, per la maggior parte di tipo nucleare, composti cioè da genitori e figli, mentre poche erano le famiglie allargate[10]. Anche per gli ebrei considerati tra il 1938 e il 1943 è stata ricostruita la composizione dei nuclei familiari, la quale presenta caratteristiche analoghe a quelle viste per il gruppo ebraico analizzato al 1943[11].
Nel 1943 i 125 ebrei erano concentrati nelle vie del centro cittadino, principalmente in via Foa, chiamata nel 1500 via degli Orefici, dei “doreriis”, divenuta poi via del Ghetto, poiché nel 1740 era stata destinata a dimora degli ebrei.
Anche tra il 1938 e il 1943 il massimo addensamento era nel centro cittadino; anche in questo caso le vie più abitate erano via Foa e corso Carlo Alberto.
La professione
L’analisi delle professioni per il campione di ebrei oggetto di studio è stata possibile soprattutto grazie ai dati ottenuti all’anagrafe di Vercelli ed alle informazioni fornite da Dario Colombo. Bisogna segnalare che, in alcuni casi, le professioni indicate dall’anagrafe, per i singoli individui, non si riferivano al periodo studiato, ma ad un periodo successivo o precedente; per evitare, pertanto, che una persona risultasse svolgere, ad esempio, la professione di commercialista all’età di 10 anni, oppure fosse indicato come studente all’età di 56 anni, è stato necessario confrontare la professione e l’età dell’interessato per rimediare ad eventuali errori.
Nell’insieme, il gruppo ebraico vercellese, visto al 1943, aveva una composizione socioprofessionale medio-alta. Il numero degli operai era estremamente limitato, precisamente 2; esisteva invece una forte presenza di professioni autonome e liberali: 17 commercianti, 9 liberi professionisti, di cui 4 vantavano un diploma di scuola media superiore e 5 avevano conseguito la laurea; 3 erano gli artigiani. Va segnalato inoltre che un gruppo consistente era rappresentato da 19 impiegati; esistevano poi 6 insegnanti, 3 industriali e 2 individui impegnati in un ambito che aveva a che fare con il culto, ossia un rabbino e una suora di carità, tale Cesira Calabresi, rintracciata nelle carte dell’Archivio di Stato di Vercelli, dove esiste un documento che si riferisce al suo caso. La categoria di “condizione non professionale” comprende al suo interno il gruppo degli studenti, che erano 13 e delle donne, così suddivise: 31 casalinghe e 7 tra “agiate” e “benestanti”. La maggior parte delle donne rientrava in tale “condizione non professionale”; soltanto 8 erano le impiegate, 4 le insegnanti e 3 le commercianti.
Le professioni svolte dagli ebrei vercellesi tra il 1938 e il 1943 rispecchiano il quadro delineato sopra e riferito al gruppo ebraico al 1943. Vi era una maggioranza di impiegati, ossia 19; 17 erano commercianti, 12 erano liberi professionisti, di cui 6 laureati, 4 erano artigiani, 3 industriali; le donne rientravano per lo più nella “condizione non professionale”: 32 casalinghe, 10, invece, tra “agiate” e “benestanti”; 16 erano gli studenti.
Gli spostamenti del gruppo
L’analisi degli spostamenti degli individui appartenenti al gruppo ebraico vercellese si differenzia dalle ricerche di cui si è detto fino ad ora, in quanto non ci si limita qui ai due gruppi di ebrei riferiti al 1943 e al periodo compreso tra il 1938 e il 1943. Le emigrazioni e le immigrazioni si riferiscono a un gruppo più ampio che comprende i precedenti, ai quali sono stati aggiunti altri 45 ebrei rintracciati nelle carte e che, per cause diverse, sono stati esclusi, perché deceduti o trasferiti prima del 1938 (1943). Dalle elaborazioni di cui si è dato conto sin qui, si è ottenuto così un numero globale di 183 individui: 91 maschi e 92 femmine. Va peraltro precisato, al fine di non commettere errori, che quei 183 individui non rappresentano la totalità degli ebrei presenti a Vercelli negli anni compresi tra il 1938 e il 1945; nonostante questo, si è deciso di utilizzare tutti i dati disponibili al fine di un’analisi degli spostamenti, in quanto sembrava sbagliato omettere informazioni certo imprecise, ma pur sempre ricche e significative. Sia per le emigrazioni che per le immigrazioni sono stati dunque considerato dati relativi ai periodi prima del 1938, dal 1938 al 1942, dal 1943 al 1945, dopo il 1945 e una serie di trasferimenti che risultano senza data.
Il numero totale di individui che emigrò, da prima del 1938 a dopo il 1945, e di coloro che risultano essere emigrati, ma senza sapere esattamente quando, è di 92 persone, 41 maschi e 51 femmine. Pi˘ precisamente: di 5 individui non si conosce la data di emigrazione; 33, invece, emigrarono prima del 1938, 14 emigrarono tra il 1938 e il 1942, 9 emigrarono dal 1943 al 1945 e 31 dopo il 1945.
Le immigrazioni ammontano a un totale di 72 persone, 34 maschi e 38 femmine[12]. I luoghi verso cui si orientavano le emigrazioni e da cui provenivano gli immigrati erano principalmente le regioni del Nord Italia.
Più numerosi furono gli spostamenti prima del 1938, che si concentrarono principalmente in Lombardia (17) e in Piemonte (13 persone, di cui 10 a Torino). Dal 1938 al 1942 si ebbero 7 emigrazioni nel Piemonte, tutte verso Torino, mentre 6 persone emigrarono all’estero. Dal 1943 al 1945 risultano scarsi gli spostamenti del gruppo; infine, dopo il 1945, 15 persone emigrarono all’interno del Piemonte, 8 si diressero verso la Lombardia e 5 verso la Toscana.
Per quanto concerne le immigrazioni, prima del 1938 arrivarono 20 persone dal resto del Piemonte, di cui 10 da Torino; 6 giunsero dalla Toscana e 7 dall’estero. Dal 1938 al 1942 sono 7 le persone che giunsero dal Piemonte, di cui 6 da Torino; 4, invece, arrivarono dall’Emilia. Dal 1943 al 1945 le immigrazioni risultano scarse; infine, dopo il 1945 il maggior numero di immigrati, peraltro pochi, era concentrato in Piemonte: 5 persone in tutto, di cui 4 arrivarono da Torino.
Complessivamente risulta che ben 92 individui emigrarono e 72 immigrarono, pertanto è assai elevata la percentuale degli individui che si spostarono, non saldamente legati alla città di Vercelli: possiamo dedurre un alto grado di mobilità del gruppo.
Vercelli e la persecuzione razziale
La violenta campagna antisemita messa in atto dal regime fascista e l’immediata conseguenza di tale campagna, ossia la promulgazione delle prime leggi razziali, non risparmiò la città di Vercelli: la piccola ma florida Comunità ebraica vercellese ebbe identica sorte alle altre comunità italiane.
Alla data del 1938 gli ebrei vercellesi erano integrati, conosciuti e rispettati all’interno della società vercellese. In base ai dati raccolti e ai risultati ricavati tramite le ricerche condotte all’Archivio di Stato di Vercelli ed all’anagrafe e tramite le informazioni ottenute da tutti gli intervistati, risulta che il gruppo ebraico occupasse un posto di rilievo all’interno della città. Gli ebrei vercellesi appartenevano, per lo più, alla cosiddetta “buona borghesia”: si trattava infatti di famiglie che godevano di una discreta condizione economica e di un altrettanto discreto prestigio sociale.
Molti individui, come già indicato da Terenzio Sarasso in “Storia degli Ebrei a Vercelli”, erano emigrati, ma chi era rimasto aveva dato un notevole impulso alla Comunità ebraica vercellese. Erano emerse, all’interno del gruppo, personalità di spicco; si era affermata la studiosa gioventù israelita, i cui membri vantavano titoli di studio sia a livello di scuola media superiore che a livello universitario, cosa che aveva permesso loro di svolgere professioni in grado di garantire la sicurezza economica.
Molti giovani continuavano a svolgere la professione un tempo svolta dal padre e ancor prima dal nonno; venivano tramandate, in particolare, di generazione in generazione, l’attività di commerciante, di generi alimentari e di tessuti, e l’attività di orefice[13].
Anche le persone intervistate nel corso di questa ricerca provenivano da famiglie conosciute e stimate in città: Cingoli, Segre e Colombo. I Cingoli erano una famiglia di negozianti di tessuti, i cui figli Aldo e Vittorio si laurearono in ingegneria e legge e la figlia Alberta frequentò il ginnasio, senza però diplomarsi. I Segre, marito e moglie, furono negozianti di stoffe; la figlia si diplomò in ragioneria. Infine, la famiglia Colombo era costituita dal marito, laureato in economia e commercio alla Bocconi di Milano e libero professionista, dalla moglie casalinga e da un figlio studente, diplomatosi poi in ragioneria.
La famiglia di Mario Pollarolo, anch’egli intervistato, era una famiglia “mista”, poiché il padre era cattolico e la madre ebrea. Mario fu indirizzato verso la religione professata dalla madre e dalla zia materna; la famiglia Pollarolo era una delle poche di estrazione e tradizione operaia, fra quelle ebraiche, come affermato dallo stesso testimone.
Il grado di istruzione raggiunto, la professione svolta e la sicurezza economica conquistata, avevano conferito alle famiglie ebraiche vercellesi un certo prestigio, permettendo loro di entrare a pieno titolo nella cerchia ristretta della borghesia locale, la quale però fu la prima a voltare le spalle agli ebrei durante il periodo delle persecuzioni.
In questa situazione di assoluta normalità, di tranquilla quotidianità e pacifica convivenza e integrazione, la propaganda antisemita e le leggi razziali incisero in profondità, abbattendosi sin dall’inizio come un vero e proprio “fulmine a ciel sereno”. Fu la stampa a dare il via ai primi attacchi contro il gruppo israelita della città. «Il giornale è “La Provincia di Vercelli”, organo ufficiale della Federazione dei fasci, incomincia subito una sistematica e feroce campagna razzista, che, a onor del vero, non solo trova scarsa adesione tra la popolazione, ma turba la coscienza di molti cittadini. Fra gli stessi fascisti vi sono titubanze e qualcuno, scosso moralmente, in silenzio solidarizza con gli oppressi. Il giornale “La Sesia”, che tarda a dimostrare coscienza razzista, viene minacciosamente e pubblicamente ammonito. Solo alcuni gruppi studenteschi, stimolati del federale Zerbino e guidati da qualche fanatico del Guf, ostentano una crudele faziosità. Circolò persino la voce che costoro volessero appiccare il fuoco alla sinagoga.
Le leggi razziali (17 novembre 1938) considerano gli ebrei “cittadini appartenenti a nazionalità nemica”. […] una […] legge espelle gli Ebrei, insegnanti e studenti, dalle scuole pubbliche. E la solita “Provincia di Vercelli” fa eco alle disposizioni del partito con un articolo intitolato: “È ora che questi bambini ebrei non infettino più le nostre scuole”»[14].
La propaganda antisemita, ormai ben avviata anche a Vercelli, fu seguita dai primi provvedimenti razziali emanati dal regime fascista: i documenti rintracciati in Archivio di Stato tra le carte della Prefettura, consistono in una serie di circolari, indirizzate ai prefetti del Regno e provenienti dal Ministero dell’Interno, che costituiscono la prova di come l’aberrante legislazione razziale approdò sulle scrivanie della Prefettura. Esse contenevano interpretazioni delle leggi o nuove disposizioni contro gli ebrei. In ordine di tempo la prima circolare giunta a Vercelli proveniva dal Ministero dell’Interno ed era datata 15 dicembre 1938, con timbro di arrivo a Vercelli del 22 dicembre 1938; l’oggetto di tale disposizione ministeriale era: «Dipendenti enti locali. Provvedimenti per la difesa della razza». L’ordine in essa impartito, eseguito in tutto il paese, era quello di «dispensare dal servizio» i dipendenti di «razza» ebraica e, schedando tutti i dipendenti dei vari enti, scovare gli ebrei che, in qualche modo, cercavano di nascondersi[15].
Un documento intestato Comune di Vercelli, datato 23 gennaio 1939, con timbro di arrivo alla Prefettura di Vercelli del 25 gennaio 1939, contiene la risposta alla circolare del 9 gennaio 1939 riguardante i dipendenti degli enti locali; il documento recita: «In risposta a circolare 9 gennaio corrente n. 30663 Div. 2a C., pregiomi trasmettere le dichiarazioni dei signori funzionari di questo Comune, in ordine ai provvedimenti emanati con Rdl 17 novembre 1938 n. 1728 per la difesa della razza.
Le schede che si inviano sono: n. 44 degli impiegati di ruolo, n. 33 degli impiegati avventizi, n. 69 dei salariati di ruolo, n. 38 dei salariati avventizi.
Tutti i funzionari posti oggi alle dipendenze di questo Comune appartengono alla razza ariana. […].
Alle dipendenze di questo Comune trovavansi tre funzionari di razza ebraica, i quali vennero dispensati dal servizio coi sottonotati provvedimenti:
1 – Ing. prof. Giuseppe Leblis, professore all’Istituto tecnico […].
2 – Dott. prof. Eugenio Treves, professore all’Istituto tecnico […].
3 – Verona Salvatore, applicato di 1a classe […]».
Segue la firma del podestà. I tre dipendenti dispensati dal servizio erano i già noti Giuseppe Leblis ed Eugenio Treves (cfr. nota 13) e Israele Salvatore Verona, nato a Vercelli il 14 settembre 1888, residente a Vercelli in corso Carlo Alberto 85, celibe e professionalmente indicato come impiegato, morto a Vercelli il 27 luglio 1957. Di Treves e Verona non si conosce la successiva occupazione, invece l’ingegner Leblis si sarebbe dedicato all’insegnamento all’interno della scuola ebraica “Asilo Levi”.
Quei primi provvedimenti crearono danni solo parziali al gruppo ebraico vercellese, che era ancora abbastanza libero di condurre un’esistenza tranquilla; il problema dell’allontanamento dal lavoro venne affrontato e in parte risolto dagli interessati che si cimentarono in nuove professioni o continuarono a svolgere la propria in maniera ufficiosa.
La legislazione razziale continuava intanto a colpire con l’emanazione di nuovi e sempre più specifici provvedimenti, miranti a privare gli ebrei italiani di ogni loro diritto e ad intaccare irreversibilmente le loro libertà. Infatti, un’altra circolare, proveniente sempre dal Ministero dell’Interno, datata “Roma, lì 22 dicembre 1938-XVII” e recante il timbro di arrivo alla Prefettura di Vercelli in data 25 gennaio 1939, ha come oggetto: «Rdl 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, recante provvedimenti per la difesa della razza italiana»[16].
Esiste poi un’altra circolare riguardante i provvedimenti per la difesa della razza italiana; essa non è datata né intestata, semplicemente compare in alto a sinistra la dicitura «Rdl 17 novembre 1938-XVII n. 1728»; segue un titolo centrale “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, che detta norme per individuare gli elementi «di razza ebraica»[17].
Oltre alle circolari sopra indicate è rintracciabile in archivio anche una serie di fogli manoscritti indecifrabili, in cui sono chiaramente leggibili solo le date: 9 gennaio 1939, 7 febbraio 1939, 27 febbraio 1939, 4 marzo 1939, 16 marzo 1939.
Molto interessante, invece, risulta essere il documento riguardante il caso particolare di Cesira Calabresi, figlia di Scipione Calabresi e di Consolina Debenedetti, nata a Saluzzo il 28 settembre 1887, residente a Vercelli in via Simone Collobiano 11, indicata dall’elenco della Questura repubblicana come suora di carità ed emigrata a Crescentino (Vc) l’8 marzo 1975. Si tratta, precisamente, di un verbale di adunanza consigliare dell’asilo infantile Filippi di Vercelli datato «Vercelli, 5 febbraio 1939». Vi si legge: «L’anno millenovecentotrentanove ed alli due del mese di febbraio, alle ore 16.30, nella solita sala delle adunanze del consiglio di amministrazione dell’asilo infantile Filippi di Vercelli, in Vercelli al primo piano nella casa propria dello stesso asilo, in Via Feliciano di Gattinara n. 16. […].
Difesa della razza-Provvedimenti
Il presidente ricorda al consiglio che la circolare prefettizia n. 30663 div. 2a in data 9 gennaio scorso, richiama l’attenzione delle amministrazioni degli enti locali sulle disposizioni dettate dal Rdl 17 novembre 1938 n. 1728, concernenti i provvedimenti per la difesa della razza italiana.
Dice l’art. 20 di detto decreto che anche le istituzioni di pubblica beneficenza devono dispensare dal servizio, non oltre il 4 marzo 1939, i propri dipendenti appartenenti alla razza ebraica, e che non oltre il 28 del corrente febbraio, devono essere trasmesse alla R. Prefettura, con la deliberazione di dispensa o con la comunicazione che non ricorre il caso di adottare alcun provvedimento, le schede del personale dipendente conformi a modulo predisposto.
Fra le maestre insegnanti nell’asilo infantile Filippi di Vercelli, Suor Maria Consolata (Calabresi Cesira di Scipione e di Debenedetti Consolina, nata a Saluzzo il 28 settembre 1887) pur essendosi convertita alla religione cristiana, ed ivi, dal 1909, apprezzata educatrice, per essere discendente da genitori entrambi ebrei, è da considerarsi ebrea essa stessa.
Ciò premesso invita i convenuti a voler deliberare in merito.
Il consiglio, udito quanto sovra, presa visione delle disposizioni legislative che dettano le norme per la difesa della razza italiana
Con voto unanime delibera
1 – Di esonerare dal servizio che presta presso l’asilo infantile Filippi di Vercelli, a far tempo dal 4 marzo 1939, l’insegnante Calabresi Cesira di Scipione e di Debenedetti Consolina (suor Maria Consolata) e ciò perché è da considerarsi di razza ebraica, anche se professa la religione cattolica.
2 – Di inviare la presente deliberazione all’approvazione dell’autorità tutoria, previa pubblicazione a sensi di legge».
Tale documento si è rivelato estremamente importante ai fini dell’analisi della persecuzione razziale sul suolo vercellese, in quanto mostra come le circolari inviate dal Ministero dell’Interno alle prefetture delle città italiane, tra cui Vercelli, e di qui ai vari enti locali delle città, siano state prese alla lettera e gli ordini in esse presenti siano stati eseguiti con la massima precisione e rapidità. Il caso di Vercelli, appena analizzato, costituisce una prova dell’impegno e dello scrupolo nell’eseguire gli ordini impartiti dal regime; i dipendenti di enti locali appartenenti alla «razza» ebraica dovevano essere allontanati dall’impiego e così fu per Calabresi Cesira, suor Maria Consolata. Inoltre, il verbale di adunanza dell’asilo infantile Filippi mette in luce un interessante particolare, ossia la situazione paradossale per cui una suora di carità nata da genitori ebrei fosse: «[…] da considerarsi di razza ebraica, anche se professa la religione cattolica».
A poco a poco, quindi, il gruppo ebraico vercellese venne assoggettato ai primi provvedimenti razziali e venne fatto bersaglio di ripetuti atti di antisemitismo. Intanto la borghesia vercellese cattolica, nonostante nell’insieme manifestasse un diffuso appoggio al fascismo e si adattasse alla normativa antisemita del regime, non mutò, salvo poche eccezioni, atteggiamento nei confronti degli ebrei che conosceva ed ave-va sempre frequentato, soprattutto agli inizi della campagna razziale; in seguito, una parte di essa, fece sfoggio di alcuni comportamenti antisemiti e incominciò ad isolare gli ebrei.
La situazione peggiorò dopo l’entrata in guerra dell’Italia e l’avvicinamento alla Germania. Infatti, l’inasprimento della legislazione razziale portò alla ricerca ossessiva degli ebrei sul territorio italiano, alla loro schedatura e immissione in appositi elenchi: a tal proposito bisogna segnalare che, oltre alle circolari sopra presentate risalenti ai primi anni della legislazione antisemita, esistono, tra le carte della Prefettura, i particolareggiati elenchi di persone di “razza” ebraica compilati tra il 1942 e il 1944, periodo in cui la guerra, l’alleanza con Hitler e la presenza armata dei tedeschi in Italia portarono Mussolini e i suoi collaboratori fascisti a «partecipare» alla «caccia all’ebreo». Come già accennato, gli elenchi rintracciati all’Archivio di Stato di Vercelli sono tre: l’elenco compilato dalla Questura repubblicana di Vercelli, l’elenco di ebrei non segnalati dalla Questura di Vercelli, infine l’elenco degli ebrei residenti in Vercelli compilato il 21 febbraio 1944 dal Comune di Vercelli e trasmesso alla Prefettura repubblicana. Relativo a quest’ultimo elenco esiste in archivio un documento intestato «Comune di Vercelli», datato «21 febbraio 1944» e indirizzato alla Prefettura repubblicana di Vercelli, con il timbro di «Arrivo» del 22 febbraio; tale documento sembra accompagnare l’elenco di persone di «razza» ebraica compilato dal Comune e inviato alla Prefettura: «In risposta a circolare 11 febbraio corrente […] mi pregio trasmettere l’elenco nominativo – maschi e femmine – degli appartenenti alla razza ebraica discriminati e non, inscritti nei registri anagrafici di questo Comune», firmato dal podestà, dottor Mario Busca. Così, anche a Vercelli, gli elenchi di persone di «razza» ebraica vennero compilati con la massima precisione, indicando nome e cognome dell’individuo, paternità e maternità, data di nascita e residenza in Vercelli; inoltre, salvo casi rari, tutti gli ebrei vercellesi furono rintracciati e schedati, tanto da favorire così, in un secondo tempo, i soldati tedeschi a caccia di ebrei da sottoporre alla “soluzione finale” di Hitler.
La vera e propria tragedia ebraica iniziò dopo la firma dell’armistizio l’8 settembre 1943; con l’arrivo dei tedeschi a Vercelli l’incredulità ed il terrore invasero anche la piccola Comunità ebraica[18]. In base alle testimonianze raccolte, si può stabilire che i tedeschi giunsero a Vercelli tra il 9 e il 12 settembre 1943. Dario Colombo ricorda che i tedeschi arrivarono a Vercelli il 9 settembre: «… Giorno 9, ore nove del mattino. … La comunicazione, cioè l’aver appreso che l’Italia aveva firmato l’armistizio è, mi sembra, delle 5 o le 6 del pomeriggio dell’8 settembre, il mattino del 9 i tedeschi sono entrati in Vercelli». Per Mario Pollarolo invece il ricordo è più sfuocato: «… Eh, non so adesso, il 10, dopo l’8 settembre sarà stato il 10 o l’11, non di più». Pia Segre afferma che i tedeschi arrivarono al 12 settembre: «… Settembre, la disfatta militare, i camion a Vercelli, i tedeschi sono arrivati, credo al 12». Aldo Cingoli nel suo manoscritto indica, addirittura, che i tedeschi occuparono Vercelli verso fine settembre: «Non ricordo esattamente la data della occupazione tedesca di Vercelli, ma mi pare che sia stata al 28 settembre»[19].
A proposito del concentramento degli ebrei, Vercelli si adeguò con l’installazione in periferia di un campo di raccolta. I documenti rintracciati in archivio, sempre tra le carte della Prefettura, testimoniano l’allestimento del campo vercellese[20]: una circolare indirizzata al questore di Vercelli, il cui oggetto era «Ebrei», e datata 4 dicembre 1943, testimonia l’installazione di un campo di concentramento per ebrei in Vercelli; il testo della circolare era il seguente: «A conferma ordini verbali già dativi in conformità superiori disposizioni recenti, vogliate compiacerVi tener presente:
1 – L’azione nei confronti degli ebrei deve essere sollecitata e condotta con massima diligenza e severo criterio;
2 – Il campo di concentramento dovrà essere predisposto immediatamente a cura del Comune di Vercelli presso la cascina Aravecchia;
3 – Per la necessaria vigilanza del detto campo provvisorio di concentramento ho già dato disposizioni al Comando gruppo carabinieri […]».
In una seconda circolare, intestata “Prefettura repubblicana di Vercelli”, indirizzata al podestà di Vercelli, datata 6 dicembre 1943 e avente come oggetto: «Campo concentramento ebrei», si legge che: «A conferma delle verbali istruzioni, impartite, vogliate provvedere subito ad allestire un campo di concentramento per gli appartenenti alla razza ebraica alla cascina Aravecchia, di proprietà comunale», firmata dal capo della Provincia, Michele Morsero. Un secondo telegramma, riportante in fondo al testo la data dell’8 marzo 1944, rende noti ulteriori provvedimenti per quanto riguarda l’internamento degli ebrei, indicando l’esclusione di alcuni di essi se appartenenti a determinate categorie: “In seguito ed analoga comunicazione avutasi dalla direzione generale demografia e razza […] confermasi che ebrei puri tanto italiani che stranieri debbono essere inviati campi concentramento fatta eccezione per vecchi oltre 70 anni et malati gravi rimangono esclusi da tale provvedimento ebrei di famiglia mista compresi ebrei stranieri coniugati con nazionali ariani aut con cittadini ariani di qualsiasi nazionalità siano originari non vanno inoltre soggetti al medesimo provvedimento coloro che ai sensi legge 13 luglio 1939 nr. 1204 tuttora in vigore hanno ottenuto formale dichiarazione di non (ripetesi non) appartenente alla razza ebraica […]
Capo polizia Tamburini».
I due telegrammi e le due circolari riguardanti l’internamento degli ebrei vercellesi in campi di concentramento, testimoniano, ancora una volta, come la legislazione razziale, relativa in questo caso all’internamento degli ebrei, approdasse nelle città di provincia e come chi le governava si impegnasse per eseguire al meglio gli ordini impartiti dal Ministero dell’Interno.
Di fronte ad una simile situazione gli ebrei meditarono sul da farsi e molti presero in considerazione la possibilità di fuggire[21]. La situazione a Vercelli era grave, la “caccia all’ebreo” si era ormai scatenata e chi era in grado di farlo cercava di mettersi in salvo. Certo non era facile sfuggire alla furia tedesca; infatti anche la piccola cittadina di provincia sacrificò le proprie vittime al progetto di sterminio nazista[22]. Il professore Giuseppe Leblis dimostrò enorme coraggio quando, dopo la sua fuga a Mocchie, sopra Condove, venne arrestato il 20 dicembre 1943, condotto in carcere a Torino e a Milano e da qui deportato in campo di concentramento. Al momento dell’arresto, esasperato per la fuga e infuriato per il fatto di doversi nascondere perché ebreo, sembra che alla domanda dei tedeschi se fosse ebreo abbia risposto “sì”, specificando la sua risposta in tre lingue: italiano, francese, tedesco, come a voler dimostrare che non solo era ebreo, ma era orgoglioso di esserlo.
I controlli effettuati sul gruppo ebraico vercellese divennero sempre più pressanti e particolareggiati: risalgono infatti ad un periodo compreso tra il maggio e il giugno del 1944 una serie di “schedine” individuali per ogni ebreo ritenuto tale. Tali cartelle personali altro non erano che piccoli fogli volanti recanti il timbro della Questura repubblicana di Vercelli, in una data compresa appunto tra il maggio e il giugno 1944, indirizzati alla Prefettura repubblicana di Vercelli e attestanti l’esistenza di «beni ebraici» e l’appartenenza alla «razza» ebraica dell’individuo considerato.
Una di queste reca il seguente testo: «[…] si comunica che la nominata Foa Rinalda fu Sansone, già residente a Vercelli ed in atto allontanatasi per ignota direzione, appartiene alla razza ebraica», segue la firma del questore, A. Sartoris.
Proseguiva intanto la caccia agli ebrei vercellesi, dalla quale emersero le grandi contraddizioni con le quali fu condotta tutta la politica antisemita, fino all’ultimo giorno. Infatti, se da un lato molti ebrei furono arrestati, e tra questi anche alcuni ebrei discriminati e “misti”, senza distinzioni di alcun tipo, dall’altra, invece, altri ebrei, per ragioni a volte incomprensibili e del tutto casuali, vennero risparmiati. È il caso di un ebreo vercellese, tale Lazzaro Segre detto Lazzarino, che era Schamasch del Tempio e che non venne mai ufficialmente considerato un «ebreo economicamente utile al Reich», ma non venne ugualmente mai «né toccato né arrestato». Inoltre, bisogna segnalare che alcuni ebrei, grazie agli aiuti della popolazione di Vercelli, ma anche del Biellese e della Valsesia, riuscirono a trovare una via di fuga, che non sempre si rivelò sicura[23].
Note
[*] ⇑ Saggio tratto dalla tesi di laurea Ebrei e persecuzioni razziali nel Vercellese, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 1996-1997, relatore prof. Fabio Levi.
[1] ⇑ Precisamente il faldone I contiene fascicoli che si occupano di “beni ebraici-massime”, “elenchi di persone di razza ebraica”, “beni ebraici-pratiche personali”, “trasferimento a Torino di beni ebraici”, “confisca dei beni ebraici”, “trascrizione delle proprietà”. Il faldone II ha al suo interno fascicoli relativi a “beni ebraici-denuncia di società azionarie”, “beni ebraici-denuncia delle banche”, “beni ebraici-denuncia della Cassa di Risparmio di Vercelli”, “pensioni a favore di persone di razza ebraica”, “beni ebraici-iniziative assistenziali”.
Il contenuto dei due faldoni è stato esaminato al fine di avere un quadro completo della situazione degli ebrei vercellesi e scoprire come gli individui definiti di “razza” ebraica fossero presenti nelle pratiche riguardanti la confisca dei beni, le denunce e i trasferimenti.
In un secondo tempo l’attenzione si è concentrata sui tre elenchi di persone di “razza” ebraica, ritrovati nel faldone I, così intitolati: a) “Questura repubblicana di Vercelli. Elenco degli ebrei residenti in Vercelli e loro abitazioni”; b) “Elenco. Nominativi di ebrei non segnalati dalla Questura di Vercelli. Residenti in Vercelli”; c) “Elenco ebrei/e esistenti in Vercelli. Elenco trasmesso dal Comune di Vercelli alla Prefettura repubblicana in data 21 febbraio 1944”.
Il primo elenco comprende i nomi di 90 individui, 42 maschi e 48 femmine, organizzati in ordine alfabetico, con l’indicazione di paternità, maternità, luogo e data di nascita e indirizzo della residenza in Vercelli. Il secondo elenco raccoglie i nomi di 48 individui, fra i quali anche quelli di alcune ditte ebraiche; a fianco dei nomi sono indicate le vie di residenza in Vercelli; alcuni degli individui citati compaiono anche nell’elenco della Questura repubblicana di Vercelli. Infine, il terzo elenco presenta i nomi di 46 maschi e 61 femmine di “razza” ebraica con le indicazioni delle vie di residenza; alcuni di questi nomi compaiono nell’elenco della Questura repubblicana di Vercelli.
[2] ⇑ Il criterio con il quale sono state richieste ed ottenute informazioni presso l’ufficio anagrafico è stato il seguente: inizialmente la precedenza è stata data alla raccolta di dati riguardanti gli individui rintracciati tramite gli elenchi dell’Archivio di Stato, cercando, quindi, di colmare le lacune presenti in tali elenchi. In un secondo tempo l’attenzione è stata rivolta ad un gruppo di ebrei, dei quali si è scoperta l’esistenza perché avevano legami di parentela con gli ebrei rintracciati utilizzando gli elenchi. I dati ottenuti dall’anagrafe di Vercelli, consistenti in nome, cognome, indirizzo, città e data di nascita, città, luogo, data del matrimonio e nome del coniuge, stato civile e professione, hanno offerto la possibilità di compiere un’indagine più accurata e dettagliata del gruppo ebraico vercellese.
[3] ⇑ La ricerca ha confermato che gli uffici pubblici avevano proceduto con grande precisione nel quinquennio 1938-43 a rintracciare gli ebrei: chi era ebreo e si trovava a Vercelli, è stato, da subito, sistematicamente rintracciato, schedato e compreso nelle pratiche istruite dal regime in quegli anni. Infatti, malgrado tutti i tentativi di mettere in discussione gli elenchi di persone di “razza” ebraica trovati nelle carte della Prefettura, essi si sono rivelati alla fine perfettamente congruenti con la realtà della persecuzione ebraica a Vercelli.
[4] ⇑ Nell’ordine: Casale, Torino, Trino, Santhià, Biella, Asti, Cuneo, per un totale (compreso Vercelli) di 89 individui.
[5] ⇑ Numerosi erano gli ebrei, maschi e femmine, che tra i 51 e i 60 anni risultavano coniugati, 6 maschi e 11 femmine; altri 6, sia maschi che femmine, risultavano sposati tra i 61 e i 70 anni d’età; pochi erano i giovani coniugati: 1 maschio e 2 femmine tra i 21 e i 30 anni; questo dato potrebbe ulteriormente confermare il fatto che a Vercelli, tra la popolazione ebraica, i giovani avessero un peso assai ridotto. Per quanto riguarda, invece, i celibi e le nubili, risulta che i primi erano più numerosi tra i 21 e i 30 anni e tra i 61 e i 70 anni, precisamente 6 persone; le nubili erano 8, in età compresa tra i 31 e i 40 anni.
[6] ⇑ Precisamente 30 ebrei, 13 maschi e 17 femmine; 14 persone, invece, si sposarono in città piemontesi come Casale con 7 individui, Torino con 5 e Biella con 2 individui. Altri individui si unirono in matrimonio in altre regioni d’Italia: 4 si sposarono in Liguria, 3 in Toscana, 2 in Emilia, 1 in Lombardia; infine, 2 matrimoni furono celebrati all’estero e per 7 individui non si conosce il luogo del matrimonio.
[7] ⇑ Queste 13 persone sono: Angelo Pollarolo, Vittorio Ranieri, Guido De Benedictis, Vittorio Alberico, Battista Bona, Silvio Biffi, Carlo Pession, Pierina Astinelli, Annita Marchetti, Marta Caligaris, Maria Piazzano, Teresa Menso, Fortunata Rosa.
[8] ⇑ La distribuzione di celibi/nubili e sposati per fasce d’età mostra come i celibi fossero più concentrati tra i 21 e i 40 anni, precisamente 6 individui; 8 erano, invece, le donne nubili tra i 31 e i 40 anni; per quanto riguarda gli individui sposati si può notare come 8 maschi fossero concentrati tra i 61 e i 70 anni e 12 femmine tra i 51 e i 60 anni d’età.
[9] ⇑ 17 matrimoni avvennero in altre città del Piemonte: Torino, Casale, Biella, Asti. Altri individui si sposarono in altre regioni d’Italia: 6 individui in Liguria, 3 in Toscana, 2 in Lombardia, 2 in Emilia; invece 2 si sposarono all’estero e per 7 individui il dato risulta mancante.
[10] ⇑ Precisamente 20 erano i nuclei formati da 1 solo individuo, quasi sempre celibe o nubile; 22 erano i nuclei formati da 2 persone: coppie senza figli oppure fratelli e sorelle che vivevano sotto lo stesso tetto. Esistevano 12 nuclei formati da 3 individui: 2 genitori più 1 figlio, oppure un genitore più 2 figli, oppure 2 coniugi più il genitore o il fratello/sorella di uno dei due, oppure da 3 fratelli o sorelle; 6 nuclei erano formati da 4 individui: 2 genitori e 2 figli, oppure 1 genitore e 3 figli, oppure 2 genitori più 1 figlio e un nonno/nonna, oppure 2 genitori, 1 figlio e 1 fratello/sorella della coppia. Infine si ha il caso di 1 nucleo formato da 7 persone e 1 nucleo formato da 8: il primo corrispondeva ad una famiglia composta da genitori, 1 figlio, più 4 parenti sfollati da Torino; il secondo era costituito da 2 genitori, 4 figli e 1 nonna. La maggior parte dei gruppi familiari erano formati interamente da ebrei. Risulta quindi evidente che gli ebrei vercellesi, a quasi cent’anni dall’emancipazione, tendevano ancora ad evitare l’assimilazione al resto della popolazione.
[11] ⇑ 16 nuclei erano formati da 1 persona, 24 da 2 persone, 14 da 3 individui, 5 da 4, 2 da 5 persone, 1 nucleo da 7 individui e 1 da 8. I legami di parentela all’interno dei nuclei rispecchiano quelli descritti per gli ebrei compresi nell’anno 1943.
[12] ⇑ Più precisamente: 3 giungono a Vercelli in un periodo sconosciuto, in quanto i loro spostamenti risultano senza data, 46 immigrano prima del 1938, 13 immigrano tra il 1938 e il 1942, 3 dal 1943 al 1945 e 7 dopo il 1945.
[13] ⇑ A tal proposito nel testo di Sarasso si legge che: «[…] continuano a svolgere, e possibilmente a sviluppare, le attività paterne, come Vittorio Muggia che inaugura a Vercelli un nuovo negozio di argenteria»; cfr. Terenzio Sarasso, Storia degli Ebrei a Vercelli, Vercelli, Comunità israelitica, 1975, p. 131. Analizzando, fra gli altri, il caso di Vittorio Muggia, segnalato da Sarasso, si può constatare che il passaggio di attività di padre in figlio non si fermò a questa generazione, ma continuò con i figli di Vittorio Muggia. Vittorio Muggia ebbe tre figli: Mario, Guido e Giulio, nati rispettivamente il 2 agosto 1883, il 28 giugno 1885 e l’8 settembre 1889; il luogo di nascita fu per tutti Vercelli. Mario e Giulio risultano essere rimasti celibi, mentre Guido si sposò a Vercelli l’8 marzo 1919 con Ines Coen Sacerdotti, nativa di Biella e di condizione “agiata”. I tre fratelli risultano aver svolto la professione del padre, svolta a suo tempo anche dal nonno; infatti sono segnalati come argentieri. C’è poi una particolarità che li riguarda e cioè l’emigrazione di tutti e tre a Milano in anni molto vicini: Giulio emigrò il 28 settembre 1920, Mario il 16 maggio 1921 e Guido, con la moglie, il 15 giugno 1929. Non si conoscono le cause e i motivi di tale emigrazione; si può comunque ipotizzare che si fossero trasferiti per motivi lavorativi, in quanto, svolgendo tutti e tre la stessa professione, decisero forse di ampliare insieme la loro attività e di farlo in una città come Milano, che offriva senz’altro più possibilità di Vercelli.
Sarasso fa riferimento anche ad altri due personaggi di spicco all’interno della comunità: Giuseppe Colombo, che indica come laureato in lettere e filosofia tra il 1896 ed il 1897, e il professor Eugenio Treves. Le informazioni raccolte nel corso di questa ricerca hanno confermato le osservazioni di Sarasso; infatti Giuseppe Colombo nacque a Vercelli il 27 luglio 1874, risulta essere rimasto celibe e essersi laureato in legge (invece che in lettere e filosofia, come annotato da Sarasso). Resta comunque fondamentale il fatto che Giuseppe Colombo, e come lui diversi altri nati negli ultimi decenni del 1800, avessero potuto laurearsi già agli inizi del 1900. Di Giuseppe Colombo si perdono poi le tracce, in quanto, con il censimento del 1911, risulta emigrato a Torino.
Il professor Eugenio Treves viene dipinto da Sarasso come un eccellente studente in quanto, al secondo anno di ginnasio, era stato dispensato dagli esami per i brillanti risultati conseguiti durante l’anno scolastico. Eugenio Treves nacque a Milano il 23 gennaio 1888, risiedette però da subito a Vercelli, in via Lavini 10; si sposò, sempre a Vercelli, il 3 settembre 1927 con Laura Zanotti; dal punto di vista professionale viene indicato come professore, ma molteplici devono essere stati i suoi interessi e il suo impegno, poiché viene segnalato anche come scrittore, poeta e coautore del vocabolario Palazzi. Morì poi a Vercelli il 19 dicembre 1970.
Sarasso propone il ritratto di altri israeliti vercellesi che godettero di una certa fama: ad esempio l’ingegnere Giuseppe Leblis con le sue molteplici qualità, che durante la persecuzione razziale mostrò grande coraggio.
[14] ⇑ T. Sarasso, op. cit., pp. 134-135.
[15] ⇑ Il contenuto della circolare era il seguente: «Come è noto, il 4 corrente è entrato in vigore il regio decreto legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, n. 264 del 19 dello stesso mese, concernenti provvedimenti per la difesa della razza italiana.
Per l’art. 20 di detto decreto le amministrazioni degli enti indicati nell’art.13, devono dispensare dal servizio, nel termine di tre mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, e così entro il 4 marzo 1939-XVII, i propri dipendenti appartenenti alla razza ebraica.
Si prega di curare la precisa, rigorosa e tempestiva esecuzione di tutte le disposizioni, adottando e promovendo i provvedimenti necessari pel personale dipendente dagli enti […].
A tale scopo, si prega di disporre e curare che ciascuna di dette amministrazioni provveda al rilevamento della situazione dei rispettivi dipendenti, di qualsiasi categoria e specie, […], facendone riempire una scheda personale conforme al modello unito. […].
Sulla base dei dati contenuti nelle schede, le singole amministrazioni dovranno adottare, entro il temine suindicato del 4 marzo p.v. i provvedimenti di dispensa del rispettivo personale di razza ebraica, trasmettendo, a questa Prefettura non più tardi del 28 febbraio con la deliberazione di dispensa o con la comunicazione che non ricorre il caso di adottare alcun provvedimento, tutte le schede del proprio personale. […]. Si raccomanda la precisa, rigorosa e tempestiva esecuzione delle presenti disposizioni e si prega di dare assicurazione».
Alla circolare era allegato anche il modello della scheda da compilare, denominato “Mod. B”, in cui compariva un casellario corrispondente a voci diverse quali: il numero dei dipendenti, quanti erano assunti di ruolo, quanti a contratto, quanti avventizi, ecc. Esiste un’altra copia della suddetta circolare; in questo caso il documento è intestato Regia Prefettura di Vercelli, è datato «9 gennaio 1939-XVII», è più stringato rispetto al precedente; manca infatti una parte, ed è caratterizzato da un diverso e più elegante carattere di stampa; inoltre ad esso è allegato un modulo da compilare, indicato come “Mod. A”, in cui veniva richiesto il cognome e nome del dipendente, paternità e maternità, data e luogo di nascita, città e ufficio in cui il dipendente prestava servizio, qualifica, tipo di assunzione, razza ebraica o meno e nazionalità italiana o straniera del padre e della madre, se nato da genitori di nazionalità italiana di cui uno di razza ebraica, se apparteneva alla religione ebraica, se iscritto ad una comunità israelitica, o se in qualsiasi modo avesse fatto manifestazioni di ebraismo. Esistono alcuni di questi moduli compilati riportanti le cifre di quanti impiegati ricoprivano un determinato ruolo; essi sono relativi alla città di Vercelli e ad alcuni paesi limitrofi; sono però di difficile interpretazione a causa della calligrafia poco chiara.
[16] ⇑ Due particolarità sono degne di nota in questa circolare: la dicitura, posta nell’intestazione sotto a «Il Ministero dell’Interno», di «Demografia e Razza» e, in secondo luogo, il timbro a grossi caratteri stampatello di «Riservata», il quale dimostra l’ossessiva e quasi maniacale riservatezza con la quale si voleva gestire, all’interno dell’amministrazione dello stato, la legislazione razziale. Ecco come iniziava la circolare: «Il giorno 4 corrente è entrato in vigore il Rdl 11 novembre 1938-XVII, n. 1728, recante provvedimenti per la difesa della razza italiana.
Allo scopo di dare direttiva precisa ed uniforme agli uffici ai quali sono assegnati compiti per l’attuazione del provvedimento in parola, si ritiene opportuno, dopo le necessarie intese con gli altri Ministeri interessati, fornire qualche cenno illustrativo sulle varie parti del provvedimento stesso ed impartire norme provvisorie di esecuzione, in attesa del regolamento». Seguivano poi gli articoli riguardanti i provvedimenti relativi al matrimonio, l’appartenenza alla razza ebraica e l’allontanamento dal lavoro. In conclusione si poteva leggere che: «Le autorità alle quali la presente circolare è diretta vorranno prendere buona nota delle disposizioni impartite e diramare con la massima urgenza – per la parte di rispettiva competenza – le occorrenti istruzioni agli organi dipendenti».
[17] ⇑ «Art. 8 Agli effetti di legge: a) è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica; b) è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre; d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia comunque iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manifestazione di ebraismo.
Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1 ottobre 1938-XVI, apparteneva a religione diversa da quella ebraica».
[18] ⇑ Anche Sarasso, in Storia degli Ebrei a Vercelli, indica la fine di settembre del 1943 come l’inizio della tragedia per gli ebrei vercellesi e scrive: «Ma la vera e propria “caccia” agli ebrei si inizia dopo l’occupazione di Vercelli da parte delle truppe naziste, il 20 settembre 1943 […] Tutti i beni della Comunità israelitica e dei singoli ebrei sono posti sotto sequestro, la sinagoga è trasformata in magazzino, i banchi asportati, i lampadari distrutti, rubate le decorazioni in bronzo, l’organo irrimediabilmente rovinato[…] Le persone sono ricercate e “cacciate” ovunque».
[19] ⇑ Si rimanda all’articolo di Alberto Lovatto, Ebrei in provincia di Vercelli durante la Rsi: la deportazione, in “l’impegno”, a. IX, n. 3, dicembre 1989, pp. 22-25 e a Mario Capellino, che afferma: «Il 2 dicembre 1943 i capi delle province ricevettero un’ordinanza dalla Repubblica sociale italiana che prevedeva il campo di concentramento per tutti gli ebrei residenti nel territorio nazionale, il sequestro dei loro beni in attesa di essere confiscati, la speciale vigilanza anche per i nati da matrimoni misti. Il capo della Provincia di Vercelli, Michele Morsero, il 6 dicembre ordinò al podestà della città di allestire subito un campo di concentramento per gli ebrei nella cascina Aravecchia ed il 9 dicembre stabilì che i podestà della Provincia provvedessero ad apporre i sigilli alle case degli ebrei. Il 18 dicembre il podestà di Vercelli assicurava il capo della Provincia che tra qualche giorno tutto sarebbe stato pronto per ospitare gli ebrei all’Aravecchia. Morsero, in data 29 dicembre, scrisse al podestà che alla cascina Aravecchia, in funzione dal 24, erano stati internati sette ebrei e ne attendevano altri». Cfr. Mario Capellino, “E suor Teresa adottò uno zio”, in Scriviamo un libro insieme, Vercelli, Cassa di risparmio, vol. III, 1984, p. 38.
Il 18 febbraio 1944 il podestà proponeva la requisizione della villa di proprietà Pugliese e Muggia, situata in via XX settembre, n. 9. La sinagoga fu trasformata in magazzino, molti furono i danni o i furti della suppellettile sacra e delle decorazioni.
[20] ⇑ Un telegramma ricevuto a Vercelli ai primi di dicembre del 1943, precisamente all’ufficio telegrafico, indica la data del 1 dicembre 1943 e sotto il testo è segnata la data del 3 dicembre 1943, seguita da una frase di difficile comprensione in cui sembra scritto: «Fatta copia per il Questore […]», indirizzato: «A tutti i capi delle Provincie libere». Riguardava la disposizione di internamento di tutti gli ebrei in appositi campi di concentramento e il testo del telegramma era il seguente: «[…] comunicasi per la immediata esecuzione la seguente ordinanza di polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta provincia primo tutti gli ebrei anche se discriminati a qualunque nazionalità appartengano e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi concentramento tutti i loro beni mobili ed immobili debbono essere sottoposti ad immediato sequestro […] secondo tutti coloro che nati da matrimonio misto ebbero in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana debbono essere sottoposti a speciale vigilanza degli organi di polizia siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati. Ministro Interno Buffarini».
[21] ⇑ Mario Capellino narra le vicende di fuga di alcuni ebrei vercellesi, come quella dell’avvocato Vittorio Cingoli, fratello della signora Alberta e dell’ingegnere Aldo: «Il fratello dell’ingegnere, l’avvocato Vittorio Cingoli fu aiutato da un direttore di filatura di Trivero, Mario Catalani. Gli diede la sua carta d’identità e lo ospitò presso la sua famiglia ad Arezzo. Rimasto in contatto con la fidanzata, Viva Sandra, fu sequestrata la sua corrispondenza e fu scoperto il suo nascondiglio. Nell’aprile del 1944 anche l’avvocato Vittorio riparò in Svizzera. Viva Sandra occultò nella sua casa di Buronzo molti beni della famiglia Cingoli. […].
L’Istituto delle suore Maddalene di Vercelli aprì le sue porte a tre signore ebree nei giorni drammatici dell’autunno del 1943.
Nella Segre fu nascosta due giorni nella farmacia dell’Ospedale maggiore, otto giorni nel sotterraneo dello stesso ospedale, per interessamento di suor Veramonda delle Suore dalla carità di S. Antida. Dal 22 settembre 1943, per quaranta giorni, rimase nel convento delle Maddalene di via Dante, n. 30. Era stata raccomandata da monsignor Antonio Garione, delegato arcivescovile per l’Istituto. In una cameretta dello stesso convento passò ventiquattro giorni la signora Liana Modena, sempre per insistenza di monsignor Garione e dietro presentazione di Viva Sandra. Anche Ilda Sacerdote trovò ospitalità presso le Maddalene di Vercelli in analoghe circostanze.
Il rabbino Ugo Massiach fu ricevuto in udienza dall’arcivescovo monsignor Giacomo Montanelli, proprio in quei giorni. Fu poi al santuario di Oropa e a Firenze.
Nell’Istituto S. Giuseppe, diretto dai Fratelli delle scuole cristiane, trovò rifugio il giovane Jachia di Vercelli.
Giulio Muggia, commerciante di tessuti in città, molto vicino alle Suore figlie di S. Paolo, fu nascosto presso i Paolini di Alba, poi nella casa dei Bassi, vicino a Mondovì, dove indossò l’abito dei Discepoli del divin Maestro. […] al S. Andrea di Vercelli […], nell’abbazia furono occultati molti beni di Giulio Muggia […].
Il parroco di S. Grisante, don Giuseppe Bianco, aprì la sua canonica al professor Raffaele Foà dal 14 aprile 1944 al 23 aprile 1945. L’anziano professore era riuscito a sfuggire all’arresto nella sua casa di Casale Monferrato. Quando non si sentiva sicuro in casa parrocchiale, si nascondeva nel boschetto vicino o all’asilo, dove risultava ufficialmente come zio di suor Maria Teresa». Cfr. M. Capellino, op. cit., pp. 39-41.
[22] ⇑ Ecco quanto scrive Sarasso: «Il rabbino Ugo Massiach, con notevole sprezzo per la propria vita, si prodiga, infaticabile, per tutti, oltre i limiti del possibile, ma è infine costretto egli stesso a fuggire con la famiglia (la moglie e cinque figli) e ripara a Firenze. Nel 1945, alla liberazione, dopo un breve ritorno a Vercelli, si trasferirà appunto a Firenze, chiamato a ricoprire la cattedra rabbinica di quella città.
Anche la casa dell’ing. Leblis, in via Monte di pietà, è devastata, ma in sua assenza. Egli aveva trovato rifugio con la famiglia in val di Susa, in una frazione di Condove. Ivi, avendo saputo di essere ricercato come ebreo, si consegnò spontaneamente, salvando così la famiglia, il 20 dicembre 1943. Tradotto nelle carceri, di Torino, poi deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, vi muore il 23 maggio 1944». Cfr. T. Sarasso, op. cit., p. 136.
[23] ⇑ Cfr. A. Lovatto, art. cit., pp. 26-29.
Anche Sarasso afferma che: «[…] sulla scorta degli indirizzi e dei nomi rilevati in Questura, ma soprattutto a causa delle molte “soffiate” e informazioni anonime, vengono arrestati e deportati quattordici ebrei vercellesi, nessuno dei quali farà ritorno dai campi di internamento e di eliminazione istituiti dai nazisti.
I loro nomi (unitamente a quelli di quattro ebrei di Biella e uno di Novara) sono ricordati in una lapide murata nel cimitero israelitico di Vercelli, in corso Randaccio. La didascalia è stata dettata dal nuovo rabbino di Vercelli, prof. Gustavo Calò, e dice: “Pregando per la beatitudine eterna delle anime dei vostri cari ricordate le anime sante purificate dal fuoco del sacrificio delle vittime della ferocia nazista”.
La lapide è stata murata nel 1946 dal nuovo presidente Mario Debenedetti. Quando venne scoperta era presente anche il rabbino Massiach, venuto per l’occasione da Firenze. Le vittime vennero commemorate con una commovente orazione dell’avv. Vittorio Cingoli. Le preghiere in suffragio vennero recitate dal rabbino Calò».
Il 25 aprile del 1990 è stata affissa, nella parte esterna del municipio di Vercelli, una seconda lapide in onore dei deportati vercellesi; i nomi degli ebrei segnalati sono gli stessi della lapide indicata da Terenzio Sarasso; compaiono quindi, oltre ai deportati vercellesi, anche quattro ebrei di Biella ed uno di Novara. La lapide è così intitolata: “Ebrei che, deportati ad Auschwitz, non sono più tornati”; seguono i nomi: Diena Giacomo, Foa Jole, Franchetti Leonardo, Franchetti Olga, Jona Annetta, Jona Enrichetta, Jona Felice, Jona Giuseppe, Jona Segre Gina, Leblis Giuseppe, Maroni Segre Delia, Nissin Augusta, Norzi Ottolenghi Edvige, Norzi Guido, Ottolenghi Enrichetta, Tedeschi Carmi Adele, Vitale Ovazza Ada, Vitale Ovazza Elvira, Weimberg Giuseppe.
I cinque ebrei non vercellesi sono: Nissin Augusta, Vitale Ovazza Ada, Vitale Ovazza Elvira, Weimberg Giuseppe, Diena Giacomo. Dei quattordici ebrei deportati, grazie alle ricerche condotte, ho potuto scoprire alcune notizie sulla loro vita così bruscamente troncata dalla deportazione in campo di sterminio. Nell’ordine: Jole Foa era figlia di Tobia Sansone Foa e Eleonora Tedeschi; nacque a Vercelli il 16 novembre 1890, emigrò da Vercelli per trasferirsi a Milano; il particolare importante che la riguarda fu la sua occupazione come segretaria di Farinacci e da questi protetta fino al 1942-43, quando venne arrestata e deportata. Leonardo Franchetti, figlio di Abramo Franchetti e Teresa Menso, nacque a Vercelli il 14 marzo 1907 e ivi risiedette in via 17 novembre 21 (via Foa); si sposò il 12 gennaio 1933 con Maria Piazzano, non appartenente alla religione ebraica; era ragioniere; emigrò e ritornò a Vercelli varie volte, si diresse in Belgio, Torino e Biella. Inoltre sembra che venne arrestato a Milano come antifascista o sospettato tale nel 1943, ma non come ebreo; fu deportato nel campo di Langenfeld in Germania, verso il confine con la Cecoslovacchia, dove venne fucilato il 22 aprile 1945, insieme a settecento prigionieri italiani e non, poco tempo prima dell’arrivo dell’armata russa.
Olga Franchetti, zia paterna del suddetto Leonardo, era figlia di Leon Jacob Leonardo Franchetti e Bella Gentilina Gentile; nacque a Vercelli il 12 maggio 1880, ivi risiedette in via 17 novembre 23 (via Foa); era nubile, inabile, anziana e paralitica, ma venne ugualmente deportata. Delia Segre Maroni, zia della moglie dell’ingegner Aldo Cingoli, era figlia di Giuseppe Segre e Sofia Amar; nacque a Genova il 10 dicembre 1891, sposò Emanuele Maroni a Genova il 19 gennaio 1913; era di condizione “agiata”, emigrò a Torino ed in Francia per essere poi arrestata e deportata. Guido Norzi, figlio di Moise Norzi e Evelina Momigliano, nacque a Vercelli il 5 settembre 1886, sposò Amalia Segre ed emigrò da Vercelli; la deportazione non lo risparmiò e pare che venne deportato con la figlioletta di otto anni. Edvige Norzi Ottolenghi, figlia di Salomone Norzi, nacque a Vercelli il 18 febbraio 1879 e sposò Vittorio Ottolenghi il 3 ottobre 1903; era “agiata” ed emigrò forse a Roma.
Annetta Jona, figlia di Simone Jona e Ricca Sacerdote, nacque a Vercelli il 22 luglio 1881, ivi risiedette in corso Carlo Alberto 58; era casalinga e nubile; emigrò a Torino ed ebbe identica sorte degli altri deportati. Enrichetta Jona, figlia di Felice Jona e Regina Segre, nacque a Vercelli il 9 ottobre 1919; ivi risiedeva in via 17 novembre 25; era nubile e venne deportata con i genitori. Jona Felice, padre di Enrichetta, era figlio di Simone Jona e Ricca Sacerdote; nacque a Vercelli il 20 aprile 1878 e ivi abitava in via 17 novembre 25; coniugato con Regina Segre a Casale il 9 settembre 1914, era negoziante di stoffe. Giuseppe Abramo Jona, figlio di Simone Jona e Ricca Sacerdote, nacque a Vercelli il 3 dicembre 1876; ivi abitò in corso Carlo Alberto 58; era celibe e negoziante di stoffe. Regina Segre Jona, madre di Enrichetta, figlia di Jona Segre e Vittoria Segre, nacque a Casale il 13 luglio 1889; risiedeva a Vercelli in via 17 novembre 25; era coniugata con Felice Jona ed era commerciante. Dalle parentele messe in evidenza si può notare come, per quanto riguarda gli Jona, venne deportata un’intera famiglia.
Giuseppe Leblis è il famoso ingegner Leblis più volte ricordato, figlio di Abramo Leblis e Fortunata Levi; nacque a Vercelli il 25 luglio 1873; ivi risiedeva in via Monte Pietà 3 ed era celibe. Enrichetta Ottolenghi, figlia di Emanuele Ottolenghi e Dosolina Migliau, nacque a Vercelli il 10 maggio 1889; ivi residente in piazza Torino 4, era nubile, casalinga ed emigrata a Milano nel 1934. Adele Carmi Tedeschi, figlia di Giuseppe Carmi e Guidina Foà, nacque a Vercelli il 29 settembre 1877; abitò in via Foa 55, sposò Salvador Tedeschi a Vercelli il 29 settembre 1899; casalinga ed emigrata a Torino nel 1941, fu poi deportata. Alcuni individui al momento dell’arresto non si trovavano più a Vercelli, erano emigrati in periodi diversi: molto tempo prima delle persecuzioni, o durante la fase più critica di queste, cioè tra il 1941 e 1943, oppure erano fuggiti da Vercelli a causa della “caccia all’ebreo”, scatenata da tedeschi e fascisti.