Giorgio Gaietta[*]
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XXXVIII , n. s., n. 1, giugno 2018
La celebrazione di oggi, 17 marzo (il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d’Italia), fortemente voluta dal presidente emerito Giorgio Napolitano e sancita con legge 23 novembre 2012 n. 222, è dedicata all’Unità nazionale, alla Costituzione, all’inno e alla bandiera. Valori e simboli si intrecciano tra di loro e rimandano gli uni agli altri in una sintesi indissolubile, che attraversa il nostro passato, dal Risorgimento alla prima guerra mondiale, dalla seconda guerra mondiale alla Resistenza, alla scelta della Repubblica. L’Italia, uscita distrutta e umiliata dalla seconda guerra, ha saputo rinnovare, pur nelle differenze ideali e politiche, lo spirito unitario e darsi, con la Repubblica, una Costituzione democratica.
Una Repubblica, come recita la nostra Carta costituzionale, fondata sul lavoro, sui principi di uguaglianza, giustizia sociale e solidarietà, entrata in vigore nel 1948 (approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata da De Nicola il 27 dicembre), prima ancora dell’approvazione, nell’ambito dell’assemblea delle Nazioni unite, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi, 10 dicembre 1948).
Né l’uno né l’altro testo potrebbero essere compresi fuori dal contesto storico in cui sono stati prodotti: il mondo usciva da una guerra in cui si erano fronteggiati non solo eserciti, non solo interessi economici, non solo idee diverse di governo del mondo ma due modi antitetici di concepire la persona, nella sua individualità e nella sua natura sociale, due visioni contrapposte dell’umanità. In quei giorni si ponevano anche i presupposti del processo che avrebbe portato, dieci anni dopo, con il Trattato di Roma, all’istituzione della Comunità economica europea, prima forma della futura Unione europea (Trattato di Parigi di costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio-Ceca, del 18 aprile 1951; Trattato di Roma del 25 marzo 1957).
Era l’avvio di una lunga fase storica di pace mai conosciuta prima dai paesi europei, e neanche dall’Italia, la cui storia preunitaria non solo era stata caratterizzata da guerre interne, ma anche da dominazioni, dirette o indirette, di potenze straniere (ma oggi europee), tanto che le parole dell’“Inno degli italiani”, scritte da Goffredo Mameli (1847), che aprono la seconda strofa sono: Noi siamo da secoli/ calpesti, derisi,/ perché non siam Popolo,/ perché siam divisi, a sottolineare la sottomissione ma anche la più alta forma di disprezzo, la derisione, causate dalla secolare latitanza di uno spirito unitario anche in senso politico, in un Paese che peraltro deteneva e continuava a produrre un patrimonio comune senza pari, come quello artistico e letterario.
L’unificazione del Paese, con la nascita del Regno d’Italia, dopo i secoli in cui eravamo «calpesti e derisi», coronava l’auspicio del testo di Mameli: Raccolgaci un’unica/ bandiera, una speme,/ di fonderci insieme/ già l’ora suonò, e avviava la storia dello Stato italiano che dura ormai da centocinquantasette anni, al netto della parentesi, fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, che dobbiamo ricordare come una tragica soluzione di continuità politica e come ritorno all’occupazione straniera, con una parte d’Italia di nuovo nelle mani tedesche e un confine che passava lungo l’Appennino.
L’esito della seconda guerra mondiale fu come un crinale spartiacque nella nostra storia. Il cardine di questo cambiamento è fissato nella Costituzione, nell’articolo 11 dei principi fondamentali, che recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Prima dell’approvazione di questo articolo della Costituzione la guerra si era resa necessaria per dare unità al nostro Paese, durante il Risorgimento; fu combattuta contro forze eterogenee, diverse e divise, anche se nell’immaginario collettivo prevale l’idea di un nemico che parlava tedesco e si identificava nei simboli imperiali asburgici, gli stessi che i nostri avi si trovarono a fronteggiare sui fronti della prima guerra mondiale, gli stessi, sotto altre insegne, che a un certo punto della nostra storia, dal 1943 al 1945, avevano occupato l’Italia, interrompendo la continuità dell’Unità nazionale, contro i quali una parte degli italiani insorse nella lotta di liberazione e prevalse, grazie anche all’aiuto militare degli Alleati. Per questo echeggiano nell’inno nazionale italiano riferimenti all’«Aquila d’Austria » che «le penne ha perdute», espressioni figlie di una stagione i cui valori, perché tutti noi e soprattutto i giovani e gli studenti italiani di oggi li comprendano pienamente, hanno bisogno di essere storicizzati.
Ci sono state nella nostra storia guerre necessarie, come quelle risorgimentali, senza le quali non si sarebbe compiuto il percorso verso l’Unità italiana. Ce ne sono state altre dalla legittimità discutibile, come quelle coloniali; altre ancora, come la prima guerra mondiale, che sarebbe ingeneroso verso la memoria di chi vi trovò la morte o di chi combatté considerare non opportune. Ci fu poi la seconda guerra mondiale, in vista della quale il regime fascista aveva addestrato alle armi, fin dai piccoli Balilla, milioni di italiani, in cui non si trattava per il nostro esercito di difendere confini o di completare il processo risorgimentale, ma di aggredire paesi vicini, già amici, a scopo di conquista. Gli italiani si sono trovati in armi in varie circostanze e su vari fronti, diciamo anche con diverse e più o meno giustificabili ragioni storiche per imbracciare le armi: la bandiera era sempre la stessa, ma il vento che la faceva sventolare profondamente diverso.
Dopo la seconda guerra mondiale, la Resistenza e soprattutto grazie alla Costituzione che l’Italia si è data, il vento che agita la nostra bandiera è uno solo, il vento della pace. E l’inno di Mameli, solo da pochi mesi passato dalla fase della provvisorietà all’adozione stabile e permanente quale inno nazionale, pur richiamando alle storiche virtù guerriere, deve indicarci la via per l’affermazione pacifica delle nostre eccellenze. Oggi le note risuonano come richiamo identitario, possono commuovere, devono motivare ma in un contesto di pace, collaborazione e possibilmente concordia con gli altri stati europei, perché oggi siamo cittadini italiani ma anche cittadini dell’Unione europea, la realtà che ha l’indiscutibile merito storico di avere assicurato oltre settant’anni di pace fra popoli che si sono storicamente combattuti nei secoli. Una realtà non ancora del tutto compiuta, a volte vissuta con diffidenza, se non repulsione, dall’emergere di vecchi e mai sopiti egoismi nazionali. Una realtà che deve riprendere il cammino, tracciato dai padri costituenti, verso un’autentica unità di popoli; solo così sarà in grado di affrontare i grandi problemi globali che si sono affacciati e che caratterizzeranno inevitabilmente il futuro.
L’inno, la bandiera, la Costituzione democratica, la tormentata e sofferta storia dell’Unità nazionale non sono più valori e simboli di un popolo che si chiude entro i propri confini e si erge a sfidare lo straniero; li abbiamo portati, insieme con una tradizione culturale straordinaria, nel patrimonio comune europeo, in una realtà che il nostro Paese fin dalle origini ha contribuito a creare, credendo sin dall’inizio a un progetto mirato non ad annullare le singole identità dei paesi europei, ma a farne fattori di una grande stagione istituzionale europea.
Note
[*] ⇑ Intervento di Giorgio Gaietta, presidente dell’Istituto, tenuto il 17 marzo 2018 a Vercelli, nel Salone storico della Prefettura, nell’ambito della celebrazione del 157° anniversario dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera organizzata da Prefettura, Città e Provincia di Vercelli.